Benin,Togo & Ghana.
L’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere.
E’ un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo.
E’ solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa.
A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste.
“Ebano” di Ryszard Kapuściński
Per chi ama l’Africa che non esiste basterebbe dire che ho visto i baobab in fiore.
Parigi. Aeroporto Charles De Gaulle. La folla di africani è alla costante ricerca di qualcuno che possa prendersi a carico una parte delle loro innumerevoli valigie, scatole di cartone e casse di legno. Tentano di portare a casa più cose possibili risparmiando le tasse extra per il peso in eccesso. Al check-in attendono con fiducia un portatore. La “dama nera” della Costa d’Avorio si è affidata a me. Nel pavimento di marmo mi tiro dietro la sua valigia con le ruote: il bagaglio supera il limite consentito. Scherzando gli chiedo se trasporto bombe o droga; il sorriso fascinoso in risposta rassicurerebbe chiunque e nega ogni intenzione terroristica. La ragazza alle carte d’imbarco sorride accorgendosi del trucco innocente e non accenna minimamente ad un rimprovero. Oltrepassiamo la dogana. La posizione mi permette di gettare un’occhiata sopra la spalla dell’addetta al controllo bagagli. La ragazza minuta guarda con un’espressione professionale la schermata ai raggi x e io alle sue spalle spio incuriosito. Sullo schermo appare l’interno della valigia: i contorni degli oggetti variano dal verde fosforescente al giallo cromo. Vedo perfettamente il fermo immagine del contenuto, distinguo sacchetti di caramelle, piccole bambole e modellini di automobili in plastica e metallo.
Giocattoli – frullatori robotizzati – radio a transistor. L’Africa e l’Europa si scambiano maschere di legno - regali tecnologici e scatole di antibiotici…
L’Air Afrique diviene un frammento di terra africana a settemila metri dal suolo. Solo un bimbo bianco si lamenta piangendo.
Cotonou. Benin.
La notte è uno schiaffo guantato di vento caldo umido. Il buio diviene subitaneo compagno insieme alla confusione; il tassista e il suo aiutante assicurano di sapere dove si trovano le capanne di Les Alizes, ma ormai dovrei saperlo che rispondono in maniera affermativa anche quando non sanno minimamente dove dirigersi. Dopo una serie di domande, per trovare la strada giusta, c’inoltriamo su di una sterrata argillosa al limitare dell’eco del mare. Nel buio più completo il mare non si vede e il fantasma in tumulto annuncia la sua presenza con un rumore di fondo costante.
Capanna di canne e fruscii misteriosi per tutta la notte.
Nella Jonquet Plage un ragazzino magro gioca a calcio con un pallone immaginario, calcia la sabbia tracciando colombelle e respinte in rovesciata, scarta il vento come fosse l’avversario e salta i contrasti al limite dell’aria di rigore inventata al momento.
Per ricavare un poco di ombra gli alberi sono stati modellati dall’uomo a formare un pergolato. Oggi il cielo è grigio e il riparo arboreo non serve assolutamente a nulla. Il mare in subbuglio è sollecitato dalle nuvole scure a demolire la battigia di sabbia giallo-sporco. I cucinieri africani si prodigano in ogni modo per farci sentire a nostro agio, nonostante la meteorologia da fine del mondo: - Bonjour - Bien reposé ? – Comme ça va madmoiselle?
Le capanne sono asserragliate sotto alberi di mangrovia e assediate dalla sabbia; le sdraie di legno si sbriciolano intaccate dall’umido. Un espositore porta-cartoline, ossidato e privo di immagini turistiche, resta in posizione obliqua orfano di una delle tre ruote. Le cose rimangono in vita solo se il ritmo veloce del mondo si piega – si spezza – rallenta e si ferma in questi luoghi di confine. In caso contrario l’abbandono smembra le sedie, i tavoli, le tovaglie rammendate, il burro diviene un composto terroso e il pane raffermo.
La via litoranea corre da Cotonou a Ouidah su di una pista di terra e sabbia. Oltrepassiamo villaggi in riva al mare e piantagioni di palme da cocco.
Il Forte di Ouidah: l’antica fortaleza di Sao Joao Batista è la sede del Museo Storico. In una carta portoghese, tracciata da Sebastiao Lopes nel 1570, sono evidenziate le terre conquistate e i territori ancora da conquistare. La mappa presenta tutti gli approdi possibili della costa e i fiumi navigabili che permettevano di spingersi all’interno del territorio per saccheggiare e catturare gli schiavi. In una vetrina del museo, le monete portoghesi e i cauri sono contenuti nello stesso forziere; i regnanti vendevano i propri sudditi in cambio di armi e suppellettili d’argento. Sulle pareti sono appese le stampe dell’epoca coloniale: feste con gli ambasciatori di potenze straniere, danzatori locali, amazzoni guerriere e il popolo che osserva stupito i conquistatori. Una tavola geografica riporta la mappa del Senegal in cui è evidenziata la città di Goré, luogo di raccolta degli schiavi, e nella cartina sono tratteggiate le rotte delle navi negriere dirette a Haiti e in Brasile. Una bandiera, con le teste decapitate di schiavi incatenati, fu spedita al Principe del Portogallo nel 1811 a dimostrazione della forza e del clima di potere assoluto instaurato nell’antico regno del Dahomey. In alcune carte esplicative è stato disegnato perfettamente il sistema di stivaggio degli schiavi, per utilizzare al meglio lo spazio sulle navi. In Brasile le donne divennero “schiave di casa” e gli uomini furono mandati al lavoro forzato nei campi di canna da zucchero, tabacco e cacao. Salvador de Bahia diventò il capolinea per molti prigionieri. Una parte delle stanze del forte sono destinate alla storia delle pratiche vudù in Benin, in Nigeria e in Brasile. Il museo ha una mostra fotografica molto esauriente: dalle cerimonie cubane alle rappresentazioni di divinità contro il vaiolo, la malaria e la pazzia.
Simboli - emblemi - segni - provocano il male e favoriscono le guarigioni…
Nel vudù esiste l’essere supremo e una serie di spiriti minori in contatto con gli antenati. I sacerdoti sono in grado di comunicare con i morti attraverso riti di possessione e divinazione. Ogni singola “chiamata” ha lo scopo di intercedere con i defunti, implorare l’attenzione e la protezione. In alcuni casi l’invocazione degli antenati è per uno scopo preciso: la salute, un matrimonio, la fortuna al gioco, un buon raccolto. Gli spiriti sono i Loa. Legba è il dio protettore, Mambo il dio che si raggiunge attraverso la danza. Il vudù trasportato nei Caraibi e in Brasile si è arricchito di altre divinità evolvendosi in una precisa religione, banalizzata dalle rappresentazioni cinematografiche. L’utilizzo dei santi cristiani denuncia chiaramente il sincretismo con la religione cattolica. Cattolici di giorno e pratiche vudù di notte. Nel 1996 il governo del Benin ha riconosciuto il vudù come una vera e propria religione in tutte le sue pratiche.
La strada scende da Ouidah sino al mare. Una linea di sabbia e argilla accostata alla laguna, dove sorgono isolotti e villaggi raggiungibili con le canoe di legno.
La “Port Du Non Retour” è un regalo dell’Unesco, commemora tutte le vittime dello schiavismo nell’Africa Occidentale e sorge agghiacciante sulla spiaggia. Un urlo bianco e rosa che contrasta con il cielo nero di nuvole. E’ intaccata dalla salsedine e le statue di ferro in stile moderno sono arrugginite, altre irrimediabilmente distrutte. Non molto lontano un monumento è stato costruito per celebrare il Giubileo 2000 e mostra la sagoma dell’Africa che fa da sfondo ad una grande croce bianca; la costruzione è la porta del “secondo non ritorno”, la celebrazione della “pietas”, è l’ennesima affermazione di un altro mondo, la traduzione cementata del senso di colpa dei conquistatori dell’anima.
Chiese – moschee e ricerca di supremazia religiosa.
L’arco di pietra di fronte al Golfo del Benin. La “Porta del non ritorno” si apre come uno schermo gigante che trasmette il susseguirsi di onde lamentose. I prigionieri percorrevano gli ultimi chilometri della loro terra: rumori di catene e urla spezzate, strozzate dal morso di legno legato dagli schiavisti nello stesso modo in cui si assoggetta il cavallo alle briglie. Trasportavano uomini che avevano negli occhi ancora impresse le immagini dei loro villaggi dati alle fiamme, la morte delle madri anziane e le urla di bimbi abbandonati, sgozzati dietro di loro perché non utili al commercio. Uomini forti dai muscoli scintillanti di sudore e scossi da tremiti di rabbia, di paura, di incredulità. Quattro chilometri sulla polvere rossa. L’ultima terra africana calpestata poco prima di lasciare per sempre il respiro delle foreste. Quattromila passi e poi il vuoto, l’ignoto… Rumori di frustate e incitamenti rabbiosi di uomini in divisa, di altri fratelli neri, di meticci, di gente arrivata da chissà dove. Qualcuno tentava la fuga all’interno di territori mai esplorati, con il terrore che non lascia il tempo a ragionamenti razionali. La fuga da quelle vele bianche, così candide da apparire inoffensive e accolte con la curiosità dei semplici. Per alcuni non c’erano dubbi: gli spiriti li avevano abbandonati per sempre, e allora via, lontano dai pianti, distanti dalle urla. Qualcuno pensò che quella era la maledizione per non aver sacrificato un animale in più nella stagione del raccolto e così il rapimento divenne per molti la giusta punizione divina.
Al ciglio della strada le statue vudù sono sentinelle appostate a ricordare il sacrificio di un milione di schiavi. Le caravelle trasportavano i prigionieri in Senegal e poi a Haiti, in Brasile, negli Stati Uniti e a Cuba. Il periodo più fiorente del commercio degli schiavi fu tra il 1800 e il 1900. Le barche lasciavano la costa per raggiungere le navi alla fonda e nel tragitto molti prigionieri si gettavano in acqua per fuggire, ma pochi sopravvivevano. La potenza militare ed economica crebbe con l’utilizzo degli schiavi. La classe regnante locale incentivò questo traffico e quando i “mestizos” ritornarono in Africa, molti di loro si diedero allo stesso commercio. Diecimila schiavi ogni anno venduti dai re del Dahomey in cambio di articoli di lusso.
Costa degli schiavi - terra di dolore - sangue e salmastro. Fatica - passi - pianto - sudore. Suoni. Arkey - gadra – bruy. Ricordi del regno di Dahomey. La scomparsa - strapp – urla. Sentieri degli yoruba in fuga. Juuk - brkak.
Le nuvole grevi - trafitte dal vento di mare - lasciano cadere gocce di pioggia calda. Scende la sera e il canto Yoruba è una nenia lontana.
Nel forte di Ouidah i più deboli erano uccisi per non comunicare l’orrore ad altri, per non raccontare il pericolo che incombeva su di loro. La pazzia dei negrieri raggiunse le foreste sino ad arrivare ai lontani deserti del nord.
In città le costruzioni portoghesi sono ruderi occupati da famiglie numerosissime. Nella parte vecchia è accennato il tentativo coloniale di dotare i quartieri con un sistema di canali di scolo in muratura. Nonostante questo tutto quello che i conquistatori lasciarono dietro di loro ricorderà per sempre la cecità della storia, l’incredibile pazzia collettiva che garantiva il commercio umano, di popolazioni trattate come animali, semplice merce di scambio…
L’aria fresca allontana la tragedia dell’Africa.
Minuscoli uccelli colorati si inseguono tra i colonnati demoliti delle case. Sotto la pioggia i petali del frangipane diventano morbide ali di farfalla. Che sollievo l’Africa verde. Nel ritmo della musica fuoriesce la natura più segreta della foresta e i suoni Caraibici ritornano nella terra d’origine.
Cotonou è una follia travestita da città. L’autista inavvertitamente scontra un taxi de brousse e si scatena una discussione dai toni prima lamentosi e poi irati. Rimaniamo mezz’ora senza sapere che cosa succede; imbottigliati nel traffico fumoso, ossessionati dal caldo e affumicati dai motorini che spargono olezzi di “melange” mal carburata. Lungo la strada si incontrano i botteghini del Loto per le scommesse sui cavalli che corrono negli ippodromi inglesi, ma pochi sanno dove sia l’Inghilterra in realtà. Abbandoniamo il fumo degli zimidjan, motorette che fungono da taxi, per il fumo di un incendio nelle piantagioni di Abomey-Calavi, presso l’imbarco per i villaggi della laguna.
Il pesce fritto giace decomposto nel mio piatto di metallo a fiori. La cenere vortica sospinta dalla brezza della laguna. Il caos a tratti si ritira in riposo e la musica ad alto volume tace. L’imbarco è in parte insabbiato, impantanato in una palude di fango nero. Le piroghe a motore, a vela e a remi si incastrano una all'altra cariche di merci per Calavi, altre sono in partenza per il mercato sull’acqua di Ganvié, nella laguna di Nokoué. Le donne trasportano il pesce pescato dagli uomini con una pratica antichissima: le frasche e le canne formano nasse giganti e all’interno i pesci crescono sino a non poter più uscire, quindi sono catturati con piccole reti. Ganvié è la più grande città palafitticola dell’Africa ed è formata da isole artificiali costruite con palificazioni e terra battuta.
Le capanne a palafitta sembrano chiome di alberi surreali che sorgono dalle acque…
Le piroghe sono tronchi scavati sospinti da lunghi pali. Una canoa è colma di pomodori; la donna con un enorme cappello di paglia si destreggia tra le palafitte per vendere la mercanzia. Tutte le attività della terraferma sono state riprodotte in questa città ramificata a canali. Entriamo in quella che è chiamata la “Via degli Innamorati”.
Dalle fessure - tra le assi del pavimento - giunge lo scricchiolio degli scafi contro i pali di sostegno e i riflessi dell’acqua limacciosa.
La via del Grand Canal è indicata da un cartello sghembo, infisso nel fondo fangoso. I ragazzini camminano con l’acqua all’altezza dell’ombelico e pescano con una piccola rete assicurata ad una bottiglia di plastica. Le canoe raccolte sotto una tettoia segnano il luogo del mercato di frutta e verdura. Una scimmia è legata alla catena sulla casa zattera, e il rifugio assume le apparenze di un pezzetto di foresta immaginaria lontana dalle terre originarie. Piantare i pali, sostituirli, legare, battere, stringere i nodi, tutto questo è lavoro di ogni giorno. Sembra impossibile che il tranquillo mare interno, a prima vista innocuo, possa demolire ogni cosa così profondamente da renderla inservibile.
Madame “Emme”.
Madame “M” è una donnona enorme seduta su di uno scranno di legno scolpito, modellato in modo da contenerla tutta. E’ adagiata nella valva di un’ostrica - perla dai colori sgargianti. In questo caso la perla è nera, vestita con un abito giallo e rosso e un fazzoletto annodato in testa. L’oro della collana e degli orecchini sono fantasie fosforescenti nella notte color pece della pelle. Lei è nata su questo frammento di mondo, da una matrice di legno e terra, e in questi pochi metri quadrati ha imparato a camminare, è cresciuta, si è industriata a vendere oggetti comprati in città. Su quest’isola artificiale è stata corteggiata, amata, qui ha partorito piccole schegge d’ebano vestiti oggi come principi ereditari. Gli invitati al suo matrimonio solcarono festaioli le acque per poi ritornare alle capanne ubriachi e serpeggianti. Le barche transitano di fronte alla capanna-albergo, si fermano e lei ha una parola per tutti e tutti le rispondono con molta considerazione e reverenza. Donna importante, burbera e materna nello stesso tempo, la sua voce ordina, ammonisce e si scalda di dolcezza nei complimenti che diventano regali divini. Il viso tondo scioglie i sorrisi e si squaglia in fragorose risate tra una birra ed un'altra. Sacerdotessa acquatica, sirena ingrassata, forse madre capostipite di tutti i bimbi che passano sulle piroghe. Lei è l’ape regina. Le unghie dei suoi piedi sono artigli smaltati di rosso. Madame Emme si ritira nell’ombra a riposare e i bimbi spariscono con lei. Ora che dorme è scesa una calma improvvisa, le pagaie diventano lente oscillazioni prive di rumore e i richiami tra i canali diminuiscono di intensità. Tutto quanto è diventato un regno di sordomuti per non disturbare il suo riposo.
Due bimbi piccolissimi passano silenziosi - spingono la canoa nella zolla di terra di fronte dove due maiali si confondono con il fango.
I pozzi dell’acqua dolce sono posti nei tratti di terra battuta. Le canoe avanzano con le fiancate al pelo dell’acqua, cariche di bidoni contenenti acqua potabile, e le discussioni intorno al pozzo sono continui vocii di proteste. Una donna trasporta brodaglie misteriose annunciando la sua presenza con una cantilena che segue il ritmo del remare.
Una pietra magica - nascosta nel fondo della laguna - mantiene in vita ed aiuta a sopportare le febbri reumatiche e la dissenteria.
Flush – il remo spinge. Flush – la rete cade nell’acqua per un piccolo pesce soltanto. Uha – ne – wai – le parole rendono vive le sponde palafittate. Intere famiglie si allontanano nei canali d’acqua marrone e da lontano gli abiti danno l'impressione di galleggiare. Spiriti rivelati dal contrasto cromatico e dall’energia dei colori smaglianti.
Afo – javò. Buongiorno uomo bianco. Piazza d’acqua. Vie increspate dove galleggiano grandi foglie di mangrovia. La ragazzina vestita di bianco rema e canta una melodia che sconquassa l’anima. Un ragazzo procede in silenzio - indossa la maglia della nazionale italiana di calcio con i colori sbiaditi.
Il villaggio di Ganvié è stato costruito nel 18° secolo dalla popolazione dei Tufinu, in fuga dal popolo Fon. Si racconta che la religione dei Fon proibisse loro di entrare nell’acqua ed è per questo motivo che non sconfissero mai i nemici galleggianti.
Te - hiè - trasportano l’acqua a casa - acqua trasparente su di uno specchio di fango liquido. Bong – dare da bere – sfamare. Far credere. Rendersi invisibili a comando - per nostro gioco - passione oppure pazzia. Perdersi nell’analisi del mondo. Clack - ciabattiamo parole ritorte come scarpe arabe - per paura del silenzio - del vuoto - delle ombre - della morte. Gheui - suoni stranieri e sconosciuti significati. Gioco sonoro di vocali e semplici ansimi gutturali. Di sospiri condiamo un’insipida minestra - adorniamo d’alloro racconti di falsi ritorni dal fronte. Smash - canzoniamo la morte per paura. Creak - adoriamo le parole d’amore in maniera così eccessiva che amiamo più dirle che baciare. Crash - delizie. Sapori mirabili e aromi di paradiso. Sdeng - negli occhi socchiusi – gli umidi ricordi dell’infanzia cercano riparo.
La confessione di Monsieur Noir.
E’ stata una scelta causata da tanti fattori esterni, ma decidemmo di non costruire acropoli eterne sulle nostre zolle di fango pressato. Nel nostro animo non esistevano grattacieli di vetro e acciaio, ma solo capanne di paglia e palafitte. Pali di bambù con le stoffe legate alle schermaglie del vento. Non avevamo bisogno di certezze, di concretezza, i nostri desideri più profondi vagano ancora nello spazio, nell’anima dei nostri antenati. Non desideriamo realizzare sogni complicati ed avere l’obbligo di alimentarli di continuo. La purezza. Il caso. La nostra è genesi dell’acqua. In questo vuoto avremmo potuto costruire ogni cosa, ma decidemmo di non erigere le pesanti affermazioni marmoree delle statue, obelischi, ma piuttosto feticci di fango e sterco. La nostra piazza è uno spazio aperto a tutto ciò che può e deve accadere. La durevolezza oppure la fantasia…a voi la scelta.
La notte scivola lentamente. Trae in inganno il vocio galleggiante e disegna distanze nel buio. La luna è stretta in una morsa di nuvole.
Le ragazze gironzolano ridanciane, entrano nella capanna e chiamano le amiche dalla finestra per annunciare la presenza di stranieri.
In silenzio appaiono improvvisi navigatori solitari - fantasmi notturni.
Nella capanna di canne filtra la debole luce del cielo intimidito dalla foschia. Le pagaiate e gli sciabordii d’acqua smossa mi risvegliano con lo stesso identico ritmo di ogni giorno. Le piroghe scontrano i pali di sostegno di questo ragno di legno e tutta la struttura trema lievemente all’urto.
“L’Eglise du Christianisme Celeste” sorge su di un pezzo di terra, vicino alla chiesa alcune capanne circondano una bianca bandiera che indica la presenza di un prete vudù.
Bonjour javò. La piroga avanza nell’acqua limacciosa e attraversa i canali; oltrepassiamo le aie d’acqua, paludi e pescatori con le reti a sacco. Siamo accompagnati da una litania interpretata dai bimbi, a volte da adulti in vena di infantilismi: bonjour javò è la parola d’ordine, accompagnata dall’aggiunta di “argent” e un eloquente movimento delle mani che mimano lo sfregamento dell’indice con il pollice. La canoa di un sarto, quella di un medico, l’ufficio postale, animali affogati con il ventre gonfio. Non esiste la polvere ma la vita è ugualmente faticosa e non c’è tregua: pescare, vendere, contrattare, remare e risistemare i pali più a fondo.
In uno dei molti isolotti il grande ospedale è poco lontano da una moschea di fronte alla quale sorge un “capannone-chiesa”: cupa – grigia – sgraziata, riconoscibile soltanto dal simbolo della croce dipinta in calce bianca sgocciolata.
I dolori personali passano in secondo piano - sembrano facezie - fisime intellettuali - parrucche posticce per una festa in maschera.
E’ lunga l’attesa sull’isolotto di Madame M e il ritorno a Calavi è previsto per domani mattina. Oggi l’aria di tempesta non si risolve e il panorama resta lattiginoso.
Sono una cassa armonica vivente e rimando la eco di innumerevoli bambini che urlano “monsieur” non appena mi vedono. I ragazzini della casa ci adottano come giocattoli preferiti, poi impazzano con corse e salti pericolosi che a turno causano pianti irrefrenabili. Improvvisamente spariscono; li ritrovo inginocchiati a terra per punizione…la nostra tranquillità gli è costata cara.
I sorrisi allargano le scarnificazioni rituali del viso. La luna è piena e i pipistrelli in volo rasentano le ombre. Una canoa con le frittelle dolci di mais attracca alla capanna.
Blues del turista americano: - Coltivo cotone in una terra straniera e continuo a sognare foreste estranee a questo luogo. Sono intriso di rumori e odori che non riconosco. Il passato si ferma - congelato nei ricordi di mio padre. Quando ero bambino lo assillavo di domande e lui rispondeva di aver perso la memoria. Il soprannome di mio padre divenne “Ermetic”. Il passato sembrava non esistere più e così anch’io ho eliminato il “ricordare” dal mio vocabolario. Sono americano - diceva - e quello era sufficiente. La casa, la terra - gli anni di lavoro. Continuava a ripetere che Dio dispone – ed io profondamente ateo non riuscivo a capacitarmi di quel senso di sconfitta e rassegnazione che defluiva da lui – la consideravo un’affrettata dimenticanza e negazione del passato. Ma da dove - chiedevo - arrivavano i nostri antenati. Quando esplicitavo il pensiero a voce alta, un’aria pensierosa e lontana si insinuava nello sguardo dei vecchi.
Generazioni di uomini e donne - strappate alle foreste e alla savana - hanno reso ricche le terre d’occidente e alcuni fingono di non ricordare.
Il sonno notturno è accompagnato da canti e suoni di tamburi lontani - voci di una cerimonia misteriosa. Il dolce cullare delle nenie è interrotto dall’alba, dagli sciabordii e dai richiami di mercanti sull’acqua.
Ganvié – Abomey Calavi.
Il tronco scavato scivola leggero sull’acqua marrone.
Steven e il suo amico remano con energia, cantano l’alleluia con un ritmo africano e così inizialmente non riconosco il motivo religioso, intervallato com’è da brani sospirati nel dialetto locale. Una piroga a vela ci passa vicino, la stoffa è formata dai sacchi del WFP, World Food Program, cuciti insieme. La parte involontaria del progetto, legata all’utilizzo fantasioso delle stoffe dei sacchi di riso, è sicuramente un successo. Il contenuto non ho idea che fine possa aver fatto e i grandi progetti di cooperazione hanno una notevole dispersione… Nelle città le Toyota nuove fiammanti sfrecciano e portano i loghi dei progetti internazionali.
A Calavi un taxi de brousse sembra aspettare solo noi, occupiamo gli ultimi due posti e possiamo partire. Arrivati a Boichon con due motorini-taxi giungiamo ad Abomey e ci facciamo lasciare da Mr. Lutta, in un terribile e fantastico auberge. Jeannot è un omone nero come l’inchiostro, parla l’inglese francesizzato e quando si occupa della cena diviene leggero, gentile e aggraziato nonostante la mole da lottatore di sumo. Lo pseudo-albergo è rimasto fuori delle rotte classiche dei turisti organizzati e ultimamente è ignorato anche dai viaggiatori individuali; in effetti le condizioni delle stanze sono minimamente accettabili. Questo è uno dei tanti luoghi destinati a scomparire, traditi dall’incuria e dall’abbandono. Questo spicchio di terra, con la costruzione fatiscente, è solo un miraggio tra la foresta e la strada argillosa; la nota positiva è la fresca Bière Bèninoise.
…una principessa e una pantera provenienti dal Togo, misero al mondo quattro figli; uno di loro morì in tenera età, gli altri fondarono tre regni: Abomey, Allada e Porto Novo.
Abomey fu capitale del Regno di Dahomey. I palazzi reali sorgono nella regione popolata dai Fon che giunti dal Plateau civilizzarono l’area. I primi edifici sono stati costruiti nel 1645 dal terzo re, e i regnanti successivi hanno eretto altre costruzioni dando vita ad un’enorme complesso palaziale che occupava un’area di quaranta ettari.
Le mura alte dieci metri correvano per un perimetro di quattro chilometri e la città era protetta da un lungo e profondo fossato.
Fango…per costruire il più grande palazzo reale dell’Africa Occidentale.
I cortigiani della Città Reale superavano le undicimila unità. Quando arrivarono i francesi la casa signorile fu data alle fiamme e oggi i padiglioni e le corti interne rimangono visibili solo in parte. I re defunti venivano sepolti all’interno delle mura e per ognuno di loro è stato costruito un tempio apposito. Ogni anno in onore dei dignitari defunti si eseguivano sacrifici umani di schiavi e prigionieri di guerra.
I re del regno furono undici, i più importanti sono: Agoglo, Ghézo, Gogo e Glélé. L’ultimo re è morto esule in Algeria nel 1906. In una stanza il trono di Gogo appoggia sopra quattro crani di nemici nigeriani, uccisi in una delle tante guerre locali. Gli undici troni di legno scolpito sono i simboli dei re che si sono succeduti nei secoli.
Un piccolo cannone francese è perfettamente conservato e il nostro anfitrione con tristezza dice che all’epoca è costato quindici schiavi.
Alle tombe dei re, ancora oggi, ogni cinque giorni portano cibo e acqua. Il mausoleo di Glélé è un grande tucul con le pareti di fango e il tetto di paglia. Il tempio è stato costruito impastando il fango con il sangue di quarantuno schiavi.
I palazzi imperiali, pur non essendo una perla architettonica, sono costruzioni imponenti rispetto al mare di case fatiscenti tutto intorno.
Il mercato della città è una baraccopoli e le strade che dipartono dalla piazza centrale si disperdono nei quartieri diroccati. Il resto è confusione e sfilate di giovani donne che vanno a prendere l’acqua al pozzo. I bar diffondono musica assordante e un barbiere taglia i capelli contornato da sette aiutanti sfaccendati in cappa blu.
Con i motorini andiamo alla ricerca delle mura di fango della città antica: scoviamo feticci protetti da piccoli templi, altri riparati semplicemente da tettoie di lamiere ondulate.
Lungo la strada e vicino ai villaggi è un susseguirsi di raffigurazioni storiche e simboli dei regnanti: leoni, uccelli, elefanti e scimmie. Sostiamo in luoghi dove il tempo ha cancellato quasi ogni cosa e la vegetazione ha ricoperto i ruderi. Gli uomini hanno energia sufficiente solo per sopravvivere, non si curano certamente di salvare il Palais Akaba, il Tempio di Zéwa, o quello di Sémassou.
Perché tutto questo dolore, perché il dolore diviene rabbia e la rabbia senso di vuoto.Forse anch’io ho attraversato la porta nel non ritorno...senza accorgermene. Io che pensavo di aver allenato la mente e l’anima nel modo migliore, com’è possibile non trovare il modo per partecipare di nuovo al mondo. E il mondo continua a transitare con le calabasse colme d’acqua sulla testa e le biciclette cigolanti. Che cosa cerco; perché armo la prora, quando invece vorrei disarmarla e salpare verso il mondo. Un cane si avvicina accontentandosi della suola delle mie scarpe per sentire un contatto umano. Che tragedia soffrire, mentre osservo persone che hanno soltanto il sorriso da regalare.
La musica di un organo e il canto sommesso escono da una chiesa nascosta tra le palme di cocco e i carrubi giganti. Improvvisamente un albero si anima di mille uccelli gialli risvegliati dall’Amen finale.
Siamo in attesa di un mezzo qualsiasi che arrivi a Paraku, nel nord del Benin. L’attesa si protrae per ore sulla strada di Boichon.Il fumo e la polvere riflettono il colore grigio del cielo, per fortuna il caldo è sopportabile. Gli arrivi e le partenze avvengono sulla strada trafficata: bagagli incastrati per magia dentro mezzi strapieni. C’è chi compra i viveri per uno spostamento che potrebbe durare un’ora come una settimana. Stiamo aspettando altri quattro passeggeri per partire con un finto taxi.
Nel frattempo transita un funerale. Il feretro è caricato su di un’auto e i parenti che seguono intonano canti lamentosi e ballano in maniera sfrenata.
Sei ore di viaggio rallentato dalle innumerevoli dogane e dai confini provinciali, dove gli autisti pagano i pedaggi e altre tasse illegali per continuare. Parakou – Djougou – Natitingou. La catena montuosa dell’Atakorà si avvicina, protegge questo territorio abitato dall’etnia Somba. Natitingou è un grande villaggio, diviso centralmente dalla strada che prosegue per il nord del paese e raggiunge il Togo.
Le nuvole apparse all’improvviso interrompono lo spettacolo del tramonto.
La frittella di miglio ha un retrogusto di strada, di polvere, di quel mondo instancabile che alle mie spalle continua a rincorrersi, in una strada perfettamente diritta che vince le colline e le pianure verdissime. Terra verde e baobab rigogliosi, un’esplosione di vita, una magia di fiori e frescure che lasciano solo lontanamente immaginare la durezza del caldo, la forza del sole, l’angoscia della mente affogata dal sudore.
I Somba parlano la lingua kabyè e il loro nome significa “Popolo nudo”; in realtà il governo del Benin nel 1958 ha imposto loro di coprirsi. Appartengono al gruppo etnico dei Betamaribé e non vivono radunati in villaggi; le capanne sono piccole fortezze, costruite in questo modo a scopo difensivo. Sorgono sparse nei campi coltivati nel nord del Benin e del Togo. In Togo la popolazione prende il nome Tamberna e vive sulle pendici della catena dell’Atakorà che si sviluppa in entrambi i paesi. L’isolamento è il motivo della loro sopravvivenza e non sono stati influenzati dal cristianesimo né dall’Islam. Neppure i portoghesi riuscirono a renderli schiavi, si salvarono nascondendosi nelle gole e nelle grotte delle montagne.
Conoscere le cose spesso significa distruggerle…
La visita ai villaggi somba si annuncia umida, dopo l’intera nottata di pioggia. La strada lascia la città trasformandosi in una sterrata argillosa e infangata. Le nubi nascondono i margini dei campi verdi di miglio dove le silhouette delle capanne tata-somba e dei baobab verdi sembrano disegni a china, stampati sopra il grigio umido delle nuvole. Compare il sole. Le capanne, ora perfettamente visibili, sono fortini da cui sbucano i tetti conici dei granai, il proseguimento in verticale dei rossi sentieri che tagliano i campi coltivati. Le capanne appaiono castelli in miniatura con gli ingressi strettissimi e si sviluppano in tre livelli: la stalla e la cucina, i ripostigli e i granai conici, le stanze e il tetto a terrazza. Di fianco all’ingresso sorge l’altare dedicato agli antenati. L’anziano padre di Remy, un ragazzo somba che lavora in città, sta aggiustando una vecchia calabasse ridotta in frantumi. Tutta la famiglia viene a salutarci incuriosita: bimbi nudi e cani scheletrici. Nella piana un gruppo di ragazzini insegue un gatto selvatico, l’unico predatore rimasto in queste zone, e riescono a prenderlo con l’aiuto di un cane. Ci spiegano che i gatti della savana sono cacciati perché mangiano i pulcini.
Le verdi colline proseguono verso il Togo e dai passi più alti è possibile vedere il territorio vicino.
Le scarnificazioni rituali che incidono i visi - hanno un significato religioso e a volte sono disegni complessi. Il loro scopo è di impedire agli spiriti negativi di entrare nel corpo.
Le donne nei campi cantano e più la fatica è gravosa più il canto è dolce. Più è grande la sofferenza e maggiormente alternate sono le melodie armoniose. La donna dice: - non mi fermo a piangere - io canto per asciugarmi il sudore - canto durante il parto e canterò al funerale di mio figlio. Canto la stagione delle piogge e canto l’arsura estiva. Non mi stanco di cantare - come il sole non prova fatica a sorgere e la luna a divenire piena. Canto perché - per chi non possiede nulla - la tristezza e il silenzio sono un fardello troppo pesante da trascinare.
I bianchi inseguono il sole - i neri lo possiedono.
La chiesa protestante è ubicata dentro una casa in costruzione, mantenuta in piedi da impalcature di legno vecchie d’anni. Il canto religioso di donne e uomini vestiti di bianco, si fa strada da quello che sembra essere un cantiere edile più che un luogo di culto. Intorno alla chiesa discariche di sassi e sabbia, cumuli di ferro arrugginito. Dentro la ruota enorme di un camion, rovesciata a terra, dorme un ragazzino a torso nudo e l’alleluia non lo scuote minimamente dal torpore della fatica.
Incontriamo gli insediamenti dei Bariba, il popolo Yoruba originario della Nigeria, e dei Peul provenienti dal Sahel. L’aria è umida, la terra è umida, ogni cosa è fradicia, appiccicaticcia, e tra non molto i miei polmoni si tramuteranno in branchie.
La lunga marcia africana non si interrompe mai. Sfila - corre - danza. Passa lentamente sulla strada diretta a nessun appuntamento. Si muove per natura - per il senso del fluire e del rifluire – per la semplice ragione dello scorrere.
Aloni di nuvole basse si dissolvono dipanate dal sole caldo. L’uomo si alza, stira le membra, allunga e discioglie i muscoli rattrappiti dall’umido della notte. L’uomo si ricompone, riposiziona le gambe e la testa al punto giusto. I regni si sono dissolti ma l’uomo è ancora vivo.
Viaggiamo da Natitingou a Djougou con un taxi brousse non regolare. Dopo pochi chilometri l’autista ci fa scendere prima della sbarra che annuncia la dogana e chiama due ragazzi in motorino per trasportarci oltre i controlli. Con la nostra bianca presenza avrebbe dovuto pagare un sovrapprezzo. Lo attendiamo fiduciosi sul ciglio della strada lontano dalle ispezioni militari. A Djougou ci aspetta un altro delirio con a bordo nove persone e due bambini. Le donne indossano vestiti preziosi dai colori sgargianti. Vengono con noi in Togo. Acquistiamo noccioline e sesamo tostato per imitarle in tutto e per tutto. La pista rossa è contornata da verdi campi e le nuvole nel cielo preannunciano la pioggia che, come tutti i giorni, sarà veloce, violenta e calda. I controlli alla frontiera sono spicciativi ma professionali, complicati da una sequela di moduli da riempire. Al di là della frontiera con il Benin, la prima differenza sostanziale è che i ragazzi indossano magliette che hanno impresso il viso di un altro presidente o dei suoi generali. Dal confine al villaggio di Kara la giornata peggiora e inizia a piovere fuori e dentro il mezzo. Andiamo alla casa dello studente, ma le condizioni sono inaccettabili e raggiungiamo a piedi il Mini Rizes: un bar ristorante con due camere.
Il dialetto è diverso e il suono delle parole più dolce. I visi sono cambiati leggermente e la luce del tramonto rende simpatico questo villaggio sonnacchioso tra le verdi colline. Togo çe icì - Bien arrivé. Il villaggio di Kara è situato nella regione abitata dal popolo Kabyè. Il loro nome significa “Contadini di pietra” perché sono espertissimi agricoltori e riescono a coltivare ogni terreno, anche il più povero.
Se esiste la giustizia divina il paradiso sarà popolato da africani - se a loro interesserà. Le chiese di mille confessioni diverse…mi chiedo quale altra promessa possono fare.
Le nuvole fuggono nello specchietto retrovisore, corrono a addensarsi sopra le colline in lontananza. L’impianto di accensione automatico del taxi de brousse non funziona e ad ogni fermata l’autista scende, spinge con il suo aiutante l’ammasso di ruggine su ruote per rimetterlo in moto. Il parabrezza è una ragnatela di vetro screpolato, a ogni buca presa ad alta velocità la ragnatela sembra allargarsi sempre di più. Al lato della strada giacciono carcasse di automobili, camion e autobus che portano ancora la scritta di una linea in uso quindici anni fa. Il lavoro sporco e basilare dei trasporti è affidato a taxi di fabbricazione francese vecchi di trent’anni.
In Avenue Eyadèma i tavolini di un caffè sono isole nella corrente. Assi scardinate di un naufragio. Yoyo - uomo bianco - bien avrrivè - bonjour. Be - lah - bee - tasi. Arrivederci. Songh - psss - girati. Puzzle di visi, suoni, odori e salse piccanti. Una ragazza avanza sul sentiero con un fascio di legni sul capo e un bambino attaccato al seno.
Nel periodo coloniale i tedeschi chiamarono questa terra “Togoland”. Intensificarono la coltivazione del cacao, del cotone e del caffè, ripagandosi così della “protezione” data al potere politico locale. Per mantenere la pace interna uccisero negli anni migliaia di togolesi, introdussero i lavori forzati e la tassazione diretta delle terre. Alla fine della prima guerra mondiale arrivarono inglesi e francesi. La Francia cominciò ad amministrare due terzi del paese e l’Inghilterra il restante territorio. La popolazione dei Mina, sulla costa, divenne l’etnia più forte aiutata dai rapporti economici con l’Europa. Nel nord del paese i Kabyè riuscirono a rimanere autonomi e nel 1960, per tutti, arrivò l’indipendenza. L’attuale presidente Eyadema mantiene il potere con la forza, il suo governo è stato più volte denunciato a livello internazionale per la mancata applicazione dei diritti civili. Il mandato politico scade nel 2003. A Lomé più di una volta è stato messo in pratica il coprifuoco e sono stati utilizzati gas lacrimogeni per disperdere i cortei dei dimostranti contrari al regime.
Il linguaggio dei tamburi blekete è un insieme di musica e di reale dialogo tra le persone. Le percussioni trasmettono gioie e dolori e il potere politico non può interrompere il potere della musica.
Tempi in rivoluzione. Giorni in alternanza continua che scambiano tra loro la contemporaneità degli avvenimenti. All’alba mi sveglio tredicenne a Djongou. Pennichello anziano nelle prime ore del caldo pomeriggio a Kara. Mi ritrovo giovane quando scende la sera a Lomé e non posso dare appuntamento a nessuno, perché del tutto casuale sarà l’età del mio risveglio. Divento zoppo a Cotonou, cieco a Ouidah, sordo ad Abomey.
Nella penombra di una stanza sulla strada, la luce degli occhi della donna kabyé traccia una linea nella mia direzione di una consistenza materica, un percorso palpabile su cui si adagiano granuli di polvere.
La strada porta al ponte sul fiume di Kara. Il sole tramonta e disegna lampi nelle fronde di un carrubo verdissimo. Un albero enorme di anacardi favorisce l’incontro con Virginie e la sua famiglia che all’ombra del gigante in fiore vende frittelle di haricots e birra fatta in casa. Virginie scherza e ride con noi, il suo sguardo sedicenne è sinceramente curioso, aperto e fresco, ci offre il seme non ancora maturo dell’anacardio…e i suoi sorrisi instancabili. La salutiamo con la promessa di ripassare dopo pochi giorni.
Nel buio le strade sono illuminate dai fuochi tremolanti del carbone che le donne mantengono acceso per cucinare spiedini di carne e tutto ciò che è commestibile. Una lunga marcia di persone transita sul ponte rientrando ai villaggi lontani. Il fiume è grigio di terra strappata alle colline; percorrerà settecento chilometri prima di gettarsi nel Golfo di Guinea, nella Costa d’Oro. Che dolcezza i tramonti ritmati dai saluti. In città ci sono due birrifici, gli effetti sono ben visibili e gli uomini alticci salutano in lingua ewé come se potessi capirli. I continui richiami mi fanno sentire vivo, reale, è come ritrovarmi con stupore scritto nell’elenco telefonico degli abbonati e non mi sento escluso da questo ritmo di vita.
I tetti di lamiera sulle case modulano le mitragliate della pioggia.
Alla stazione dei minibus per Kandé, la ragazza ha una bacheca di vetro appannato con il mais soffiato ancora caldo e le arachidi tostate. I piatti sono pezzi di carta strappata dalle confezioni dei sacchi di cemento: ne taglia una parte e la piega a coppa con un colpo secco della mano per spolverarlo dai residui. La pioggia è cessata solo per un attimo ma il cielo non promette nulla di buono: due ore per riempire un Toyota in decadenza. Ben presto le colline e le falesie di roccia rossastra alterano la piana verdissima. A Kandé una sterrata porta a Nedoba e al confine con il Benin. Il ritorno in città è complicato dalle informazioni approssimative e incerte. Ci mettiamo sulla strada e a piedi superiamo i posti di blocco per cercare un passaggio qualsiasi fuori dal paese. Davanti a noi cinquantaquattro chilometri e il pomeriggio inoltrato che rapisce lentamente la luce. Per fortuna un minibus stracarico toglie l’imbarazzo e l’incertezza di una marcia forzata.
Come promesso ritorniamo a trovare Virginie a Kara. Virginie, le cugine, gli zii, i fratelli, i nipoti e gli amici…chissà da quanto tempo erano in attesa. La nonna anziana ci augura il meglio della vita ripetendo all’infinito la stessa frase nel dialetto kabyé. La sua pelle è grinzosa a causa del sole e dell’umido, una pelle conciata dagli agenti atmosferici più che dall’età, supposta e indefinibile. Gli occhi sono velati e la vista non è più tanto buona – dice Virginie, traducendo i saluti.
Le fotografie polaroid creano un’aria di festa, il baraccone di una fiera, e anche i più adulti si lasciano andare all’ilarità contagiosa. Tutti quanti vogliono rimanere impressi in quel miracolo tecnologico, e che imbarazzo sentirmi l’uomo dei miracoli. Ma quanti bimbi - penso - non riesco a farli rimanere tutti nella stessa fotografia. - Ragazzi, siete più di un 28 millimetri. Virginie è molto fiera di presentarci ai vicini di casa quasi fossimo vecchi amici. Al momento dei saluti siamo tutti emozionati.
Popolo della strada. Riccioli, scarnificazioni nei visi, trecce di capelli. Paté di mais e miglio, vino di palma, noci di cola, pesce secco e latte Nestlè. Lucidi fuoristrada della cooperazione e delle multinazionali del tabacco. Le foto di Eyadema, le magliette delle squadre di calcio svizzere, tedesche, olandesi. Ciabatte infradito di plastica, bottiglioni di benzina venduta al ciglio della strada, feticci di fango, piramidi di pomodori sopra i banchi dei mercati rionali e mucchi di carbone. I bambini costruiscono giocattoli con le scatole di latta dei biscotti e di alimenti vitaminici arrivati chissà da dove.
Una giovane coppia accompagna il figlio all’ospedale. La donna porta con se una fascina di legna per cucinare e una lampada a petrolio. Il padre ha la stuoia di fibre vegetali da usare come letto. Il piccolo è triste, lo sguardo lontano ha un’espressione emaciata, la tosse roca e la sua magrezza fa ipotizzare malattie diverse. Immagino le condizioni di questo ospedale sperduto nel verde e nel nulla, dove gli ammalati devono organizzarsi autonomamente per mangiare e dormire. Le condizioni sanitarie si traducono attraverso i cartelli pubblicitari nelle strade: la campagna sanitaria per la prevenzione della SIDA, l’AIDS. Le timide pubblicità di Prudence, una marca di profilattico. Il sogno irrealizzato del 2000 era di riuscire a sconfiggere la polio. Nel nord del paese sono presenti epidemie di colera e la malaria continua ad uccidere ogni giorno.
Gli africani hanno un odio profondo per il silenzio. Il rumore, la musica, il semplice vociare è il sonoro sempre presente. Il ronzio dei motorini-taxi, la macina del quartiere con il motore a scoppio rumorosissima e i clacson delle auto che sembrano collegati direttamente alla messa in moto. Troppo silenzio…all’epoca dei progenitori. Savane e foreste mute, vibranti solamente dei canti degli uccelli, dal rumore dell’acqua che scorre, e fronde smosse dal vento. Ora è stato deciso, dopo un’assemblea generale, che il silenzio non deve più esistere. Il silenzio imbarazzante diviene un nemico giurato. La musica è sempre ad alto volume e le televisioni trasmettono quiz a premio francesi.
Calendari – Eventi. Da Sankara a Soglo, per giungere a Eyadema. La storia dell’Africa è legata ai nomi di uomini politici, scrittori famosi, assi dello sport, musicisti e generali corrotti. Sono loro che segnano le epoche, le nascite, i funerali. Il popolo è una massa informe, lontana, strumentalizzata al lavoro e alla guerra. - Ti ricordi quell’anno che è piovuto molto, Sankara era ancora vivo - e poi Virginie è nata quando Sembè Ousmane pubblicò Il vaglia. Calendario di immagini famose nella gloria o nel terrore.
Al mercato di Ketao c’è un ammasso di abiti usati; questa vendita è chiamata “Le blanc ce mort”.
Alba agognata fortemente da questo storpio solitario che si trascina tra ombre e bagliori improvvisi. Nel buio sonnolento sbucano le sagome di camion senza luci, file di donne al lato dei micro marciapiedi arrostiscono pannocchie di mais. Lievi barbagli illuminano i visi sempre pronti al sorriso, nonostante la fatica. Cucine a carbone sopra i bracieri di terracotta e ventagli per ossigenare la brace. Su di una pietra levigata dall’uso, una donna schiaccia i pomodori per fare il condimento al riso bollito. I bambini vendono arachidi fresche e le accartocciano nei fogli strappati dai loro quaderni di scuola, zeppi di operazioni matematiche. Stanze, muri, sedie, ogni cosa è a un passo dal suicidio, dalla scomparsa. La moschea, pitturata di fresco, porta una targa che ringrazia lo stato del Kuwait per i fondi messi a disposizione.
Al carrefour cerchiamo un modo per raggiungere Kpalimè. Ci inoltriamo nella terra degli Ewé.
Dove si interrompe la realtà - dove costruiamo i sogni. Le immagini sembrano irreali - impossibili - ricordi di altre persone. Siamo noi - sono io. E’ tutto realmente accaduto come lo ricordo - oppure è sogno. Forse sono soltanto il sogno di un altro uomo.
Il tempo non accenna a cambiare, le nuvole giacciono spennellate su di un vetro opaco. Le colline intorno alla vallata filtrate dalle nuvole basse e l’alto monte di fronte è scomparso nella cappa bianca. I ragazzi della zona si improvvisano guide delle cascate e dei villaggi sparsi nella valle; l’elenco delle cascate famose nel mondo è l’argomento preferito. Robert tenta di diventare inutilmente la nostra guida. Mi raccomando - ci dice - salutate le persone ma non stringete loro la mano perché potrebbero trasferire nel vostro corpo uno spirito maligno, dovete cercare un gris-gris.
Un’altra notte scende sull’Africa prima di quando ci si possa aspettare e così improvvisamente che lascia senza fiato. Ecco il buio palpabile - vicino. Si incunea dentro - respira attorno. Nell’ombra si ritirano gli ori e le disgrazie.
Proprietà recintate, muri diroccati, rimasugli di colonnati e ingressi sfarzosi. Ville de la Providence 1921, altre case del 1924 e magazzini delle compagnie commerciali dell’inizio del novecento. Scendendo verso il sud del paese, sono aumentate le costruzioni coloniali legate alle terre coltivate a caffè e alla produzione del burro di karitè. Di pari passo sono aumentate le chiese. Le ville in decadenza hanno le porte sprangate, assi inchiodate alle finestre; le costruzioni sono diventate dispensari medici, palazzi di giustizia e uffici pubblici. Il villaggio si è adeguato inserendosi tra le costruzioni francesi in modo sparpagliato.
Nella foresta di Kpalimé ridiscendiamo a piedi dalle colline dopo aver raggiunto il monte Kluto, dalla cui cima è possibile scorgere il Ghana e il lago Volta. Ci imbattiamo in un piccolo villaggio fantasma dove le persone hanno occupato le costruzioni coloniali dell’antica comunità tedesca che viveva qui all’inizio del novecento. Le case dei vecchi padroni sono in rovina. In questo luogo il tempo si è fermato alla morte di E. Baumann, l’ultimo colono, il 4 Settembre del 1895. Poco lontano il minuscolo cimitero accoglie la sua tomba con i fiori freschi portati chissà da chi.
La chiesa isolata è in frantumi, violata dalla muffa e dalle pianti rampicanti. La facciata ha perduto ogni senso mistico e si è disciolta nella pioggia. In fondo alla discesa, un villaggio di case coloniali con il tetto di lamiera forma un agglomerato che sbarra la strada rossiccia. La fontana è chiusa da tempo, il lucchetto arrugginito e così pure il cartello che riportava gli orari di distribuzione. Su di un tavolo, fuori da una baracca di legno e paglia, sono allineate perfettamente otto scatole di fiammiferi, pochi sacchetti di sale, zucchero, mucchietti di igname fritto e pentole di coccio con un po’ di riso. Il cielo ha perduto irrimediabilmente lo splendore argenteo del mattino, il sole si è eclissato dietro le nuvole intrecciate alle cime delle palme da cocco. L’aria immobile è intrisa d’umido. La foresta osserva la terra argillosa dalla gradinata di un verde teatro a semicerchio. Il rumore di uccelli canterini, le sparpagliate galline e le ardite capre, chiedono il bis alla rappresentazione del quotidiano.
I sogni ritornano - condensano nel sonno il reale non ancora assimilato completamente. Pensieri assopiti - larve di farfalle - sensazioni abortite - congelate. La folla chiede una strada – il fiume cerca la via. Non vedo spiragli - pertugi - soluzioni. Resto affranto ad ogni alba - ma vivo. Ogni azione eroica è solo una lontana macchia di colore e il pentimento un lieve ricordo.
Il risveglio africano è la relazione conclusiva di una riunione politica d’uccelli notturni su di un mango frondoso. Nella luce del mattino la colonia di termiti riprende ad innalzare il castello di terra e sezionano la torre centrale in infiniti passaggi. Riaffiora il desiderio di perdermi nei tunnel verticali. Appena decido di prendere una direzione tutto cambia e il destino può trascinarmi all’esterno, oppure spingermi ancora più in profondità. La torre s’innalza millimetro dopo millimetro con una lentezza inarrestabile. E i pensieri sempre lì ad aspettarmi, come alberi di frangipane che vigilano i cimiteri e segnalano il ricovero di corpi stanchi di sognare.
I rigagnoli d’acqua putrida sono tramortiti dal caldo. Il funzionario della banca mi indica gli “islamici” che fanno il cambio nero, nel piazzale di polvere e fango della stazione dei bus diretti in Ghana. Inizialmente sono dubbioso se prestarmi a quell’azione illegale, ma è tutto alla luce del sole. Cambio i franchi africani in “cedi” del Ghana…in un vero “cambio nero”. Gli uomini trafficano con mazzi di soldi dei due stati sulle panche di legno e i piccoli tavoli sono il loro ufficio improvvisato, portano borselli e sacche nascoste sotto gli ampi vestiti.
Un cassone martoriato dai fori della ruggine attende i passeggeri.
Frontiere e strada pessima. Ci inoltriamo nella terra dell’antico Alto Volta, nel Ghana pluripartitico. Il motto del paese è Libertà e Giustizia…il Ghana fu il primo paese dell’Africa Occidentale ad ottenere l’indipendenza, il 6 Marzo 1957. La raggiunta libertà accelerò il movimento indipendentista di tutta l’Africa nera.
Lasciato il Togo la strada è solcata da voragini che obbligano l’autista ad un continuo slalom e mettono a dura prova il châssis dell’auto, che sembra diventare di gomma. Sul vetro posteriore c’è scritto “With god all is possible”; spero sia contemplata anche la possibilità di arrivare vivi e vegeti a destinazione. I nostri compagni di viaggio sono privi dei documenti necessari, ad ogni frontiera pagano una cifra all’autista che la consegna di nascosto ai responsabili del transito. Come per magia si passa dal francese all’inglese e le “buvette” diventano “bar”. Oggi è domenica e dalle chiese defluiscono cortei di persone, accompagnate dalla musica di un tamburo lentamente si inoltrano nel villaggio. Sotto una tettoia di pali un prete e dieci accoliti: preghiere, bimbi allattati, salmi, tamburi, croci e foresta.
Arriviamo nella cittadina di Ho. Canti e musica: due tamburi sono posizionati come bocche da fuoco pronte ad esplodere la carica del ritmo. Sotto due tende posticce, sulle panche di legno, stanno sedute le donne vestite di bianco e blu con una stoffa annodata alla fronte. Una parte del gruppo mantiene il ritmo di fondo con percussioni e maracas. I movimenti della danza ricordano le moine delle galline, dei pavoni quando alzano e abbassano le ali - narcisi pennuti. Altre donne hanno una stoffa bianca in grembo, piegata più volte, l’aprono e la richiudono a ritmo. Due scranni di legno intagliato accolgono i dignitari grandi e grossi: indossano una stoffa coloratissima che lascia scoperta una spalla e impugnano i bastoni del comando - simboli del potere. Un uomo al centro della folla ha una bacchetta in mano che termina in un ciuffo di crine, con questa dà il tempo alla musica, al ballo e al canto. Poi le percussioni cessano e tutte le donne si alzano in piedi, movendosi lentamente compongono un cerchio. La musica d’accompagnamento è ora suonata da campanelle percosse e il canto diviene ipnotico. E pensare che è semplicemente la festa della domenica.
In certi luoghi fermarsi a scrivere è come spolverare durante un bombardamento.
Il santuario delle scimmie si trova nel tranquillo villaggio di Tafi-Atomé. Qui da anni è in atto un progetto di turismo solidale e gli introiti sono ridistribuiti sotto forma di servizi alla comunità intera. La nostra capanna, in cemento e paglia, è poco discosta dal villaggio e assediata da ogni tipo d’insetto terricolo e alato. Giorni di pellegrinaggio; chilometri e chilometri sulle strade rosse. Questa sera la cena avviene nell’aia di un recinto di famiglia, all’interno del villaggio: riso, uovo sodo e salsa piccante – odore di legno bruciato – fumo e umido. Le capanne intorno sono assorbite dal buio più completo.
La campana della chiesa velocizza l’arrivo del giorno. L’alba è di un grigio d’ammalato terminale e incombe sopra la foresta, le galline, le radio a transistor e i primi contadini con i lunghi machete che si allontanano scalzi nella direzione dei campi coltivati. I galli rispondono nervosamente al notiziario radiofonico trasmesso da Accra.
Accra è la prima città, nel vero senso della parola, che incontriamo. Quartieri, viali, il Teatro Nazionale, i semafori funzionanti. Cerchiamo la stazione degli autobus per Cape Coast. Quanto tempo ci vuole? Forse prima del buio – è la risposta. Sull’autobus sale un ragazzo cieco e canta i salmi della bibbia, quindi gli danno il cambio una serie di figuri che elencano prodotti miracolosi, altri ammoniscono i peccatori e fissano appuntamenti per riunioni religiose oppure sedute mediche. La strada che esce da Accra per chilometri si trasforma in una lentissima processione d’auto, camion e corriere. Procediamo a passo d’uomo; al lato della strada i ragazzi e le donne vendono l’acqua, gli spiedini di carne e sabbia e le T-shirt straniere. Ogni rallentamento è seguito da un assembramento di venditori che ci assale.
Ore ed ore, e poi arriva la demolita Cape Coast, accartocciata di fronte al mare che alza una bruma mescolata alla polvere. Case, magazzini, strade strettissime, un mercato continuo e palazzi portoghesi, calle che ricordano Lisboa e Coimbra. Il terrazzo del Saamo è diroccato ma permette la vista sulla città: accampamenti di case e lamiere, carcasse di auto, barche in secca. Le costruzioni coloniali e le alte palme vigilano al di sopra del vocio delle persone…in questa città del dopo bomba.
La città è un quadro surrealista: mutazioni di Dalì - labirinti di Escher - piazze di De Chirico. Quiete e urla strazianti insieme.
Questa è la confusa visione: la strada sale fiancheggiando la torre di guardia del forte portoghese, da qui una scala scende su di un ponte, al di sotto l’ammassamento casuale delle baracche di fronte il mare. Da un lato una scalinata risale al livello della strada litoranea dove vigila massiccio il Forte Bianco. La strada sale ai quartieri in uno zigzag di cemento e pavé bucato. Rovine di palazzi signorili, scale interne smantellate, piccole piazze tra le case, archi di vecchie costruzioni pretestuose, porte enormi dei negozi sulla strada. Uno slargo, due strade in salita; il traffico è bloccato e i banconi di legno del mercato sbucano dalle auto parcheggiate. Poco oltre un camion scarica sacchi di riso vietnamita, pomodori, granchi e pesce secco. Per terra cumuli di scarpe in vendita, alle spalle ammassi monocromatici di carote e cestini di canna. Un condominio grigio a più piani è completamente fuori luogo, costruito con scarsa fantasia architettonica, piatto sino al punto da apparire simile ad un cartellone pubblicitario. Alle spalle del condominio-prigione, una costruzione portoghese distrutta e poi vocii e richiami degli imbonitori. Folla da stadio - irreale miscuglio.
Le zanzare mi svegliano più volte. Ronzii e parassiti invisibili.
Le grandi compagnie commerciali di Danimarca, Inghilterra, Francia e Olanda, la corona di Spagna, del Portogallo e della Svezia ingrandirono la fortezza di Cape Coast. Gli europei erano padroni assoluti della così detta Costa d’Oro. L’attuale Ghana era l’antica Costa Guinea; per trecento chilometri gli europei edificarono forti e torri di guardia. I portoghesi nel 1448 iniziarono la costruzione del forte San Giorgio; il forte più antico sorge a Elmina, in un villaggio di pescatori nelle vicinanze di Cape Coast. L’oro degli Ashanti, l’avorio, la gomma, il legname e le spezie furono la spinta che portò in questa terre portoghesi e francesi. Negli anni si organizzarono le compagnie commerciali: gli olandesi con la West Indische Compagnie, i francesi con la Compagnie du Senegal e gli inglesi con la Company of Royal Adventures into Africa e la Royal African Company. Il commercio degli schiavi continuava di pari passo con gli altri commerci. Duecento navi facevano la spola tra le sponde dell’atlantico trasportando ogni anno cinquantamila schiavi.
I forti del Ghana sono l’evoluzione del castrum militare romano, evoluto nel medioevo e nell’epoca delle crociate con l’aggiunta di torri sporgenti dal perimetro, la doppia cerchia muraria, i fossati, le merlature e le feritoie. L’aumento dello spessore murario avvenne per reggere i colpi dei proiettili, nel tempo sempre più pesanti. Il comandante del forte aveva pieno potere sulle truppe e gli schiavi. All’interno del fortilizio era riprodotta la città in tutto e per tutto, dalle scuole alle botteghe artigiane, e un missionario insegnava la religione cristiana. Gli schiavi imprigionati attendevano l’imbarco in celle prive d’aria e di luce. Si stimano a seicentocinquantamila gli schiavi deportati, ma più di una fonte afferma che è un dato calcolato con molto difetto. Il biancore dei forti è il contrasto di muri lisciati che si ergono dalla confusione dei villaggi di pescatori. All’ombra dei bastioni la povera vita e i giochi di bimbi sdruciti, continua imperterrita e le corriere delle gite organizzate sono prese d’assalto. I forti sono presenze aliene, astronavi atterrate in un pianeta sconosciuto, il ricovero di fantasmi e di dolori non ancora dimenticati.
L’epitaffio di Marcus Garvey all’interno del museo del forte: No one knows when the hour of Africa’s redemption cometh. It is in the wind. It is coming. One day comes…all Africa will stand together.
Tra le rovine resta muto l’urlo di vittoria – l’inno religioso – la rima che celebra l’amore.
La notte riporta il desiderio di calma, segna la fine della burrasca. Il fortunale è passato e restano sulla scogliera le reti da pesca distrutte, rami e tronchi di terre lontane. Casse di legno, conchiglie vuote, galleggianti di sughero e plastica. Le teste di bambole, strappate dal corpo, osservano sghembe i sassi arrotondati e i cumuli di alghe. Gli scafi di legno delle canoe hanno occhi disegnati sulle prore per scongiurare il cattivo destino - compagno indesiderato del navigare. Vago – Approdo - Naufrago. Abbandono i pensieri al rumore del vento, ai richiami d’uccelli che indicano la terra raggiunta o sognata. Ma quello che ascolto in questo momento, sono soltanto le grida in strada che mi strappano al veleggiare notturno della mente.
Tombe scoperchiate di colonizzatori fantasmi. Nomi e cognomi ricordano capitali europee nel cimitero di famiglie occidentali disperse in queste boscaglie, annegate nelle foreste impenetrabili. Corpi lontani dalle terre d’origine, quell’origine smarrita per sempre nelle lapidi incrinate e rovesciate sotto gli alberi esotici. Corazze frantumate d’oro e avorio, allacciate da uno spago lordo dello sporco dei secoli. Non più scorribande, né rumori di ferraglia o calzari di pelle ammuffita. Il cavaliere si è perso nella foresta di mangrovie, è solo, triste e sconfitto. Non gli resta che dimenticare il rumore della battaglia. E non esiste linimento al suo senso di colpa.
Nel lungomare i vecchi magazzini del pesce sono tetre costruzioni diventate povere case. Grotte porcellanate, stinte, prive di porte e finestre. I monumenti erosi dalle intemperie delimitano il vuoto. Le costruzioni coloniali sono estranee in questo territorio di esplosioni floreali stravaganti, e interrompono bruscamente la linea netta delle palme-soldato. Uomini e donne, neri come le occhiaie vuote delle case. Sogni smontati pezzo per pezzo, in una proiezione allineata alla spiaggia. I muri abbattuti formano lo scheletro di un dinosauro che attende di essere ricomposto nel volume originario. Le torri di guardia scompariranno eclissate dalla vegetazione. Quanto tempo ancora sopravviverà questo mondo di fatica e disorganizzazione. Potrebbe resistere mille anni, come scomparire nei prossimi dieci secondi. Una birra Star ghiacciata, per mandare via i cattivi pensieri, è quello che ci vuole.
Scardinato - divelto - strappato. Ruggine e sporco. Nonostante tutto questo ora respiro la pace. Gli ibis immacolati si allontanano in volo - silenziosi.
La luce va via in gran parte della città, l’energia elettrica sviluppata dalla diga di Akosombo, nel Lago Volta, non è sufficiente. La centrale idroelettrica vende energia al Togo e al Benin, ma purtroppo ha un contratto capestro con una ditta americana che, proprietaria di una fabbrica di alluminio in Ghana, utilizza gran parte della potenza espressa dalla centrale. Candele e lumini a petrolio indicano la strada in questo labirinto privo di testa e di coda. La ragazzina storpia ha avuto il coraggio e la forza di resistere alle difficoltà di questa terra. Nel buio i genitori la trastullano con ilari giochi; non sempre la sfortuna è maledizione.
Angeli eroici vivono tra le galline a piedi scalzi…
Vi parleranno ancora della capanna di Betlemme - così simile alla vostra. Vi racconteranno di una stella nel cielo. Accarezzeranno con le parole l’amore dei padri e delle madri – vi narreranno la cattiveria di Erode. E vi sentirete di appartenere alla fuga in Egitto…perché molto bene conoscete le sofferenze del nomade. Probabilmente sarà confusa in voi l’idea di un uomo chiamato Nazareno. Battesimi e visioni angeliche diventeranno termini anche vostri. E continuano ad arrivare protestanti, cattolici, avventisti, battisti, presbiteriani, pentecostali, benedettini, gesuiti e mariani. La Chiesa del settimo, ottavo, e nono giorno, la Confraternita della Nuova Chiesa e la Chiesa del Sangue di Cristo. Si continuano a edificare luoghi di culto e campi di preghiera. E’ strano ascoltare le orazioni sospirate da uomini dimenticati: - aspetto il giorno del signore - in lui confido - lui può tutto - in lui e per lui.
Il tro-tro si riempie dell’odore di pesce e sudore. I profumi sono assenti e la vita faticosa ha il sapore della terra smossa di recente. Incastrato nel sedile non riesco a muovere un muscolo, l’energia della sopportazione si mescola alle altre producendo un unico esperimento. Ombre vagano sulla terra, unite nella paziente attesa. I bimbi vicino osservano incuriositi le mie mani bianche.
Pesce secco - olio che frigge - scarichi a cielo aperto e batik colorati - muri grezzi e pelle di velluto.
Leggera pioggia notturna - corvi lontani e il persistente sottofondo del mare. Oggi il vento ha sgombrato le nuvole disegnando la linea perfetta dell’orizzonte; erano giorni che mancava l’idea della fine immaginaria di questo confine acqueo. Il forte e i pescatori al lavoro. Tutta l’esistenza trascorre schiacciata dall’imponente monolito, sotto il bianco monumento del terrore. Giochi, funerali, matrimoni e corriere di javò da pedinare, da conquistare. Hei - go - bye bye. Ice ku - hoi - vacia hu. How are you? Diciamo che sto pensando. Drum – drum. Notte di fuoco. Church and fire. Diciamo che sono ateo per semplificare. Ba – nghiè - una – ha. Nidì – chidì. Risate africane – sonore come vetro che si frantuma.
I dolori ritornano per quanto devono tornare - incitati dall’oscillazione del pensiero che li induce a rifarsi vivi.
La prima intenzione è di raggiungere Apam, distante pochi chilometri da Cape Coast, ma lungo la strada cambiamo idea e decidiamo di continuare. Accra è un mercato senza fine apparente, i venditori si spingono in ogni via sino a lambire, con le mercanzie in bella mostra, il Teatro Nazionale e i grattacieli di vetro. Traffico, confusione e ciarpame. La stazione dei minibus per il Togo è in un piazzale ingolfato dalle piccole corriere, tro-tro e macchine ridotte allo stato larvale. Irriconoscibili ammassi di ruggine, lamiere saldate e rappezzate centinaia di volte. I raggiri sono molto infantili e alcuni tentano di aumentare il guadagno sulle poche monete di resto. Dal finestrino recupero al volo biscotti e pezzi di carne.
La strada litoranea è molto trafficata; utilizzata per compiere il lungo tragitto che dalla Nigeria porta naturalmente, senza impedimenti ambientali, alla Costa d’Avorio. Il mare è una distesa gommata spalmata di lato. Siamo parte di un raduno motorizzato, un corteo di auto senza fari. I cigolii interni seguono buche e ondeggiamenti rendendo il movimento una sorta di scivolamento sull’asfalto. Sul ciglio buio della strada le persone rischiano la vita. Invaghito dalle luci fuggenti mi perdo nei ricordi e in veloci pensieri. Questo è il prototipo magmatico di un mondo possibile, un’organizzazione ancora in atto, l’evoluzione non terminata. Il tentativo scomposto della ricerca di un modo di vita, una vita comunitaria.
La frontiera tra il Ghana e il Togo è una pazzia: l’ingresso a Disneyland, con migliaia di persone, imbonitori e falsi aiutanti, sgarbi ed estenuanti pratiche doganali. L’autista guida nel buio senza fanali e più di una volta si fa inveire contro da altri autisti – navighiamo in un silenzio preoccupato. I compagni di viaggio si alternano, scompaiono, si danno il cambio, scendono in prossimità di incroci isolati nella campagna, nelle vie caotiche delle città, nei pressi delle lagune, ai confini del mondo.
Tra il Togo e il Benin la frontiera è più tranquilla e sembra di ritornare a casa. Sbarchiamo dopo un giorno di viaggio a Gran Popo, in un albergo in via di completamento, pulito e anonimo. Al mattino la radio trasmette un quartetto d’archi. La spiaggia è un infinito numero, una linea senza interruzione segnata dai solchi delle piroghe varate per gettare le reti al largo. Dalla riva, con l’aiuto di una grossa corda, file di uomini ritirano le reti; dividono il pesce in vasche di alluminio martellato dall’uso e lo affidano alla “marchande”.
Capanne e case. Residui fossili…
Gran Popo – Comé – Possotomé. Villaggi di fronte al lago – templi – ceneri fumanti – case di banko semi distrutte e una calma profonda. Conga e sonagli ricavati da piatti d’acciaio martellano nella chiesa protestante. I piccoli villaggi sorgono uno dietro l’altro; è un continuo salutare e ricevere saluti fragorosi in risposta. Ma quanti bambini! Alcuni si accodano mentre i più sfacciati esigono la nostra mano per centinaia di metri. Raggiungiamo il villaggio di Bopa camminando per quattordici chilometri sulla strada sterrata.
Agricoltura - economia di sussistenza. La definizione ritorna spesso alla mente.
Ritorna lentamente il ritorto pensiero. Mangrovia sopravvissuta alla siccità. Il lago mansueto ispira pensieri più morbidi. I ragazzini magri e neri corrono sulla spiaggia - antilopi incerte che non inciampano mai.
Incontro-scontro delle morali. La vita vissuta sotto la luce del sole è forte senso di continuità: sconvolge, colpisce, ferisce a volte. Ma questa è vita vissuta. Antipode e straniera, folle e incomprensibile alla prima analisi. Ma è pure unione delle esistenze, callosità vitale, mutualità delle povere cose. Non riesco ad aggiungere altro al grande vuoto-pieno che mi circonda.
Microbi invisibili riducono le rocce in sabbia e il mare in gocce d’umido salato.
Ritorniamo a Ouidah. Nella foresta sacra la statua di Legba introduce in uno spiazzo libero in mezzo agli alberi; il luogo di feticheurs e tagli sulle spalle nel tentativo di guarire. I templi segnalati da bandiere bianche e stracci strappati sono seminascosti, all’interno il cumulo di sabbia, fango, cenere e chissà che altre sostanze putrescenti disciolte, segna il luogo dei sacrifici, lo spazio dei richiami rivolti alle anime dei morti.
Le piccole nettarine volano tra i fiori di un ibisco rosso fuoco. Spalle nude al sole - seni pronunciati alle labbra dischiuse dei bimbi di mogano. Meccaniche e poetiche naturali.
Nel buio della sera un coro lontano. La brigata militare si avvicina marciando e il corteo ritma a più voci una motivo marziale. I soldati hanno le ciabatte infradito di plastica e i fucili di marzapane. Dove si è perso Bruce Chatwin per immaginare il passato di questa città, legata indissolubilmente ad Haiti e al Brasile. Forse, con un altro Pastis non allungato con l’acqua, potrei provare a rileggere il passato in questo silenzio che si alterna al frinire dei grilli e ai fruscii di cuoche al lavoro tra gli odori di brace. Ma non avrebbe senso pensare al passato, qui e ora è il “campo di battaglia”, la realtà di ogni giorno è “l’andare avanti”, mistero e vessillo che unisce legioni di contadini, capanne e lagune, umido e caldo torrido.
Jan – son – kotem. Grkkkk …fuori dalla porta ha frenato la notte sconquassando il silenzio.
La messa all’aperto sulla spiaggia Jonquet. Un piccolo gruppo di persone vestite di bianco, con una croce scolorita e il Cristo appeso malamente alle asticelle, avanzano come miraggi portati dal vento. Il prete traccia sulla sabbia un grande rettangolo, santifica l’interno e richiama al centro dello spazio i parrocchiani. Celebra la messa del vento e dell’oceano.
Il mare e la capanna segnano gli ultimi due giorni nella terra d’Africa. Sagome di navi container solcano l’orizzonte - marionette azionate da un burattinaio subacqueo. Il porto di Cotonou è a undici chilometri e l’inquinamento, causato dallo scarico delle petroliere, è chiaramente visibile in questa spiaggia che corre ad ovest inarrestabile. I villaggi più vicini al quartiere della città, si sono trasformati in agglomerati grigi e cubicolari di mattoni e sabbia cementati assieme. Le foreste di palme sono scomparse, i terreni tramutati in piazzali spettrali di sabbia rastrellata. Il ragazzo dei Bagni Lumiere sussurra sconsolato: - Rastrello la sabbia da vent’anni, livello la battigia con una perfezione millimetrica. Preparo il palco per spettatori-bagnanti che non verranno mai. Sogno di invertire lo spazio e il tempo. Cerco di ribaltare la realtà, piegarla alle mie volontà per una volta. Come uno spirito malvagio tento di rubare per gioco l’anima dei viandanti, fermo il destino capovolgendolo e sogno camerieri bianchi servire una birra ghiacciata ai tavolini dove riposano i neri pescatori scalzi.
Interventir l’espace el le temps…
Sono già passato di qui, ho visto questa gente, ho sentito mille volte i loro saluti stentorei e i pianti. Eppure è la prima volta che ascolto questa trenodia, e allora perché costruire altri labirinti, quando i labirinti in questo luogo sono eretti con l’argilla sanguinolenta. Perché dipingere tragedie inventate quando la realtà è molto peggio.
Sulla spiaggia avanza la ragazzina che porta sul capo una pentola di frittelle dolci di mais. Si ferma vicino ai gitanti che si sono dati appuntamento sulla spiaggia di Cotonou. L’immagine controsole procede lentamente, il corpo leggermente proteso in avanti come se stesse combattendo un vento gelido e contrario. Avanza a capo chino trasportando le mercanzie fritte e sembra chiedersi: - Perché è toccato proprio a me rincorrere le ombre festaiole dei bagnanti…
L’amante segreta.
Lei ritorna sui propri passi. Non ho la forza e neppure la volontà di fermarla – di chiamarla indietro. Forse sono in attesa che un’entità superiore decida al mio posto. Non so se sono stanco – oppure così innamorato di tutto da non voler perdere nulla. Per la prima volta realmente egoista – egocentrico. Ritorna il malessere di nuovi e antichi dolori. Resto in attesa - in questo bar dell’iperspazio africano – sperando quasi che un meteorite impazzito mi possa rovinare sulla testa risolvendo ogni dilemma. Non amo il vuoto – ma forse inizio a desiderare la solitudine preistorica – la paura delle tenebre. In fondo al mio cuore aspetto il miracolo del fuoco e lei si tramuta in immagine conosciuta - fianchi leggeri e il seno forte. Ed ancora ridiscendo - naturalmente attratto - le pieghe del suo corpo e la maturità delle gambe vigorose. I pensieri conosciuti mi creano l’ebbrezza di altri giorni che credevo perduti per sempre. Ritorna il fuoco pirotecnico dei ricordi ed è difficile frenare la gioia - i baci risaputi e speciali. Riconosco il passo che si avvicinava e la sua voce che pronuncia una cauta domanda appena sospirata al mio stare lontano: - Avrai la forza di ritornare?
Imbarazzato - svelando i miei pensieri rumorosi - mi accendo una sigaretta
e non riesco ad aggiungere nulla…all’Africa amante.
L’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere.
E’ un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo.
E’ solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa.
A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste.
“Ebano” di Ryszard Kapuściński
Per chi ama l’Africa che non esiste basterebbe dire che ho visto i baobab in fiore.
Parigi. Aeroporto Charles De Gaulle. La folla di africani è alla costante ricerca di qualcuno che possa prendersi a carico una parte delle loro innumerevoli valigie, scatole di cartone e casse di legno. Tentano di portare a casa più cose possibili risparmiando le tasse extra per il peso in eccesso. Al check-in attendono con fiducia un portatore. La “dama nera” della Costa d’Avorio si è affidata a me. Nel pavimento di marmo mi tiro dietro la sua valigia con le ruote: il bagaglio supera il limite consentito. Scherzando gli chiedo se trasporto bombe o droga; il sorriso fascinoso in risposta rassicurerebbe chiunque e nega ogni intenzione terroristica. La ragazza alle carte d’imbarco sorride accorgendosi del trucco innocente e non accenna minimamente ad un rimprovero. Oltrepassiamo la dogana. La posizione mi permette di gettare un’occhiata sopra la spalla dell’addetta al controllo bagagli. La ragazza minuta guarda con un’espressione professionale la schermata ai raggi x e io alle sue spalle spio incuriosito. Sullo schermo appare l’interno della valigia: i contorni degli oggetti variano dal verde fosforescente al giallo cromo. Vedo perfettamente il fermo immagine del contenuto, distinguo sacchetti di caramelle, piccole bambole e modellini di automobili in plastica e metallo.
Giocattoli – frullatori robotizzati – radio a transistor. L’Africa e l’Europa si scambiano maschere di legno - regali tecnologici e scatole di antibiotici…
L’Air Afrique diviene un frammento di terra africana a settemila metri dal suolo. Solo un bimbo bianco si lamenta piangendo.
Cotonou. Benin.
La notte è uno schiaffo guantato di vento caldo umido. Il buio diviene subitaneo compagno insieme alla confusione; il tassista e il suo aiutante assicurano di sapere dove si trovano le capanne di Les Alizes, ma ormai dovrei saperlo che rispondono in maniera affermativa anche quando non sanno minimamente dove dirigersi. Dopo una serie di domande, per trovare la strada giusta, c’inoltriamo su di una sterrata argillosa al limitare dell’eco del mare. Nel buio più completo il mare non si vede e il fantasma in tumulto annuncia la sua presenza con un rumore di fondo costante.
Capanna di canne e fruscii misteriosi per tutta la notte.
Nella Jonquet Plage un ragazzino magro gioca a calcio con un pallone immaginario, calcia la sabbia tracciando colombelle e respinte in rovesciata, scarta il vento come fosse l’avversario e salta i contrasti al limite dell’aria di rigore inventata al momento.
Per ricavare un poco di ombra gli alberi sono stati modellati dall’uomo a formare un pergolato. Oggi il cielo è grigio e il riparo arboreo non serve assolutamente a nulla. Il mare in subbuglio è sollecitato dalle nuvole scure a demolire la battigia di sabbia giallo-sporco. I cucinieri africani si prodigano in ogni modo per farci sentire a nostro agio, nonostante la meteorologia da fine del mondo: - Bonjour - Bien reposé ? – Comme ça va madmoiselle?
Le capanne sono asserragliate sotto alberi di mangrovia e assediate dalla sabbia; le sdraie di legno si sbriciolano intaccate dall’umido. Un espositore porta-cartoline, ossidato e privo di immagini turistiche, resta in posizione obliqua orfano di una delle tre ruote. Le cose rimangono in vita solo se il ritmo veloce del mondo si piega – si spezza – rallenta e si ferma in questi luoghi di confine. In caso contrario l’abbandono smembra le sedie, i tavoli, le tovaglie rammendate, il burro diviene un composto terroso e il pane raffermo.
La via litoranea corre da Cotonou a Ouidah su di una pista di terra e sabbia. Oltrepassiamo villaggi in riva al mare e piantagioni di palme da cocco.
Il Forte di Ouidah: l’antica fortaleza di Sao Joao Batista è la sede del Museo Storico. In una carta portoghese, tracciata da Sebastiao Lopes nel 1570, sono evidenziate le terre conquistate e i territori ancora da conquistare. La mappa presenta tutti gli approdi possibili della costa e i fiumi navigabili che permettevano di spingersi all’interno del territorio per saccheggiare e catturare gli schiavi. In una vetrina del museo, le monete portoghesi e i cauri sono contenuti nello stesso forziere; i regnanti vendevano i propri sudditi in cambio di armi e suppellettili d’argento. Sulle pareti sono appese le stampe dell’epoca coloniale: feste con gli ambasciatori di potenze straniere, danzatori locali, amazzoni guerriere e il popolo che osserva stupito i conquistatori. Una tavola geografica riporta la mappa del Senegal in cui è evidenziata la città di Goré, luogo di raccolta degli schiavi, e nella cartina sono tratteggiate le rotte delle navi negriere dirette a Haiti e in Brasile. Una bandiera, con le teste decapitate di schiavi incatenati, fu spedita al Principe del Portogallo nel 1811 a dimostrazione della forza e del clima di potere assoluto instaurato nell’antico regno del Dahomey. In alcune carte esplicative è stato disegnato perfettamente il sistema di stivaggio degli schiavi, per utilizzare al meglio lo spazio sulle navi. In Brasile le donne divennero “schiave di casa” e gli uomini furono mandati al lavoro forzato nei campi di canna da zucchero, tabacco e cacao. Salvador de Bahia diventò il capolinea per molti prigionieri. Una parte delle stanze del forte sono destinate alla storia delle pratiche vudù in Benin, in Nigeria e in Brasile. Il museo ha una mostra fotografica molto esauriente: dalle cerimonie cubane alle rappresentazioni di divinità contro il vaiolo, la malaria e la pazzia.
Simboli - emblemi - segni - provocano il male e favoriscono le guarigioni…
Nel vudù esiste l’essere supremo e una serie di spiriti minori in contatto con gli antenati. I sacerdoti sono in grado di comunicare con i morti attraverso riti di possessione e divinazione. Ogni singola “chiamata” ha lo scopo di intercedere con i defunti, implorare l’attenzione e la protezione. In alcuni casi l’invocazione degli antenati è per uno scopo preciso: la salute, un matrimonio, la fortuna al gioco, un buon raccolto. Gli spiriti sono i Loa. Legba è il dio protettore, Mambo il dio che si raggiunge attraverso la danza. Il vudù trasportato nei Caraibi e in Brasile si è arricchito di altre divinità evolvendosi in una precisa religione, banalizzata dalle rappresentazioni cinematografiche. L’utilizzo dei santi cristiani denuncia chiaramente il sincretismo con la religione cattolica. Cattolici di giorno e pratiche vudù di notte. Nel 1996 il governo del Benin ha riconosciuto il vudù come una vera e propria religione in tutte le sue pratiche.
La strada scende da Ouidah sino al mare. Una linea di sabbia e argilla accostata alla laguna, dove sorgono isolotti e villaggi raggiungibili con le canoe di legno.
La “Port Du Non Retour” è un regalo dell’Unesco, commemora tutte le vittime dello schiavismo nell’Africa Occidentale e sorge agghiacciante sulla spiaggia. Un urlo bianco e rosa che contrasta con il cielo nero di nuvole. E’ intaccata dalla salsedine e le statue di ferro in stile moderno sono arrugginite, altre irrimediabilmente distrutte. Non molto lontano un monumento è stato costruito per celebrare il Giubileo 2000 e mostra la sagoma dell’Africa che fa da sfondo ad una grande croce bianca; la costruzione è la porta del “secondo non ritorno”, la celebrazione della “pietas”, è l’ennesima affermazione di un altro mondo, la traduzione cementata del senso di colpa dei conquistatori dell’anima.
Chiese – moschee e ricerca di supremazia religiosa.
L’arco di pietra di fronte al Golfo del Benin. La “Porta del non ritorno” si apre come uno schermo gigante che trasmette il susseguirsi di onde lamentose. I prigionieri percorrevano gli ultimi chilometri della loro terra: rumori di catene e urla spezzate, strozzate dal morso di legno legato dagli schiavisti nello stesso modo in cui si assoggetta il cavallo alle briglie. Trasportavano uomini che avevano negli occhi ancora impresse le immagini dei loro villaggi dati alle fiamme, la morte delle madri anziane e le urla di bimbi abbandonati, sgozzati dietro di loro perché non utili al commercio. Uomini forti dai muscoli scintillanti di sudore e scossi da tremiti di rabbia, di paura, di incredulità. Quattro chilometri sulla polvere rossa. L’ultima terra africana calpestata poco prima di lasciare per sempre il respiro delle foreste. Quattromila passi e poi il vuoto, l’ignoto… Rumori di frustate e incitamenti rabbiosi di uomini in divisa, di altri fratelli neri, di meticci, di gente arrivata da chissà dove. Qualcuno tentava la fuga all’interno di territori mai esplorati, con il terrore che non lascia il tempo a ragionamenti razionali. La fuga da quelle vele bianche, così candide da apparire inoffensive e accolte con la curiosità dei semplici. Per alcuni non c’erano dubbi: gli spiriti li avevano abbandonati per sempre, e allora via, lontano dai pianti, distanti dalle urla. Qualcuno pensò che quella era la maledizione per non aver sacrificato un animale in più nella stagione del raccolto e così il rapimento divenne per molti la giusta punizione divina.
Al ciglio della strada le statue vudù sono sentinelle appostate a ricordare il sacrificio di un milione di schiavi. Le caravelle trasportavano i prigionieri in Senegal e poi a Haiti, in Brasile, negli Stati Uniti e a Cuba. Il periodo più fiorente del commercio degli schiavi fu tra il 1800 e il 1900. Le barche lasciavano la costa per raggiungere le navi alla fonda e nel tragitto molti prigionieri si gettavano in acqua per fuggire, ma pochi sopravvivevano. La potenza militare ed economica crebbe con l’utilizzo degli schiavi. La classe regnante locale incentivò questo traffico e quando i “mestizos” ritornarono in Africa, molti di loro si diedero allo stesso commercio. Diecimila schiavi ogni anno venduti dai re del Dahomey in cambio di articoli di lusso.
Costa degli schiavi - terra di dolore - sangue e salmastro. Fatica - passi - pianto - sudore. Suoni. Arkey - gadra – bruy. Ricordi del regno di Dahomey. La scomparsa - strapp – urla. Sentieri degli yoruba in fuga. Juuk - brkak.
Le nuvole grevi - trafitte dal vento di mare - lasciano cadere gocce di pioggia calda. Scende la sera e il canto Yoruba è una nenia lontana.
Nel forte di Ouidah i più deboli erano uccisi per non comunicare l’orrore ad altri, per non raccontare il pericolo che incombeva su di loro. La pazzia dei negrieri raggiunse le foreste sino ad arrivare ai lontani deserti del nord.
In città le costruzioni portoghesi sono ruderi occupati da famiglie numerosissime. Nella parte vecchia è accennato il tentativo coloniale di dotare i quartieri con un sistema di canali di scolo in muratura. Nonostante questo tutto quello che i conquistatori lasciarono dietro di loro ricorderà per sempre la cecità della storia, l’incredibile pazzia collettiva che garantiva il commercio umano, di popolazioni trattate come animali, semplice merce di scambio…
L’aria fresca allontana la tragedia dell’Africa.
Minuscoli uccelli colorati si inseguono tra i colonnati demoliti delle case. Sotto la pioggia i petali del frangipane diventano morbide ali di farfalla. Che sollievo l’Africa verde. Nel ritmo della musica fuoriesce la natura più segreta della foresta e i suoni Caraibici ritornano nella terra d’origine.
Cotonou è una follia travestita da città. L’autista inavvertitamente scontra un taxi de brousse e si scatena una discussione dai toni prima lamentosi e poi irati. Rimaniamo mezz’ora senza sapere che cosa succede; imbottigliati nel traffico fumoso, ossessionati dal caldo e affumicati dai motorini che spargono olezzi di “melange” mal carburata. Lungo la strada si incontrano i botteghini del Loto per le scommesse sui cavalli che corrono negli ippodromi inglesi, ma pochi sanno dove sia l’Inghilterra in realtà. Abbandoniamo il fumo degli zimidjan, motorette che fungono da taxi, per il fumo di un incendio nelle piantagioni di Abomey-Calavi, presso l’imbarco per i villaggi della laguna.
Il pesce fritto giace decomposto nel mio piatto di metallo a fiori. La cenere vortica sospinta dalla brezza della laguna. Il caos a tratti si ritira in riposo e la musica ad alto volume tace. L’imbarco è in parte insabbiato, impantanato in una palude di fango nero. Le piroghe a motore, a vela e a remi si incastrano una all'altra cariche di merci per Calavi, altre sono in partenza per il mercato sull’acqua di Ganvié, nella laguna di Nokoué. Le donne trasportano il pesce pescato dagli uomini con una pratica antichissima: le frasche e le canne formano nasse giganti e all’interno i pesci crescono sino a non poter più uscire, quindi sono catturati con piccole reti. Ganvié è la più grande città palafitticola dell’Africa ed è formata da isole artificiali costruite con palificazioni e terra battuta.
Le capanne a palafitta sembrano chiome di alberi surreali che sorgono dalle acque…
Le piroghe sono tronchi scavati sospinti da lunghi pali. Una canoa è colma di pomodori; la donna con un enorme cappello di paglia si destreggia tra le palafitte per vendere la mercanzia. Tutte le attività della terraferma sono state riprodotte in questa città ramificata a canali. Entriamo in quella che è chiamata la “Via degli Innamorati”.
Dalle fessure - tra le assi del pavimento - giunge lo scricchiolio degli scafi contro i pali di sostegno e i riflessi dell’acqua limacciosa.
La via del Grand Canal è indicata da un cartello sghembo, infisso nel fondo fangoso. I ragazzini camminano con l’acqua all’altezza dell’ombelico e pescano con una piccola rete assicurata ad una bottiglia di plastica. Le canoe raccolte sotto una tettoia segnano il luogo del mercato di frutta e verdura. Una scimmia è legata alla catena sulla casa zattera, e il rifugio assume le apparenze di un pezzetto di foresta immaginaria lontana dalle terre originarie. Piantare i pali, sostituirli, legare, battere, stringere i nodi, tutto questo è lavoro di ogni giorno. Sembra impossibile che il tranquillo mare interno, a prima vista innocuo, possa demolire ogni cosa così profondamente da renderla inservibile.
Madame “Emme”.
Madame “M” è una donnona enorme seduta su di uno scranno di legno scolpito, modellato in modo da contenerla tutta. E’ adagiata nella valva di un’ostrica - perla dai colori sgargianti. In questo caso la perla è nera, vestita con un abito giallo e rosso e un fazzoletto annodato in testa. L’oro della collana e degli orecchini sono fantasie fosforescenti nella notte color pece della pelle. Lei è nata su questo frammento di mondo, da una matrice di legno e terra, e in questi pochi metri quadrati ha imparato a camminare, è cresciuta, si è industriata a vendere oggetti comprati in città. Su quest’isola artificiale è stata corteggiata, amata, qui ha partorito piccole schegge d’ebano vestiti oggi come principi ereditari. Gli invitati al suo matrimonio solcarono festaioli le acque per poi ritornare alle capanne ubriachi e serpeggianti. Le barche transitano di fronte alla capanna-albergo, si fermano e lei ha una parola per tutti e tutti le rispondono con molta considerazione e reverenza. Donna importante, burbera e materna nello stesso tempo, la sua voce ordina, ammonisce e si scalda di dolcezza nei complimenti che diventano regali divini. Il viso tondo scioglie i sorrisi e si squaglia in fragorose risate tra una birra ed un'altra. Sacerdotessa acquatica, sirena ingrassata, forse madre capostipite di tutti i bimbi che passano sulle piroghe. Lei è l’ape regina. Le unghie dei suoi piedi sono artigli smaltati di rosso. Madame Emme si ritira nell’ombra a riposare e i bimbi spariscono con lei. Ora che dorme è scesa una calma improvvisa, le pagaie diventano lente oscillazioni prive di rumore e i richiami tra i canali diminuiscono di intensità. Tutto quanto è diventato un regno di sordomuti per non disturbare il suo riposo.
Due bimbi piccolissimi passano silenziosi - spingono la canoa nella zolla di terra di fronte dove due maiali si confondono con il fango.
I pozzi dell’acqua dolce sono posti nei tratti di terra battuta. Le canoe avanzano con le fiancate al pelo dell’acqua, cariche di bidoni contenenti acqua potabile, e le discussioni intorno al pozzo sono continui vocii di proteste. Una donna trasporta brodaglie misteriose annunciando la sua presenza con una cantilena che segue il ritmo del remare.
Una pietra magica - nascosta nel fondo della laguna - mantiene in vita ed aiuta a sopportare le febbri reumatiche e la dissenteria.
Flush – il remo spinge. Flush – la rete cade nell’acqua per un piccolo pesce soltanto. Uha – ne – wai – le parole rendono vive le sponde palafittate. Intere famiglie si allontanano nei canali d’acqua marrone e da lontano gli abiti danno l'impressione di galleggiare. Spiriti rivelati dal contrasto cromatico e dall’energia dei colori smaglianti.
Afo – javò. Buongiorno uomo bianco. Piazza d’acqua. Vie increspate dove galleggiano grandi foglie di mangrovia. La ragazzina vestita di bianco rema e canta una melodia che sconquassa l’anima. Un ragazzo procede in silenzio - indossa la maglia della nazionale italiana di calcio con i colori sbiaditi.
Il villaggio di Ganvié è stato costruito nel 18° secolo dalla popolazione dei Tufinu, in fuga dal popolo Fon. Si racconta che la religione dei Fon proibisse loro di entrare nell’acqua ed è per questo motivo che non sconfissero mai i nemici galleggianti.
Te - hiè - trasportano l’acqua a casa - acqua trasparente su di uno specchio di fango liquido. Bong – dare da bere – sfamare. Far credere. Rendersi invisibili a comando - per nostro gioco - passione oppure pazzia. Perdersi nell’analisi del mondo. Clack - ciabattiamo parole ritorte come scarpe arabe - per paura del silenzio - del vuoto - delle ombre - della morte. Gheui - suoni stranieri e sconosciuti significati. Gioco sonoro di vocali e semplici ansimi gutturali. Di sospiri condiamo un’insipida minestra - adorniamo d’alloro racconti di falsi ritorni dal fronte. Smash - canzoniamo la morte per paura. Creak - adoriamo le parole d’amore in maniera così eccessiva che amiamo più dirle che baciare. Crash - delizie. Sapori mirabili e aromi di paradiso. Sdeng - negli occhi socchiusi – gli umidi ricordi dell’infanzia cercano riparo.
La confessione di Monsieur Noir.
E’ stata una scelta causata da tanti fattori esterni, ma decidemmo di non costruire acropoli eterne sulle nostre zolle di fango pressato. Nel nostro animo non esistevano grattacieli di vetro e acciaio, ma solo capanne di paglia e palafitte. Pali di bambù con le stoffe legate alle schermaglie del vento. Non avevamo bisogno di certezze, di concretezza, i nostri desideri più profondi vagano ancora nello spazio, nell’anima dei nostri antenati. Non desideriamo realizzare sogni complicati ed avere l’obbligo di alimentarli di continuo. La purezza. Il caso. La nostra è genesi dell’acqua. In questo vuoto avremmo potuto costruire ogni cosa, ma decidemmo di non erigere le pesanti affermazioni marmoree delle statue, obelischi, ma piuttosto feticci di fango e sterco. La nostra piazza è uno spazio aperto a tutto ciò che può e deve accadere. La durevolezza oppure la fantasia…a voi la scelta.
La notte scivola lentamente. Trae in inganno il vocio galleggiante e disegna distanze nel buio. La luna è stretta in una morsa di nuvole.
Le ragazze gironzolano ridanciane, entrano nella capanna e chiamano le amiche dalla finestra per annunciare la presenza di stranieri.
In silenzio appaiono improvvisi navigatori solitari - fantasmi notturni.
Nella capanna di canne filtra la debole luce del cielo intimidito dalla foschia. Le pagaiate e gli sciabordii d’acqua smossa mi risvegliano con lo stesso identico ritmo di ogni giorno. Le piroghe scontrano i pali di sostegno di questo ragno di legno e tutta la struttura trema lievemente all’urto.
“L’Eglise du Christianisme Celeste” sorge su di un pezzo di terra, vicino alla chiesa alcune capanne circondano una bianca bandiera che indica la presenza di un prete vudù.
Bonjour javò. La piroga avanza nell’acqua limacciosa e attraversa i canali; oltrepassiamo le aie d’acqua, paludi e pescatori con le reti a sacco. Siamo accompagnati da una litania interpretata dai bimbi, a volte da adulti in vena di infantilismi: bonjour javò è la parola d’ordine, accompagnata dall’aggiunta di “argent” e un eloquente movimento delle mani che mimano lo sfregamento dell’indice con il pollice. La canoa di un sarto, quella di un medico, l’ufficio postale, animali affogati con il ventre gonfio. Non esiste la polvere ma la vita è ugualmente faticosa e non c’è tregua: pescare, vendere, contrattare, remare e risistemare i pali più a fondo.
In uno dei molti isolotti il grande ospedale è poco lontano da una moschea di fronte alla quale sorge un “capannone-chiesa”: cupa – grigia – sgraziata, riconoscibile soltanto dal simbolo della croce dipinta in calce bianca sgocciolata.
I dolori personali passano in secondo piano - sembrano facezie - fisime intellettuali - parrucche posticce per una festa in maschera.
E’ lunga l’attesa sull’isolotto di Madame M e il ritorno a Calavi è previsto per domani mattina. Oggi l’aria di tempesta non si risolve e il panorama resta lattiginoso.
Sono una cassa armonica vivente e rimando la eco di innumerevoli bambini che urlano “monsieur” non appena mi vedono. I ragazzini della casa ci adottano come giocattoli preferiti, poi impazzano con corse e salti pericolosi che a turno causano pianti irrefrenabili. Improvvisamente spariscono; li ritrovo inginocchiati a terra per punizione…la nostra tranquillità gli è costata cara.
I sorrisi allargano le scarnificazioni rituali del viso. La luna è piena e i pipistrelli in volo rasentano le ombre. Una canoa con le frittelle dolci di mais attracca alla capanna.
Blues del turista americano: - Coltivo cotone in una terra straniera e continuo a sognare foreste estranee a questo luogo. Sono intriso di rumori e odori che non riconosco. Il passato si ferma - congelato nei ricordi di mio padre. Quando ero bambino lo assillavo di domande e lui rispondeva di aver perso la memoria. Il soprannome di mio padre divenne “Ermetic”. Il passato sembrava non esistere più e così anch’io ho eliminato il “ricordare” dal mio vocabolario. Sono americano - diceva - e quello era sufficiente. La casa, la terra - gli anni di lavoro. Continuava a ripetere che Dio dispone – ed io profondamente ateo non riuscivo a capacitarmi di quel senso di sconfitta e rassegnazione che defluiva da lui – la consideravo un’affrettata dimenticanza e negazione del passato. Ma da dove - chiedevo - arrivavano i nostri antenati. Quando esplicitavo il pensiero a voce alta, un’aria pensierosa e lontana si insinuava nello sguardo dei vecchi.
Generazioni di uomini e donne - strappate alle foreste e alla savana - hanno reso ricche le terre d’occidente e alcuni fingono di non ricordare.
Il sonno notturno è accompagnato da canti e suoni di tamburi lontani - voci di una cerimonia misteriosa. Il dolce cullare delle nenie è interrotto dall’alba, dagli sciabordii e dai richiami di mercanti sull’acqua.
Ganvié – Abomey Calavi.
Il tronco scavato scivola leggero sull’acqua marrone.
Steven e il suo amico remano con energia, cantano l’alleluia con un ritmo africano e così inizialmente non riconosco il motivo religioso, intervallato com’è da brani sospirati nel dialetto locale. Una piroga a vela ci passa vicino, la stoffa è formata dai sacchi del WFP, World Food Program, cuciti insieme. La parte involontaria del progetto, legata all’utilizzo fantasioso delle stoffe dei sacchi di riso, è sicuramente un successo. Il contenuto non ho idea che fine possa aver fatto e i grandi progetti di cooperazione hanno una notevole dispersione… Nelle città le Toyota nuove fiammanti sfrecciano e portano i loghi dei progetti internazionali.
A Calavi un taxi de brousse sembra aspettare solo noi, occupiamo gli ultimi due posti e possiamo partire. Arrivati a Boichon con due motorini-taxi giungiamo ad Abomey e ci facciamo lasciare da Mr. Lutta, in un terribile e fantastico auberge. Jeannot è un omone nero come l’inchiostro, parla l’inglese francesizzato e quando si occupa della cena diviene leggero, gentile e aggraziato nonostante la mole da lottatore di sumo. Lo pseudo-albergo è rimasto fuori delle rotte classiche dei turisti organizzati e ultimamente è ignorato anche dai viaggiatori individuali; in effetti le condizioni delle stanze sono minimamente accettabili. Questo è uno dei tanti luoghi destinati a scomparire, traditi dall’incuria e dall’abbandono. Questo spicchio di terra, con la costruzione fatiscente, è solo un miraggio tra la foresta e la strada argillosa; la nota positiva è la fresca Bière Bèninoise.
…una principessa e una pantera provenienti dal Togo, misero al mondo quattro figli; uno di loro morì in tenera età, gli altri fondarono tre regni: Abomey, Allada e Porto Novo.
Abomey fu capitale del Regno di Dahomey. I palazzi reali sorgono nella regione popolata dai Fon che giunti dal Plateau civilizzarono l’area. I primi edifici sono stati costruiti nel 1645 dal terzo re, e i regnanti successivi hanno eretto altre costruzioni dando vita ad un’enorme complesso palaziale che occupava un’area di quaranta ettari.
Le mura alte dieci metri correvano per un perimetro di quattro chilometri e la città era protetta da un lungo e profondo fossato.
Fango…per costruire il più grande palazzo reale dell’Africa Occidentale.
I cortigiani della Città Reale superavano le undicimila unità. Quando arrivarono i francesi la casa signorile fu data alle fiamme e oggi i padiglioni e le corti interne rimangono visibili solo in parte. I re defunti venivano sepolti all’interno delle mura e per ognuno di loro è stato costruito un tempio apposito. Ogni anno in onore dei dignitari defunti si eseguivano sacrifici umani di schiavi e prigionieri di guerra.
I re del regno furono undici, i più importanti sono: Agoglo, Ghézo, Gogo e Glélé. L’ultimo re è morto esule in Algeria nel 1906. In una stanza il trono di Gogo appoggia sopra quattro crani di nemici nigeriani, uccisi in una delle tante guerre locali. Gli undici troni di legno scolpito sono i simboli dei re che si sono succeduti nei secoli.
Un piccolo cannone francese è perfettamente conservato e il nostro anfitrione con tristezza dice che all’epoca è costato quindici schiavi.
Alle tombe dei re, ancora oggi, ogni cinque giorni portano cibo e acqua. Il mausoleo di Glélé è un grande tucul con le pareti di fango e il tetto di paglia. Il tempio è stato costruito impastando il fango con il sangue di quarantuno schiavi.
I palazzi imperiali, pur non essendo una perla architettonica, sono costruzioni imponenti rispetto al mare di case fatiscenti tutto intorno.
Il mercato della città è una baraccopoli e le strade che dipartono dalla piazza centrale si disperdono nei quartieri diroccati. Il resto è confusione e sfilate di giovani donne che vanno a prendere l’acqua al pozzo. I bar diffondono musica assordante e un barbiere taglia i capelli contornato da sette aiutanti sfaccendati in cappa blu.
Con i motorini andiamo alla ricerca delle mura di fango della città antica: scoviamo feticci protetti da piccoli templi, altri riparati semplicemente da tettoie di lamiere ondulate.
Lungo la strada e vicino ai villaggi è un susseguirsi di raffigurazioni storiche e simboli dei regnanti: leoni, uccelli, elefanti e scimmie. Sostiamo in luoghi dove il tempo ha cancellato quasi ogni cosa e la vegetazione ha ricoperto i ruderi. Gli uomini hanno energia sufficiente solo per sopravvivere, non si curano certamente di salvare il Palais Akaba, il Tempio di Zéwa, o quello di Sémassou.
Perché tutto questo dolore, perché il dolore diviene rabbia e la rabbia senso di vuoto.Forse anch’io ho attraversato la porta nel non ritorno...senza accorgermene. Io che pensavo di aver allenato la mente e l’anima nel modo migliore, com’è possibile non trovare il modo per partecipare di nuovo al mondo. E il mondo continua a transitare con le calabasse colme d’acqua sulla testa e le biciclette cigolanti. Che cosa cerco; perché armo la prora, quando invece vorrei disarmarla e salpare verso il mondo. Un cane si avvicina accontentandosi della suola delle mie scarpe per sentire un contatto umano. Che tragedia soffrire, mentre osservo persone che hanno soltanto il sorriso da regalare.
La musica di un organo e il canto sommesso escono da una chiesa nascosta tra le palme di cocco e i carrubi giganti. Improvvisamente un albero si anima di mille uccelli gialli risvegliati dall’Amen finale.
Siamo in attesa di un mezzo qualsiasi che arrivi a Paraku, nel nord del Benin. L’attesa si protrae per ore sulla strada di Boichon.Il fumo e la polvere riflettono il colore grigio del cielo, per fortuna il caldo è sopportabile. Gli arrivi e le partenze avvengono sulla strada trafficata: bagagli incastrati per magia dentro mezzi strapieni. C’è chi compra i viveri per uno spostamento che potrebbe durare un’ora come una settimana. Stiamo aspettando altri quattro passeggeri per partire con un finto taxi.
Nel frattempo transita un funerale. Il feretro è caricato su di un’auto e i parenti che seguono intonano canti lamentosi e ballano in maniera sfrenata.
Sei ore di viaggio rallentato dalle innumerevoli dogane e dai confini provinciali, dove gli autisti pagano i pedaggi e altre tasse illegali per continuare. Parakou – Djougou – Natitingou. La catena montuosa dell’Atakorà si avvicina, protegge questo territorio abitato dall’etnia Somba. Natitingou è un grande villaggio, diviso centralmente dalla strada che prosegue per il nord del paese e raggiunge il Togo.
Le nuvole apparse all’improvviso interrompono lo spettacolo del tramonto.
La frittella di miglio ha un retrogusto di strada, di polvere, di quel mondo instancabile che alle mie spalle continua a rincorrersi, in una strada perfettamente diritta che vince le colline e le pianure verdissime. Terra verde e baobab rigogliosi, un’esplosione di vita, una magia di fiori e frescure che lasciano solo lontanamente immaginare la durezza del caldo, la forza del sole, l’angoscia della mente affogata dal sudore.
I Somba parlano la lingua kabyè e il loro nome significa “Popolo nudo”; in realtà il governo del Benin nel 1958 ha imposto loro di coprirsi. Appartengono al gruppo etnico dei Betamaribé e non vivono radunati in villaggi; le capanne sono piccole fortezze, costruite in questo modo a scopo difensivo. Sorgono sparse nei campi coltivati nel nord del Benin e del Togo. In Togo la popolazione prende il nome Tamberna e vive sulle pendici della catena dell’Atakorà che si sviluppa in entrambi i paesi. L’isolamento è il motivo della loro sopravvivenza e non sono stati influenzati dal cristianesimo né dall’Islam. Neppure i portoghesi riuscirono a renderli schiavi, si salvarono nascondendosi nelle gole e nelle grotte delle montagne.
Conoscere le cose spesso significa distruggerle…
La visita ai villaggi somba si annuncia umida, dopo l’intera nottata di pioggia. La strada lascia la città trasformandosi in una sterrata argillosa e infangata. Le nubi nascondono i margini dei campi verdi di miglio dove le silhouette delle capanne tata-somba e dei baobab verdi sembrano disegni a china, stampati sopra il grigio umido delle nuvole. Compare il sole. Le capanne, ora perfettamente visibili, sono fortini da cui sbucano i tetti conici dei granai, il proseguimento in verticale dei rossi sentieri che tagliano i campi coltivati. Le capanne appaiono castelli in miniatura con gli ingressi strettissimi e si sviluppano in tre livelli: la stalla e la cucina, i ripostigli e i granai conici, le stanze e il tetto a terrazza. Di fianco all’ingresso sorge l’altare dedicato agli antenati. L’anziano padre di Remy, un ragazzo somba che lavora in città, sta aggiustando una vecchia calabasse ridotta in frantumi. Tutta la famiglia viene a salutarci incuriosita: bimbi nudi e cani scheletrici. Nella piana un gruppo di ragazzini insegue un gatto selvatico, l’unico predatore rimasto in queste zone, e riescono a prenderlo con l’aiuto di un cane. Ci spiegano che i gatti della savana sono cacciati perché mangiano i pulcini.
Le verdi colline proseguono verso il Togo e dai passi più alti è possibile vedere il territorio vicino.
Le scarnificazioni rituali che incidono i visi - hanno un significato religioso e a volte sono disegni complessi. Il loro scopo è di impedire agli spiriti negativi di entrare nel corpo.
Le donne nei campi cantano e più la fatica è gravosa più il canto è dolce. Più è grande la sofferenza e maggiormente alternate sono le melodie armoniose. La donna dice: - non mi fermo a piangere - io canto per asciugarmi il sudore - canto durante il parto e canterò al funerale di mio figlio. Canto la stagione delle piogge e canto l’arsura estiva. Non mi stanco di cantare - come il sole non prova fatica a sorgere e la luna a divenire piena. Canto perché - per chi non possiede nulla - la tristezza e il silenzio sono un fardello troppo pesante da trascinare.
I bianchi inseguono il sole - i neri lo possiedono.
La chiesa protestante è ubicata dentro una casa in costruzione, mantenuta in piedi da impalcature di legno vecchie d’anni. Il canto religioso di donne e uomini vestiti di bianco, si fa strada da quello che sembra essere un cantiere edile più che un luogo di culto. Intorno alla chiesa discariche di sassi e sabbia, cumuli di ferro arrugginito. Dentro la ruota enorme di un camion, rovesciata a terra, dorme un ragazzino a torso nudo e l’alleluia non lo scuote minimamente dal torpore della fatica.
Incontriamo gli insediamenti dei Bariba, il popolo Yoruba originario della Nigeria, e dei Peul provenienti dal Sahel. L’aria è umida, la terra è umida, ogni cosa è fradicia, appiccicaticcia, e tra non molto i miei polmoni si tramuteranno in branchie.
La lunga marcia africana non si interrompe mai. Sfila - corre - danza. Passa lentamente sulla strada diretta a nessun appuntamento. Si muove per natura - per il senso del fluire e del rifluire – per la semplice ragione dello scorrere.
Aloni di nuvole basse si dissolvono dipanate dal sole caldo. L’uomo si alza, stira le membra, allunga e discioglie i muscoli rattrappiti dall’umido della notte. L’uomo si ricompone, riposiziona le gambe e la testa al punto giusto. I regni si sono dissolti ma l’uomo è ancora vivo.
Viaggiamo da Natitingou a Djougou con un taxi brousse non regolare. Dopo pochi chilometri l’autista ci fa scendere prima della sbarra che annuncia la dogana e chiama due ragazzi in motorino per trasportarci oltre i controlli. Con la nostra bianca presenza avrebbe dovuto pagare un sovrapprezzo. Lo attendiamo fiduciosi sul ciglio della strada lontano dalle ispezioni militari. A Djougou ci aspetta un altro delirio con a bordo nove persone e due bambini. Le donne indossano vestiti preziosi dai colori sgargianti. Vengono con noi in Togo. Acquistiamo noccioline e sesamo tostato per imitarle in tutto e per tutto. La pista rossa è contornata da verdi campi e le nuvole nel cielo preannunciano la pioggia che, come tutti i giorni, sarà veloce, violenta e calda. I controlli alla frontiera sono spicciativi ma professionali, complicati da una sequela di moduli da riempire. Al di là della frontiera con il Benin, la prima differenza sostanziale è che i ragazzi indossano magliette che hanno impresso il viso di un altro presidente o dei suoi generali. Dal confine al villaggio di Kara la giornata peggiora e inizia a piovere fuori e dentro il mezzo. Andiamo alla casa dello studente, ma le condizioni sono inaccettabili e raggiungiamo a piedi il Mini Rizes: un bar ristorante con due camere.
Il dialetto è diverso e il suono delle parole più dolce. I visi sono cambiati leggermente e la luce del tramonto rende simpatico questo villaggio sonnacchioso tra le verdi colline. Togo çe icì - Bien arrivé. Il villaggio di Kara è situato nella regione abitata dal popolo Kabyè. Il loro nome significa “Contadini di pietra” perché sono espertissimi agricoltori e riescono a coltivare ogni terreno, anche il più povero.
Se esiste la giustizia divina il paradiso sarà popolato da africani - se a loro interesserà. Le chiese di mille confessioni diverse…mi chiedo quale altra promessa possono fare.
Le nuvole fuggono nello specchietto retrovisore, corrono a addensarsi sopra le colline in lontananza. L’impianto di accensione automatico del taxi de brousse non funziona e ad ogni fermata l’autista scende, spinge con il suo aiutante l’ammasso di ruggine su ruote per rimetterlo in moto. Il parabrezza è una ragnatela di vetro screpolato, a ogni buca presa ad alta velocità la ragnatela sembra allargarsi sempre di più. Al lato della strada giacciono carcasse di automobili, camion e autobus che portano ancora la scritta di una linea in uso quindici anni fa. Il lavoro sporco e basilare dei trasporti è affidato a taxi di fabbricazione francese vecchi di trent’anni.
In Avenue Eyadèma i tavolini di un caffè sono isole nella corrente. Assi scardinate di un naufragio. Yoyo - uomo bianco - bien avrrivè - bonjour. Be - lah - bee - tasi. Arrivederci. Songh - psss - girati. Puzzle di visi, suoni, odori e salse piccanti. Una ragazza avanza sul sentiero con un fascio di legni sul capo e un bambino attaccato al seno.
Nel periodo coloniale i tedeschi chiamarono questa terra “Togoland”. Intensificarono la coltivazione del cacao, del cotone e del caffè, ripagandosi così della “protezione” data al potere politico locale. Per mantenere la pace interna uccisero negli anni migliaia di togolesi, introdussero i lavori forzati e la tassazione diretta delle terre. Alla fine della prima guerra mondiale arrivarono inglesi e francesi. La Francia cominciò ad amministrare due terzi del paese e l’Inghilterra il restante territorio. La popolazione dei Mina, sulla costa, divenne l’etnia più forte aiutata dai rapporti economici con l’Europa. Nel nord del paese i Kabyè riuscirono a rimanere autonomi e nel 1960, per tutti, arrivò l’indipendenza. L’attuale presidente Eyadema mantiene il potere con la forza, il suo governo è stato più volte denunciato a livello internazionale per la mancata applicazione dei diritti civili. Il mandato politico scade nel 2003. A Lomé più di una volta è stato messo in pratica il coprifuoco e sono stati utilizzati gas lacrimogeni per disperdere i cortei dei dimostranti contrari al regime.
Il linguaggio dei tamburi blekete è un insieme di musica e di reale dialogo tra le persone. Le percussioni trasmettono gioie e dolori e il potere politico non può interrompere il potere della musica.
Tempi in rivoluzione. Giorni in alternanza continua che scambiano tra loro la contemporaneità degli avvenimenti. All’alba mi sveglio tredicenne a Djongou. Pennichello anziano nelle prime ore del caldo pomeriggio a Kara. Mi ritrovo giovane quando scende la sera a Lomé e non posso dare appuntamento a nessuno, perché del tutto casuale sarà l’età del mio risveglio. Divento zoppo a Cotonou, cieco a Ouidah, sordo ad Abomey.
Nella penombra di una stanza sulla strada, la luce degli occhi della donna kabyé traccia una linea nella mia direzione di una consistenza materica, un percorso palpabile su cui si adagiano granuli di polvere.
La strada porta al ponte sul fiume di Kara. Il sole tramonta e disegna lampi nelle fronde di un carrubo verdissimo. Un albero enorme di anacardi favorisce l’incontro con Virginie e la sua famiglia che all’ombra del gigante in fiore vende frittelle di haricots e birra fatta in casa. Virginie scherza e ride con noi, il suo sguardo sedicenne è sinceramente curioso, aperto e fresco, ci offre il seme non ancora maturo dell’anacardio…e i suoi sorrisi instancabili. La salutiamo con la promessa di ripassare dopo pochi giorni.
Nel buio le strade sono illuminate dai fuochi tremolanti del carbone che le donne mantengono acceso per cucinare spiedini di carne e tutto ciò che è commestibile. Una lunga marcia di persone transita sul ponte rientrando ai villaggi lontani. Il fiume è grigio di terra strappata alle colline; percorrerà settecento chilometri prima di gettarsi nel Golfo di Guinea, nella Costa d’Oro. Che dolcezza i tramonti ritmati dai saluti. In città ci sono due birrifici, gli effetti sono ben visibili e gli uomini alticci salutano in lingua ewé come se potessi capirli. I continui richiami mi fanno sentire vivo, reale, è come ritrovarmi con stupore scritto nell’elenco telefonico degli abbonati e non mi sento escluso da questo ritmo di vita.
I tetti di lamiera sulle case modulano le mitragliate della pioggia.
Alla stazione dei minibus per Kandé, la ragazza ha una bacheca di vetro appannato con il mais soffiato ancora caldo e le arachidi tostate. I piatti sono pezzi di carta strappata dalle confezioni dei sacchi di cemento: ne taglia una parte e la piega a coppa con un colpo secco della mano per spolverarlo dai residui. La pioggia è cessata solo per un attimo ma il cielo non promette nulla di buono: due ore per riempire un Toyota in decadenza. Ben presto le colline e le falesie di roccia rossastra alterano la piana verdissima. A Kandé una sterrata porta a Nedoba e al confine con il Benin. Il ritorno in città è complicato dalle informazioni approssimative e incerte. Ci mettiamo sulla strada e a piedi superiamo i posti di blocco per cercare un passaggio qualsiasi fuori dal paese. Davanti a noi cinquantaquattro chilometri e il pomeriggio inoltrato che rapisce lentamente la luce. Per fortuna un minibus stracarico toglie l’imbarazzo e l’incertezza di una marcia forzata.
Come promesso ritorniamo a trovare Virginie a Kara. Virginie, le cugine, gli zii, i fratelli, i nipoti e gli amici…chissà da quanto tempo erano in attesa. La nonna anziana ci augura il meglio della vita ripetendo all’infinito la stessa frase nel dialetto kabyé. La sua pelle è grinzosa a causa del sole e dell’umido, una pelle conciata dagli agenti atmosferici più che dall’età, supposta e indefinibile. Gli occhi sono velati e la vista non è più tanto buona – dice Virginie, traducendo i saluti.
Le fotografie polaroid creano un’aria di festa, il baraccone di una fiera, e anche i più adulti si lasciano andare all’ilarità contagiosa. Tutti quanti vogliono rimanere impressi in quel miracolo tecnologico, e che imbarazzo sentirmi l’uomo dei miracoli. Ma quanti bimbi - penso - non riesco a farli rimanere tutti nella stessa fotografia. - Ragazzi, siete più di un 28 millimetri. Virginie è molto fiera di presentarci ai vicini di casa quasi fossimo vecchi amici. Al momento dei saluti siamo tutti emozionati.
Popolo della strada. Riccioli, scarnificazioni nei visi, trecce di capelli. Paté di mais e miglio, vino di palma, noci di cola, pesce secco e latte Nestlè. Lucidi fuoristrada della cooperazione e delle multinazionali del tabacco. Le foto di Eyadema, le magliette delle squadre di calcio svizzere, tedesche, olandesi. Ciabatte infradito di plastica, bottiglioni di benzina venduta al ciglio della strada, feticci di fango, piramidi di pomodori sopra i banchi dei mercati rionali e mucchi di carbone. I bambini costruiscono giocattoli con le scatole di latta dei biscotti e di alimenti vitaminici arrivati chissà da dove.
Una giovane coppia accompagna il figlio all’ospedale. La donna porta con se una fascina di legna per cucinare e una lampada a petrolio. Il padre ha la stuoia di fibre vegetali da usare come letto. Il piccolo è triste, lo sguardo lontano ha un’espressione emaciata, la tosse roca e la sua magrezza fa ipotizzare malattie diverse. Immagino le condizioni di questo ospedale sperduto nel verde e nel nulla, dove gli ammalati devono organizzarsi autonomamente per mangiare e dormire. Le condizioni sanitarie si traducono attraverso i cartelli pubblicitari nelle strade: la campagna sanitaria per la prevenzione della SIDA, l’AIDS. Le timide pubblicità di Prudence, una marca di profilattico. Il sogno irrealizzato del 2000 era di riuscire a sconfiggere la polio. Nel nord del paese sono presenti epidemie di colera e la malaria continua ad uccidere ogni giorno.
Gli africani hanno un odio profondo per il silenzio. Il rumore, la musica, il semplice vociare è il sonoro sempre presente. Il ronzio dei motorini-taxi, la macina del quartiere con il motore a scoppio rumorosissima e i clacson delle auto che sembrano collegati direttamente alla messa in moto. Troppo silenzio…all’epoca dei progenitori. Savane e foreste mute, vibranti solamente dei canti degli uccelli, dal rumore dell’acqua che scorre, e fronde smosse dal vento. Ora è stato deciso, dopo un’assemblea generale, che il silenzio non deve più esistere. Il silenzio imbarazzante diviene un nemico giurato. La musica è sempre ad alto volume e le televisioni trasmettono quiz a premio francesi.
Calendari – Eventi. Da Sankara a Soglo, per giungere a Eyadema. La storia dell’Africa è legata ai nomi di uomini politici, scrittori famosi, assi dello sport, musicisti e generali corrotti. Sono loro che segnano le epoche, le nascite, i funerali. Il popolo è una massa informe, lontana, strumentalizzata al lavoro e alla guerra. - Ti ricordi quell’anno che è piovuto molto, Sankara era ancora vivo - e poi Virginie è nata quando Sembè Ousmane pubblicò Il vaglia. Calendario di immagini famose nella gloria o nel terrore.
Al mercato di Ketao c’è un ammasso di abiti usati; questa vendita è chiamata “Le blanc ce mort”.
Alba agognata fortemente da questo storpio solitario che si trascina tra ombre e bagliori improvvisi. Nel buio sonnolento sbucano le sagome di camion senza luci, file di donne al lato dei micro marciapiedi arrostiscono pannocchie di mais. Lievi barbagli illuminano i visi sempre pronti al sorriso, nonostante la fatica. Cucine a carbone sopra i bracieri di terracotta e ventagli per ossigenare la brace. Su di una pietra levigata dall’uso, una donna schiaccia i pomodori per fare il condimento al riso bollito. I bambini vendono arachidi fresche e le accartocciano nei fogli strappati dai loro quaderni di scuola, zeppi di operazioni matematiche. Stanze, muri, sedie, ogni cosa è a un passo dal suicidio, dalla scomparsa. La moschea, pitturata di fresco, porta una targa che ringrazia lo stato del Kuwait per i fondi messi a disposizione.
Al carrefour cerchiamo un modo per raggiungere Kpalimè. Ci inoltriamo nella terra degli Ewé.
Dove si interrompe la realtà - dove costruiamo i sogni. Le immagini sembrano irreali - impossibili - ricordi di altre persone. Siamo noi - sono io. E’ tutto realmente accaduto come lo ricordo - oppure è sogno. Forse sono soltanto il sogno di un altro uomo.
Il tempo non accenna a cambiare, le nuvole giacciono spennellate su di un vetro opaco. Le colline intorno alla vallata filtrate dalle nuvole basse e l’alto monte di fronte è scomparso nella cappa bianca. I ragazzi della zona si improvvisano guide delle cascate e dei villaggi sparsi nella valle; l’elenco delle cascate famose nel mondo è l’argomento preferito. Robert tenta di diventare inutilmente la nostra guida. Mi raccomando - ci dice - salutate le persone ma non stringete loro la mano perché potrebbero trasferire nel vostro corpo uno spirito maligno, dovete cercare un gris-gris.
Un’altra notte scende sull’Africa prima di quando ci si possa aspettare e così improvvisamente che lascia senza fiato. Ecco il buio palpabile - vicino. Si incunea dentro - respira attorno. Nell’ombra si ritirano gli ori e le disgrazie.
Proprietà recintate, muri diroccati, rimasugli di colonnati e ingressi sfarzosi. Ville de la Providence 1921, altre case del 1924 e magazzini delle compagnie commerciali dell’inizio del novecento. Scendendo verso il sud del paese, sono aumentate le costruzioni coloniali legate alle terre coltivate a caffè e alla produzione del burro di karitè. Di pari passo sono aumentate le chiese. Le ville in decadenza hanno le porte sprangate, assi inchiodate alle finestre; le costruzioni sono diventate dispensari medici, palazzi di giustizia e uffici pubblici. Il villaggio si è adeguato inserendosi tra le costruzioni francesi in modo sparpagliato.
Nella foresta di Kpalimé ridiscendiamo a piedi dalle colline dopo aver raggiunto il monte Kluto, dalla cui cima è possibile scorgere il Ghana e il lago Volta. Ci imbattiamo in un piccolo villaggio fantasma dove le persone hanno occupato le costruzioni coloniali dell’antica comunità tedesca che viveva qui all’inizio del novecento. Le case dei vecchi padroni sono in rovina. In questo luogo il tempo si è fermato alla morte di E. Baumann, l’ultimo colono, il 4 Settembre del 1895. Poco lontano il minuscolo cimitero accoglie la sua tomba con i fiori freschi portati chissà da chi.
La chiesa isolata è in frantumi, violata dalla muffa e dalle pianti rampicanti. La facciata ha perduto ogni senso mistico e si è disciolta nella pioggia. In fondo alla discesa, un villaggio di case coloniali con il tetto di lamiera forma un agglomerato che sbarra la strada rossiccia. La fontana è chiusa da tempo, il lucchetto arrugginito e così pure il cartello che riportava gli orari di distribuzione. Su di un tavolo, fuori da una baracca di legno e paglia, sono allineate perfettamente otto scatole di fiammiferi, pochi sacchetti di sale, zucchero, mucchietti di igname fritto e pentole di coccio con un po’ di riso. Il cielo ha perduto irrimediabilmente lo splendore argenteo del mattino, il sole si è eclissato dietro le nuvole intrecciate alle cime delle palme da cocco. L’aria immobile è intrisa d’umido. La foresta osserva la terra argillosa dalla gradinata di un verde teatro a semicerchio. Il rumore di uccelli canterini, le sparpagliate galline e le ardite capre, chiedono il bis alla rappresentazione del quotidiano.
I sogni ritornano - condensano nel sonno il reale non ancora assimilato completamente. Pensieri assopiti - larve di farfalle - sensazioni abortite - congelate. La folla chiede una strada – il fiume cerca la via. Non vedo spiragli - pertugi - soluzioni. Resto affranto ad ogni alba - ma vivo. Ogni azione eroica è solo una lontana macchia di colore e il pentimento un lieve ricordo.
Il risveglio africano è la relazione conclusiva di una riunione politica d’uccelli notturni su di un mango frondoso. Nella luce del mattino la colonia di termiti riprende ad innalzare il castello di terra e sezionano la torre centrale in infiniti passaggi. Riaffiora il desiderio di perdermi nei tunnel verticali. Appena decido di prendere una direzione tutto cambia e il destino può trascinarmi all’esterno, oppure spingermi ancora più in profondità. La torre s’innalza millimetro dopo millimetro con una lentezza inarrestabile. E i pensieri sempre lì ad aspettarmi, come alberi di frangipane che vigilano i cimiteri e segnalano il ricovero di corpi stanchi di sognare.
I rigagnoli d’acqua putrida sono tramortiti dal caldo. Il funzionario della banca mi indica gli “islamici” che fanno il cambio nero, nel piazzale di polvere e fango della stazione dei bus diretti in Ghana. Inizialmente sono dubbioso se prestarmi a quell’azione illegale, ma è tutto alla luce del sole. Cambio i franchi africani in “cedi” del Ghana…in un vero “cambio nero”. Gli uomini trafficano con mazzi di soldi dei due stati sulle panche di legno e i piccoli tavoli sono il loro ufficio improvvisato, portano borselli e sacche nascoste sotto gli ampi vestiti.
Un cassone martoriato dai fori della ruggine attende i passeggeri.
Frontiere e strada pessima. Ci inoltriamo nella terra dell’antico Alto Volta, nel Ghana pluripartitico. Il motto del paese è Libertà e Giustizia…il Ghana fu il primo paese dell’Africa Occidentale ad ottenere l’indipendenza, il 6 Marzo 1957. La raggiunta libertà accelerò il movimento indipendentista di tutta l’Africa nera.
Lasciato il Togo la strada è solcata da voragini che obbligano l’autista ad un continuo slalom e mettono a dura prova il châssis dell’auto, che sembra diventare di gomma. Sul vetro posteriore c’è scritto “With god all is possible”; spero sia contemplata anche la possibilità di arrivare vivi e vegeti a destinazione. I nostri compagni di viaggio sono privi dei documenti necessari, ad ogni frontiera pagano una cifra all’autista che la consegna di nascosto ai responsabili del transito. Come per magia si passa dal francese all’inglese e le “buvette” diventano “bar”. Oggi è domenica e dalle chiese defluiscono cortei di persone, accompagnate dalla musica di un tamburo lentamente si inoltrano nel villaggio. Sotto una tettoia di pali un prete e dieci accoliti: preghiere, bimbi allattati, salmi, tamburi, croci e foresta.
Arriviamo nella cittadina di Ho. Canti e musica: due tamburi sono posizionati come bocche da fuoco pronte ad esplodere la carica del ritmo. Sotto due tende posticce, sulle panche di legno, stanno sedute le donne vestite di bianco e blu con una stoffa annodata alla fronte. Una parte del gruppo mantiene il ritmo di fondo con percussioni e maracas. I movimenti della danza ricordano le moine delle galline, dei pavoni quando alzano e abbassano le ali - narcisi pennuti. Altre donne hanno una stoffa bianca in grembo, piegata più volte, l’aprono e la richiudono a ritmo. Due scranni di legno intagliato accolgono i dignitari grandi e grossi: indossano una stoffa coloratissima che lascia scoperta una spalla e impugnano i bastoni del comando - simboli del potere. Un uomo al centro della folla ha una bacchetta in mano che termina in un ciuffo di crine, con questa dà il tempo alla musica, al ballo e al canto. Poi le percussioni cessano e tutte le donne si alzano in piedi, movendosi lentamente compongono un cerchio. La musica d’accompagnamento è ora suonata da campanelle percosse e il canto diviene ipnotico. E pensare che è semplicemente la festa della domenica.
In certi luoghi fermarsi a scrivere è come spolverare durante un bombardamento.
Il santuario delle scimmie si trova nel tranquillo villaggio di Tafi-Atomé. Qui da anni è in atto un progetto di turismo solidale e gli introiti sono ridistribuiti sotto forma di servizi alla comunità intera. La nostra capanna, in cemento e paglia, è poco discosta dal villaggio e assediata da ogni tipo d’insetto terricolo e alato. Giorni di pellegrinaggio; chilometri e chilometri sulle strade rosse. Questa sera la cena avviene nell’aia di un recinto di famiglia, all’interno del villaggio: riso, uovo sodo e salsa piccante – odore di legno bruciato – fumo e umido. Le capanne intorno sono assorbite dal buio più completo.
La campana della chiesa velocizza l’arrivo del giorno. L’alba è di un grigio d’ammalato terminale e incombe sopra la foresta, le galline, le radio a transistor e i primi contadini con i lunghi machete che si allontanano scalzi nella direzione dei campi coltivati. I galli rispondono nervosamente al notiziario radiofonico trasmesso da Accra.
Accra è la prima città, nel vero senso della parola, che incontriamo. Quartieri, viali, il Teatro Nazionale, i semafori funzionanti. Cerchiamo la stazione degli autobus per Cape Coast. Quanto tempo ci vuole? Forse prima del buio – è la risposta. Sull’autobus sale un ragazzo cieco e canta i salmi della bibbia, quindi gli danno il cambio una serie di figuri che elencano prodotti miracolosi, altri ammoniscono i peccatori e fissano appuntamenti per riunioni religiose oppure sedute mediche. La strada che esce da Accra per chilometri si trasforma in una lentissima processione d’auto, camion e corriere. Procediamo a passo d’uomo; al lato della strada i ragazzi e le donne vendono l’acqua, gli spiedini di carne e sabbia e le T-shirt straniere. Ogni rallentamento è seguito da un assembramento di venditori che ci assale.
Ore ed ore, e poi arriva la demolita Cape Coast, accartocciata di fronte al mare che alza una bruma mescolata alla polvere. Case, magazzini, strade strettissime, un mercato continuo e palazzi portoghesi, calle che ricordano Lisboa e Coimbra. Il terrazzo del Saamo è diroccato ma permette la vista sulla città: accampamenti di case e lamiere, carcasse di auto, barche in secca. Le costruzioni coloniali e le alte palme vigilano al di sopra del vocio delle persone…in questa città del dopo bomba.
La città è un quadro surrealista: mutazioni di Dalì - labirinti di Escher - piazze di De Chirico. Quiete e urla strazianti insieme.
Questa è la confusa visione: la strada sale fiancheggiando la torre di guardia del forte portoghese, da qui una scala scende su di un ponte, al di sotto l’ammassamento casuale delle baracche di fronte il mare. Da un lato una scalinata risale al livello della strada litoranea dove vigila massiccio il Forte Bianco. La strada sale ai quartieri in uno zigzag di cemento e pavé bucato. Rovine di palazzi signorili, scale interne smantellate, piccole piazze tra le case, archi di vecchie costruzioni pretestuose, porte enormi dei negozi sulla strada. Uno slargo, due strade in salita; il traffico è bloccato e i banconi di legno del mercato sbucano dalle auto parcheggiate. Poco oltre un camion scarica sacchi di riso vietnamita, pomodori, granchi e pesce secco. Per terra cumuli di scarpe in vendita, alle spalle ammassi monocromatici di carote e cestini di canna. Un condominio grigio a più piani è completamente fuori luogo, costruito con scarsa fantasia architettonica, piatto sino al punto da apparire simile ad un cartellone pubblicitario. Alle spalle del condominio-prigione, una costruzione portoghese distrutta e poi vocii e richiami degli imbonitori. Folla da stadio - irreale miscuglio.
Le zanzare mi svegliano più volte. Ronzii e parassiti invisibili.
Le grandi compagnie commerciali di Danimarca, Inghilterra, Francia e Olanda, la corona di Spagna, del Portogallo e della Svezia ingrandirono la fortezza di Cape Coast. Gli europei erano padroni assoluti della così detta Costa d’Oro. L’attuale Ghana era l’antica Costa Guinea; per trecento chilometri gli europei edificarono forti e torri di guardia. I portoghesi nel 1448 iniziarono la costruzione del forte San Giorgio; il forte più antico sorge a Elmina, in un villaggio di pescatori nelle vicinanze di Cape Coast. L’oro degli Ashanti, l’avorio, la gomma, il legname e le spezie furono la spinta che portò in questa terre portoghesi e francesi. Negli anni si organizzarono le compagnie commerciali: gli olandesi con la West Indische Compagnie, i francesi con la Compagnie du Senegal e gli inglesi con la Company of Royal Adventures into Africa e la Royal African Company. Il commercio degli schiavi continuava di pari passo con gli altri commerci. Duecento navi facevano la spola tra le sponde dell’atlantico trasportando ogni anno cinquantamila schiavi.
I forti del Ghana sono l’evoluzione del castrum militare romano, evoluto nel medioevo e nell’epoca delle crociate con l’aggiunta di torri sporgenti dal perimetro, la doppia cerchia muraria, i fossati, le merlature e le feritoie. L’aumento dello spessore murario avvenne per reggere i colpi dei proiettili, nel tempo sempre più pesanti. Il comandante del forte aveva pieno potere sulle truppe e gli schiavi. All’interno del fortilizio era riprodotta la città in tutto e per tutto, dalle scuole alle botteghe artigiane, e un missionario insegnava la religione cristiana. Gli schiavi imprigionati attendevano l’imbarco in celle prive d’aria e di luce. Si stimano a seicentocinquantamila gli schiavi deportati, ma più di una fonte afferma che è un dato calcolato con molto difetto. Il biancore dei forti è il contrasto di muri lisciati che si ergono dalla confusione dei villaggi di pescatori. All’ombra dei bastioni la povera vita e i giochi di bimbi sdruciti, continua imperterrita e le corriere delle gite organizzate sono prese d’assalto. I forti sono presenze aliene, astronavi atterrate in un pianeta sconosciuto, il ricovero di fantasmi e di dolori non ancora dimenticati.
L’epitaffio di Marcus Garvey all’interno del museo del forte: No one knows when the hour of Africa’s redemption cometh. It is in the wind. It is coming. One day comes…all Africa will stand together.
Tra le rovine resta muto l’urlo di vittoria – l’inno religioso – la rima che celebra l’amore.
La notte riporta il desiderio di calma, segna la fine della burrasca. Il fortunale è passato e restano sulla scogliera le reti da pesca distrutte, rami e tronchi di terre lontane. Casse di legno, conchiglie vuote, galleggianti di sughero e plastica. Le teste di bambole, strappate dal corpo, osservano sghembe i sassi arrotondati e i cumuli di alghe. Gli scafi di legno delle canoe hanno occhi disegnati sulle prore per scongiurare il cattivo destino - compagno indesiderato del navigare. Vago – Approdo - Naufrago. Abbandono i pensieri al rumore del vento, ai richiami d’uccelli che indicano la terra raggiunta o sognata. Ma quello che ascolto in questo momento, sono soltanto le grida in strada che mi strappano al veleggiare notturno della mente.
Tombe scoperchiate di colonizzatori fantasmi. Nomi e cognomi ricordano capitali europee nel cimitero di famiglie occidentali disperse in queste boscaglie, annegate nelle foreste impenetrabili. Corpi lontani dalle terre d’origine, quell’origine smarrita per sempre nelle lapidi incrinate e rovesciate sotto gli alberi esotici. Corazze frantumate d’oro e avorio, allacciate da uno spago lordo dello sporco dei secoli. Non più scorribande, né rumori di ferraglia o calzari di pelle ammuffita. Il cavaliere si è perso nella foresta di mangrovie, è solo, triste e sconfitto. Non gli resta che dimenticare il rumore della battaglia. E non esiste linimento al suo senso di colpa.
Nel lungomare i vecchi magazzini del pesce sono tetre costruzioni diventate povere case. Grotte porcellanate, stinte, prive di porte e finestre. I monumenti erosi dalle intemperie delimitano il vuoto. Le costruzioni coloniali sono estranee in questo territorio di esplosioni floreali stravaganti, e interrompono bruscamente la linea netta delle palme-soldato. Uomini e donne, neri come le occhiaie vuote delle case. Sogni smontati pezzo per pezzo, in una proiezione allineata alla spiaggia. I muri abbattuti formano lo scheletro di un dinosauro che attende di essere ricomposto nel volume originario. Le torri di guardia scompariranno eclissate dalla vegetazione. Quanto tempo ancora sopravviverà questo mondo di fatica e disorganizzazione. Potrebbe resistere mille anni, come scomparire nei prossimi dieci secondi. Una birra Star ghiacciata, per mandare via i cattivi pensieri, è quello che ci vuole.
Scardinato - divelto - strappato. Ruggine e sporco. Nonostante tutto questo ora respiro la pace. Gli ibis immacolati si allontanano in volo - silenziosi.
La luce va via in gran parte della città, l’energia elettrica sviluppata dalla diga di Akosombo, nel Lago Volta, non è sufficiente. La centrale idroelettrica vende energia al Togo e al Benin, ma purtroppo ha un contratto capestro con una ditta americana che, proprietaria di una fabbrica di alluminio in Ghana, utilizza gran parte della potenza espressa dalla centrale. Candele e lumini a petrolio indicano la strada in questo labirinto privo di testa e di coda. La ragazzina storpia ha avuto il coraggio e la forza di resistere alle difficoltà di questa terra. Nel buio i genitori la trastullano con ilari giochi; non sempre la sfortuna è maledizione.
Angeli eroici vivono tra le galline a piedi scalzi…
Vi parleranno ancora della capanna di Betlemme - così simile alla vostra. Vi racconteranno di una stella nel cielo. Accarezzeranno con le parole l’amore dei padri e delle madri – vi narreranno la cattiveria di Erode. E vi sentirete di appartenere alla fuga in Egitto…perché molto bene conoscete le sofferenze del nomade. Probabilmente sarà confusa in voi l’idea di un uomo chiamato Nazareno. Battesimi e visioni angeliche diventeranno termini anche vostri. E continuano ad arrivare protestanti, cattolici, avventisti, battisti, presbiteriani, pentecostali, benedettini, gesuiti e mariani. La Chiesa del settimo, ottavo, e nono giorno, la Confraternita della Nuova Chiesa e la Chiesa del Sangue di Cristo. Si continuano a edificare luoghi di culto e campi di preghiera. E’ strano ascoltare le orazioni sospirate da uomini dimenticati: - aspetto il giorno del signore - in lui confido - lui può tutto - in lui e per lui.
Il tro-tro si riempie dell’odore di pesce e sudore. I profumi sono assenti e la vita faticosa ha il sapore della terra smossa di recente. Incastrato nel sedile non riesco a muovere un muscolo, l’energia della sopportazione si mescola alle altre producendo un unico esperimento. Ombre vagano sulla terra, unite nella paziente attesa. I bimbi vicino osservano incuriositi le mie mani bianche.
Pesce secco - olio che frigge - scarichi a cielo aperto e batik colorati - muri grezzi e pelle di velluto.
Leggera pioggia notturna - corvi lontani e il persistente sottofondo del mare. Oggi il vento ha sgombrato le nuvole disegnando la linea perfetta dell’orizzonte; erano giorni che mancava l’idea della fine immaginaria di questo confine acqueo. Il forte e i pescatori al lavoro. Tutta l’esistenza trascorre schiacciata dall’imponente monolito, sotto il bianco monumento del terrore. Giochi, funerali, matrimoni e corriere di javò da pedinare, da conquistare. Hei - go - bye bye. Ice ku - hoi - vacia hu. How are you? Diciamo che sto pensando. Drum – drum. Notte di fuoco. Church and fire. Diciamo che sono ateo per semplificare. Ba – nghiè - una – ha. Nidì – chidì. Risate africane – sonore come vetro che si frantuma.
I dolori ritornano per quanto devono tornare - incitati dall’oscillazione del pensiero che li induce a rifarsi vivi.
La prima intenzione è di raggiungere Apam, distante pochi chilometri da Cape Coast, ma lungo la strada cambiamo idea e decidiamo di continuare. Accra è un mercato senza fine apparente, i venditori si spingono in ogni via sino a lambire, con le mercanzie in bella mostra, il Teatro Nazionale e i grattacieli di vetro. Traffico, confusione e ciarpame. La stazione dei minibus per il Togo è in un piazzale ingolfato dalle piccole corriere, tro-tro e macchine ridotte allo stato larvale. Irriconoscibili ammassi di ruggine, lamiere saldate e rappezzate centinaia di volte. I raggiri sono molto infantili e alcuni tentano di aumentare il guadagno sulle poche monete di resto. Dal finestrino recupero al volo biscotti e pezzi di carne.
La strada litoranea è molto trafficata; utilizzata per compiere il lungo tragitto che dalla Nigeria porta naturalmente, senza impedimenti ambientali, alla Costa d’Avorio. Il mare è una distesa gommata spalmata di lato. Siamo parte di un raduno motorizzato, un corteo di auto senza fari. I cigolii interni seguono buche e ondeggiamenti rendendo il movimento una sorta di scivolamento sull’asfalto. Sul ciglio buio della strada le persone rischiano la vita. Invaghito dalle luci fuggenti mi perdo nei ricordi e in veloci pensieri. Questo è il prototipo magmatico di un mondo possibile, un’organizzazione ancora in atto, l’evoluzione non terminata. Il tentativo scomposto della ricerca di un modo di vita, una vita comunitaria.
La frontiera tra il Ghana e il Togo è una pazzia: l’ingresso a Disneyland, con migliaia di persone, imbonitori e falsi aiutanti, sgarbi ed estenuanti pratiche doganali. L’autista guida nel buio senza fanali e più di una volta si fa inveire contro da altri autisti – navighiamo in un silenzio preoccupato. I compagni di viaggio si alternano, scompaiono, si danno il cambio, scendono in prossimità di incroci isolati nella campagna, nelle vie caotiche delle città, nei pressi delle lagune, ai confini del mondo.
Tra il Togo e il Benin la frontiera è più tranquilla e sembra di ritornare a casa. Sbarchiamo dopo un giorno di viaggio a Gran Popo, in un albergo in via di completamento, pulito e anonimo. Al mattino la radio trasmette un quartetto d’archi. La spiaggia è un infinito numero, una linea senza interruzione segnata dai solchi delle piroghe varate per gettare le reti al largo. Dalla riva, con l’aiuto di una grossa corda, file di uomini ritirano le reti; dividono il pesce in vasche di alluminio martellato dall’uso e lo affidano alla “marchande”.
Capanne e case. Residui fossili…
Gran Popo – Comé – Possotomé. Villaggi di fronte al lago – templi – ceneri fumanti – case di banko semi distrutte e una calma profonda. Conga e sonagli ricavati da piatti d’acciaio martellano nella chiesa protestante. I piccoli villaggi sorgono uno dietro l’altro; è un continuo salutare e ricevere saluti fragorosi in risposta. Ma quanti bambini! Alcuni si accodano mentre i più sfacciati esigono la nostra mano per centinaia di metri. Raggiungiamo il villaggio di Bopa camminando per quattordici chilometri sulla strada sterrata.
Agricoltura - economia di sussistenza. La definizione ritorna spesso alla mente.
Ritorna lentamente il ritorto pensiero. Mangrovia sopravvissuta alla siccità. Il lago mansueto ispira pensieri più morbidi. I ragazzini magri e neri corrono sulla spiaggia - antilopi incerte che non inciampano mai.
Incontro-scontro delle morali. La vita vissuta sotto la luce del sole è forte senso di continuità: sconvolge, colpisce, ferisce a volte. Ma questa è vita vissuta. Antipode e straniera, folle e incomprensibile alla prima analisi. Ma è pure unione delle esistenze, callosità vitale, mutualità delle povere cose. Non riesco ad aggiungere altro al grande vuoto-pieno che mi circonda.
Microbi invisibili riducono le rocce in sabbia e il mare in gocce d’umido salato.
Ritorniamo a Ouidah. Nella foresta sacra la statua di Legba introduce in uno spiazzo libero in mezzo agli alberi; il luogo di feticheurs e tagli sulle spalle nel tentativo di guarire. I templi segnalati da bandiere bianche e stracci strappati sono seminascosti, all’interno il cumulo di sabbia, fango, cenere e chissà che altre sostanze putrescenti disciolte, segna il luogo dei sacrifici, lo spazio dei richiami rivolti alle anime dei morti.
Le piccole nettarine volano tra i fiori di un ibisco rosso fuoco. Spalle nude al sole - seni pronunciati alle labbra dischiuse dei bimbi di mogano. Meccaniche e poetiche naturali.
Nel buio della sera un coro lontano. La brigata militare si avvicina marciando e il corteo ritma a più voci una motivo marziale. I soldati hanno le ciabatte infradito di plastica e i fucili di marzapane. Dove si è perso Bruce Chatwin per immaginare il passato di questa città, legata indissolubilmente ad Haiti e al Brasile. Forse, con un altro Pastis non allungato con l’acqua, potrei provare a rileggere il passato in questo silenzio che si alterna al frinire dei grilli e ai fruscii di cuoche al lavoro tra gli odori di brace. Ma non avrebbe senso pensare al passato, qui e ora è il “campo di battaglia”, la realtà di ogni giorno è “l’andare avanti”, mistero e vessillo che unisce legioni di contadini, capanne e lagune, umido e caldo torrido.
Jan – son – kotem. Grkkkk …fuori dalla porta ha frenato la notte sconquassando il silenzio.
La messa all’aperto sulla spiaggia Jonquet. Un piccolo gruppo di persone vestite di bianco, con una croce scolorita e il Cristo appeso malamente alle asticelle, avanzano come miraggi portati dal vento. Il prete traccia sulla sabbia un grande rettangolo, santifica l’interno e richiama al centro dello spazio i parrocchiani. Celebra la messa del vento e dell’oceano.
Il mare e la capanna segnano gli ultimi due giorni nella terra d’Africa. Sagome di navi container solcano l’orizzonte - marionette azionate da un burattinaio subacqueo. Il porto di Cotonou è a undici chilometri e l’inquinamento, causato dallo scarico delle petroliere, è chiaramente visibile in questa spiaggia che corre ad ovest inarrestabile. I villaggi più vicini al quartiere della città, si sono trasformati in agglomerati grigi e cubicolari di mattoni e sabbia cementati assieme. Le foreste di palme sono scomparse, i terreni tramutati in piazzali spettrali di sabbia rastrellata. Il ragazzo dei Bagni Lumiere sussurra sconsolato: - Rastrello la sabbia da vent’anni, livello la battigia con una perfezione millimetrica. Preparo il palco per spettatori-bagnanti che non verranno mai. Sogno di invertire lo spazio e il tempo. Cerco di ribaltare la realtà, piegarla alle mie volontà per una volta. Come uno spirito malvagio tento di rubare per gioco l’anima dei viandanti, fermo il destino capovolgendolo e sogno camerieri bianchi servire una birra ghiacciata ai tavolini dove riposano i neri pescatori scalzi.
Interventir l’espace el le temps…
Sono già passato di qui, ho visto questa gente, ho sentito mille volte i loro saluti stentorei e i pianti. Eppure è la prima volta che ascolto questa trenodia, e allora perché costruire altri labirinti, quando i labirinti in questo luogo sono eretti con l’argilla sanguinolenta. Perché dipingere tragedie inventate quando la realtà è molto peggio.
Sulla spiaggia avanza la ragazzina che porta sul capo una pentola di frittelle dolci di mais. Si ferma vicino ai gitanti che si sono dati appuntamento sulla spiaggia di Cotonou. L’immagine controsole procede lentamente, il corpo leggermente proteso in avanti come se stesse combattendo un vento gelido e contrario. Avanza a capo chino trasportando le mercanzie fritte e sembra chiedersi: - Perché è toccato proprio a me rincorrere le ombre festaiole dei bagnanti…
L’amante segreta.
Lei ritorna sui propri passi. Non ho la forza e neppure la volontà di fermarla – di chiamarla indietro. Forse sono in attesa che un’entità superiore decida al mio posto. Non so se sono stanco – oppure così innamorato di tutto da non voler perdere nulla. Per la prima volta realmente egoista – egocentrico. Ritorna il malessere di nuovi e antichi dolori. Resto in attesa - in questo bar dell’iperspazio africano – sperando quasi che un meteorite impazzito mi possa rovinare sulla testa risolvendo ogni dilemma. Non amo il vuoto – ma forse inizio a desiderare la solitudine preistorica – la paura delle tenebre. In fondo al mio cuore aspetto il miracolo del fuoco e lei si tramuta in immagine conosciuta - fianchi leggeri e il seno forte. Ed ancora ridiscendo - naturalmente attratto - le pieghe del suo corpo e la maturità delle gambe vigorose. I pensieri conosciuti mi creano l’ebbrezza di altri giorni che credevo perduti per sempre. Ritorna il fuoco pirotecnico dei ricordi ed è difficile frenare la gioia - i baci risaputi e speciali. Riconosco il passo che si avvicinava e la sua voce che pronuncia una cauta domanda appena sospirata al mio stare lontano: - Avrai la forza di ritornare?
Imbarazzato - svelando i miei pensieri rumorosi - mi accendo una sigaretta
e non riesco ad aggiungere nulla…all’Africa amante.