Eterna è soltanto la pioggia, eterno è il vento… – così pensa il saggio disoccupato, intento a inzeppare il bagaglio impolverato dai sensi di colpa impalpabili che riescono a coprire con una patina di sporco l’estasi dell’andare.
Decide di rimanere solo; solitario sguardo a penetrare le disgrazie altrui, candela tremula tra lo sfavillio della festa, cane randagio in un mondo di barboncini alla finestra. Non era ancora giunto il momento di trasformarsi in un cane da salotto, protetto da pareti sicure, che scodinzola sulla moquette e si adagia pigramente di fronte al caminetto acceso. Pensava di avere ancora tempo prima di arrestarsi e uggiolare a pancia all’aria disteso sopra improbabili tappeti di Kars, kilim delle multinazionali del finto-etnico, sdraiato a terra alla portata dei lapilli e osservato severamente da leopardi imbalsamati, uccisi in safari domestici.
La ragazza abbandona lo sguardo dal finestrino dell’Euro Star; attraverso il vetro appannato la campagna maremmana è l’esaltazione cromatica del verde smeraldo: erba e campi coltivati in perfette scriminature di terra rovesciata, fiori di gramigna, pozzi e bufali al pascolo. La giovane donna si alza, lascia cadere il libro aperto nella poltrona accanto. Nella pagina lui intravede delle sottolineature, non riesce a vincere la curiosità e sbircia le parole evidenziate con un pennarello giallo fosforescente: …Ciò che in origine doveva essere un custode, una barriera per proteggere l’io da pericolosi assalti esterni, può diventare una prigione dalle cui mura non è più possibile uscire.
Si era allontanata per fumare, lui se ne accorge dalla scia di odore di sigaretta che riporta nello scompartimento e, frammisto a un sospiro profondo, il lieve colpo di tosse la materializza di nuovo nel sedile di fronte mentre riprende in mano “L’io diviso” di Ronald Laing.
Solo; ho ricercato, desiderato, bramato la solitudine. ho invitato la tristezza a cena per trascinarla sul mio letto e farla mia. Il mio doppio mi osserva dall’altra parte del muro; lo sguardo dell’altro io esce dallo specchio e mi scruta abbarbicato alla facciata della casa. La finestra diviene l’oblò di un transatlantico alla deriva. Caronte ha lasciato la riva e mi trasporta nel buio, indeciso se attraccare ad uno scoglio affiorante e abbandonarmi al destino sopra quell’iceberg di roccia e alghe. Mi guarda indeciso e ho paura a dirgli che non avrei nulla in contrario…
Quando terminò la lettera decise che non l’avrebbe mai spedita.
Decide di rimanere solo; solitario sguardo a penetrare le disgrazie altrui, candela tremula tra lo sfavillio della festa, cane randagio in un mondo di barboncini alla finestra. Non era ancora giunto il momento di trasformarsi in un cane da salotto, protetto da pareti sicure, che scodinzola sulla moquette e si adagia pigramente di fronte al caminetto acceso. Pensava di avere ancora tempo prima di arrestarsi e uggiolare a pancia all’aria disteso sopra improbabili tappeti di Kars, kilim delle multinazionali del finto-etnico, sdraiato a terra alla portata dei lapilli e osservato severamente da leopardi imbalsamati, uccisi in safari domestici.
La ragazza abbandona lo sguardo dal finestrino dell’Euro Star; attraverso il vetro appannato la campagna maremmana è l’esaltazione cromatica del verde smeraldo: erba e campi coltivati in perfette scriminature di terra rovesciata, fiori di gramigna, pozzi e bufali al pascolo. La giovane donna si alza, lascia cadere il libro aperto nella poltrona accanto. Nella pagina lui intravede delle sottolineature, non riesce a vincere la curiosità e sbircia le parole evidenziate con un pennarello giallo fosforescente: …Ciò che in origine doveva essere un custode, una barriera per proteggere l’io da pericolosi assalti esterni, può diventare una prigione dalle cui mura non è più possibile uscire.
Si era allontanata per fumare, lui se ne accorge dalla scia di odore di sigaretta che riporta nello scompartimento e, frammisto a un sospiro profondo, il lieve colpo di tosse la materializza di nuovo nel sedile di fronte mentre riprende in mano “L’io diviso” di Ronald Laing.
Solo; ho ricercato, desiderato, bramato la solitudine. ho invitato la tristezza a cena per trascinarla sul mio letto e farla mia. Il mio doppio mi osserva dall’altra parte del muro; lo sguardo dell’altro io esce dallo specchio e mi scruta abbarbicato alla facciata della casa. La finestra diviene l’oblò di un transatlantico alla deriva. Caronte ha lasciato la riva e mi trasporta nel buio, indeciso se attraccare ad uno scoglio affiorante e abbandonarmi al destino sopra quell’iceberg di roccia e alghe. Mi guarda indeciso e ho paura a dirgli che non avrei nulla in contrario…
Quando terminò la lettera decise che non l’avrebbe mai spedita.
Shabir gli indica la strada; il sentiero polveroso oltrepassa la barriera formata dalle palme scheletriche e ingiallite. La polvere dell’India è appiccicaticcia, i forti odori disegnano aureole consistenti intorno alle cose animate e inanimate. Lui è partito da poco tempo e il mondo solito, ora un po’ più lontano, è ancora presente - vivo e agitato. Il suo corpo mantiene l’odore di lei, quell’aroma che gli unguenti e i profumi indiani non riescono a eliminare. La pelle ha l’alone della sua presenza. La lei reale – viva – corporea – materica. E lui si perde nelle terre inesistenti, dove le persone in strada banchettano invitando la polvere e i sogni allo stesso tavolo.
Gli viene alla mente Lao-tzu: Raggiungi il vuoto estremo e conserva una rigorosa tranquillità.
Gli viene alla mente Lao-tzu: Raggiungi il vuoto estremo e conserva una rigorosa tranquillità.
Per magia i suoni cambiano, le voci intercalano lingue straniere che sospingono al salto lontano, un rimbalzo nel vuoto apparente. La lontananza e la solitudine inizialmente lo raggelano, anche se solo un attimo prima non nutriva altro desiderio. Voglia di silenzio e nello stesso tempo di confusione estrema dove sciogliere l’unità: clamore sfrenato, feste di matrimoni, celebrazione dell’anniversario della liberazione dall’esercito invasore, cortei, battiti di mani, tamburi e folla rumorosa.
L’Oceano Indiano si manifesta rumorosamente sulla spiaggia del Kerala del sud. Sabbia arroventata e i pescatori cadenzano una nenia per richiamare i pesci nella rete a sacco, trascinata a riva tramite una lunga corda. Il ritmo è magia di suoni disuniti che lentamente danno espressione alla cantilena ipnotica.
Sulla spiaggia i gitanti indiani osservano i pochi turisti seduti ai tavolini delle buvette: - Che cosa aspettano questi occidentali appollaiati sopra gli sgabelli dei bar. Bevono acqua minerale e caffè. Che strano mondo deve essere il loro; lo sguardo estasiato e colpevole al contempo.
Le formiche fuggono dallo zucchero non appena lui affonda il cucchiaio. Palme, corvi e improvvisati contadini raccolgono l’erba acquatica che cresce tra la spiaggia e il letto di mangrovie. Sopra gli scogli arrotondati dalla forza levigatrice dell’Oceano, gli uomini in dhoti o completamente nudi sembrano creature preistoriche appena risvegliate.
L’Oceano Indiano si manifesta rumorosamente sulla spiaggia del Kerala del sud. Sabbia arroventata e i pescatori cadenzano una nenia per richiamare i pesci nella rete a sacco, trascinata a riva tramite una lunga corda. Il ritmo è magia di suoni disuniti che lentamente danno espressione alla cantilena ipnotica.
Sulla spiaggia i gitanti indiani osservano i pochi turisti seduti ai tavolini delle buvette: - Che cosa aspettano questi occidentali appollaiati sopra gli sgabelli dei bar. Bevono acqua minerale e caffè. Che strano mondo deve essere il loro; lo sguardo estasiato e colpevole al contempo.
Le formiche fuggono dallo zucchero non appena lui affonda il cucchiaio. Palme, corvi e improvvisati contadini raccolgono l’erba acquatica che cresce tra la spiaggia e il letto di mangrovie. Sopra gli scogli arrotondati dalla forza levigatrice dell’Oceano, gli uomini in dhoti o completamente nudi sembrano creature preistoriche appena risvegliate.
La famiglia del Tamil Nadu lo riconosce come il padre defunto della sposa ed esigono una fotografia: - Assomigli a mio padre morto dieci anni fa, stesso viso… - gli dice la giovane e graziosa madre dei due bambini mignon che tengono la sua mano, fingendo di non aver paura del fantasma slavato del nonno. In modo casuale e sotto alcuni aspetti magico, entra a far parte di una famiglia, solo per un momento - la durata di un lampo. Tre click fotografici e poi si allontanano per ritornare nella loro casa nel Tamil Nadu, lasciandolo incredulo e con il desiderio abortito di bere qualche cosa insieme a loro continuando a sentirsi tra congiunti.
Le insegne pretestuose punteggiano la costa una dietro l’altra: Beatles Pub, New World, Coconut Grove, Fantasia. Cucina indiana, cinese, spaghetti italiani e masala, coca cola e succhi di ananas caldi e imbevibili. Pesce a seccare sulla spiaggia, corvi reali, donne sottili e instancabili, manifesti e scritte sui muri del Partito Comunista Indiano, cartelli pubblicitari delle escursioni in barca: la vera passione degli indiani benestanti arrivati dalle grandi città per trascorrere il fine settimana. E poi l’altro mondo, parallelo, estraneo, che sopravvive a due passi dentro capanne poverissime e cubicoli fatiscenti. I pescatori incoraggiano i pesci; il canto di lavoro allontana la fatica ed è inframmezzato dalle note di “Immagine” cantata da John Lennon, da musiche folk americane e soporifero pop internazionale - geremiadi da aeroporto.
Le insegne pretestuose punteggiano la costa una dietro l’altra: Beatles Pub, New World, Coconut Grove, Fantasia. Cucina indiana, cinese, spaghetti italiani e masala, coca cola e succhi di ananas caldi e imbevibili. Pesce a seccare sulla spiaggia, corvi reali, donne sottili e instancabili, manifesti e scritte sui muri del Partito Comunista Indiano, cartelli pubblicitari delle escursioni in barca: la vera passione degli indiani benestanti arrivati dalle grandi città per trascorrere il fine settimana. E poi l’altro mondo, parallelo, estraneo, che sopravvive a due passi dentro capanne poverissime e cubicoli fatiscenti. I pescatori incoraggiano i pesci; il canto di lavoro allontana la fatica ed è inframmezzato dalle note di “Immagine” cantata da John Lennon, da musiche folk americane e soporifero pop internazionale - geremiadi da aeroporto.
- One rupia, please, one rupia - un ragazzo con quattro dita rattrappite e privo dell’uso delle gambe scivola a terra – one rupia, please, one rupia – continua instancabile. La bionda australiana transita e non degna nessuno di uno sguardo. Ondeggia le pesanti forme sculettando e mette in subbuglio i fiori stampati del pareo per turisti che le fascia il corpo. Il mendicante ora, con un sorriso di complicità reso luminoso dall’offerta generosa dell’uomo, indica con lo sguardo una bimba francese che strilla inconsolabile. Sembra stupito di vedere il batuffolo roseo e biondo, apparentemente inoffensivo, sbraitare in quel modo. Poco lontano due sdraie di plastica rossa rimarcano la desolazione della spiaggia alla moda, in questo mese che segna la fine della stagione turistica. Tra poco inizieranno i monsoni e il paradiso annegherà completamente per mesi, isolandosi dalle rotte vacanziere, confondendo sabbia e fango in una palude salata.
La donna trasporta un ananas sul capo trasformandolo in un’acconciatura irreale; i lenti movimenti del suo collo da bambola gli offrono quell’unico frutto reso ancor più appetibile dal dolce dialetto malayam.
Lungo la battigia si muovono tre macchie di colore: giallo – verde – rosso. Gli abiti si rincorrono, l’aria calda spezza le linee dei corpi che divengono semplici tremori di stoffe alla brezza, e di nuovo voci estranee, incomprensibili, lo interrogano dolci e instancabili una dopo l’altra. La coppia indiana è seduta di fianco: lei è elegante in un sari arancio e oro, lui indossa la kurta e i pantaloni con la piega perfetta. Un corteo ridanciano è appena sbarcato dall’autobus proveniente da Trivandrum, e scende la collina per lanciarsi sulla sabbia arroventata tra le onde spumeggianti.
La sua bottiglia di birra è rivestita, per nasconderla ad occhi indiscreti dato che il gestore non ha il permesso di vendere alcolici, dal quotidiano The Hindu del 16 Febbraio. Le macchie di colore che si rincorrevano lontano ora si avvicinano; lui resta stupito perché sono tre donne anziane che indistinte apparivano ragazze giovanissime intente a sfuggire alle onde.
Il faro portoghese si leva in alto alla fine della spiaggia, vigila dal promontorio di pietre arrotondate, e lo immagina come una ciminiera a strisce che ha riversato con impeto i corpi rotolanti tra gli schizzi delle onde senza posa; la bocca di mattoni ha eruttato corvi reali, folate di vento e migliaia di namasté.
La donna trasporta un ananas sul capo trasformandolo in un’acconciatura irreale; i lenti movimenti del suo collo da bambola gli offrono quell’unico frutto reso ancor più appetibile dal dolce dialetto malayam.
Lungo la battigia si muovono tre macchie di colore: giallo – verde – rosso. Gli abiti si rincorrono, l’aria calda spezza le linee dei corpi che divengono semplici tremori di stoffe alla brezza, e di nuovo voci estranee, incomprensibili, lo interrogano dolci e instancabili una dopo l’altra. La coppia indiana è seduta di fianco: lei è elegante in un sari arancio e oro, lui indossa la kurta e i pantaloni con la piega perfetta. Un corteo ridanciano è appena sbarcato dall’autobus proveniente da Trivandrum, e scende la collina per lanciarsi sulla sabbia arroventata tra le onde spumeggianti.
La sua bottiglia di birra è rivestita, per nasconderla ad occhi indiscreti dato che il gestore non ha il permesso di vendere alcolici, dal quotidiano The Hindu del 16 Febbraio. Le macchie di colore che si rincorrevano lontano ora si avvicinano; lui resta stupito perché sono tre donne anziane che indistinte apparivano ragazze giovanissime intente a sfuggire alle onde.
Il faro portoghese si leva in alto alla fine della spiaggia, vigila dal promontorio di pietre arrotondate, e lo immagina come una ciminiera a strisce che ha riversato con impeto i corpi rotolanti tra gli schizzi delle onde senza posa; la bocca di mattoni ha eruttato corvi reali, folate di vento e migliaia di namasté.
Un ragazzo, magnificando i coni gelato di cialda arancione sbriciolati, spinge nell’ombra la bicicletta. Legato al portapacchi il cassonetto-frigorifero è di legno tinteggiato in blu, all’interno un blocco di ghiaccio raffredda l’humus poco invitante ai frutti tropicali.
Le voci stridule di due bimbe, mentre assediano il gelataio, drammatizzano i passi incerti delle loro gambe secche; sono prototipi di fanciulle ancora molto lontane dalla grazia delle loro madri, che con una naturale eleganza alzano il sari ad ogni riflusso del mare per non bagnare la stoffa. Ehi – ehi – ghee da la mè – e scintillii di bracciali e collane, lacrime d’oro e pietre preziose sulle narici.
Lui afferra al volo il foglio scivolato dal libro che sta leggendo: - Io vesto nero e penso in viola. Mi sento piccante e amaro. Confuso come le vette lontane dei monti – tremolanti di calore – che segnano l’orizzonte con il corpo di un serpente a mezz’aria. Il corvo sussurra ventisette e urla settantadue. Il sole del mattino è incerto, introverso, e timido come un girasole segna su di un quadrante inesistente l’ora della partenza. I frutti tropicali disciolti nel bicchiere fermentano sotto il sole. Il forte aroma induce tre ragioni per morire e tre ragioni per continuare a vivere.
Il tappo della salsa di soia è una macchia formicolante d’insetti mutanti. Sulla strada i risciò neri e gialli danno vita ad un’assemblea che urla lo stesso slogan ripetuto all’infinito e gli autisti vogliono sapere mille volte dove desidera andare. Le donne, nel piazzale polveroso, non abbassano mai lo sguardo e restano incredule quando l’uomo premia la loro bellezza con un sorriso, rispondono sospirando lievi saluti che si solidificano in centinaia di denti abbaglianti.
La luce del tramonto rende ebeti gli spettatori assorti dalla varietà dei colori nel cielo, poi nel buio completo risalgono lentamente per raggiungere la strada principale e fuggire dentro gli autobus scalcinati.
Sopra le sedie dei ristoranti non appena cala il sole adagiano asciugamani bianchi e quest’abitudine, considerata molto “chic”, rende i locali all’aperto una sorta di mostra di fantasmi svenuti, sfiniti, ebbri di sole. Il cameriere simpatizzante di Sonia Ghandi si avvicina e attacca discorso snocciolando domande accademiche: - Sei sposato? – Hai figli? – Che cosa pensi dell’India…
Le voci stridule di due bimbe, mentre assediano il gelataio, drammatizzano i passi incerti delle loro gambe secche; sono prototipi di fanciulle ancora molto lontane dalla grazia delle loro madri, che con una naturale eleganza alzano il sari ad ogni riflusso del mare per non bagnare la stoffa. Ehi – ehi – ghee da la mè – e scintillii di bracciali e collane, lacrime d’oro e pietre preziose sulle narici.
Lui afferra al volo il foglio scivolato dal libro che sta leggendo: - Io vesto nero e penso in viola. Mi sento piccante e amaro. Confuso come le vette lontane dei monti – tremolanti di calore – che segnano l’orizzonte con il corpo di un serpente a mezz’aria. Il corvo sussurra ventisette e urla settantadue. Il sole del mattino è incerto, introverso, e timido come un girasole segna su di un quadrante inesistente l’ora della partenza. I frutti tropicali disciolti nel bicchiere fermentano sotto il sole. Il forte aroma induce tre ragioni per morire e tre ragioni per continuare a vivere.
Il tappo della salsa di soia è una macchia formicolante d’insetti mutanti. Sulla strada i risciò neri e gialli danno vita ad un’assemblea che urla lo stesso slogan ripetuto all’infinito e gli autisti vogliono sapere mille volte dove desidera andare. Le donne, nel piazzale polveroso, non abbassano mai lo sguardo e restano incredule quando l’uomo premia la loro bellezza con un sorriso, rispondono sospirando lievi saluti che si solidificano in centinaia di denti abbaglianti.
La luce del tramonto rende ebeti gli spettatori assorti dalla varietà dei colori nel cielo, poi nel buio completo risalgono lentamente per raggiungere la strada principale e fuggire dentro gli autobus scalcinati.
Sopra le sedie dei ristoranti non appena cala il sole adagiano asciugamani bianchi e quest’abitudine, considerata molto “chic”, rende i locali all’aperto una sorta di mostra di fantasmi svenuti, sfiniti, ebbri di sole. Il cameriere simpatizzante di Sonia Ghandi si avvicina e attacca discorso snocciolando domande accademiche: - Sei sposato? – Hai figli? – Che cosa pensi dell’India…
Il ventilatore non è sufficiente, grondava di sudore nella stanza faticando a trovare il sonno. La notte laboriosa di sogni e improvvisi risvegli è interrotta dall’uccello dell’alba che dalla sua postazione, tra i rami di una palma, lancia il trillo ostinato nella direzione del villaggio insonnolito.
I tre tocchi alla porta, seppur lievi di timidezza, lo catapultano giù dal letto: - La corriera sta per partire - qualcuno incita dall’esterno, e improvvisamente si accorge che il sogno è finito, ma con difficoltà realizza che è l’alba.
Le visioni notturne di persone conosciute si tramutano velocemente in reali villaggi e città che si susseguono dal finestrino privo di vetri dell’autobus, mentre punta il nord del paese. Canali tra le piantagioni di banane e le strade polverose, pretestuose highway e semplice nastro cementato alla peggio che sopravvive solo per segnare una via; le voragini e i massi sulle carreggiate sono le barriere continue dei posti di controllo e dissuasori di velocità al contempo.
Scorge i templi induisti addobbati con caschi di banane, cesti di manghi, fiori di gelsomino legati a corona e intervallati da fiori di buganvillee. I sentieri dipartono dalla strada, conducono all’ingresso dei luoghi di culto e sono cosparsi di cenere – una vena grigia nella terra argillosa scurita ancora di più dall’umido della notte.
Accostati al tempio, nel fiume grigio-verde, decine di uomini dragano e con l’acqua alla vita s’immergono, aiutandosi con un contenitore di metallo riportano la sabbia del fondo in superficie, quindi caricano le piroghe che scendono all’ansa del fiume dove i mastodontici camion Tata attendono per portare quell’oro da costruzione nei cantieri edili, dove le impalcature di canne di bambù legate assieme imprigionano case eternamente in restauro. Sopra i muri diroccati il simbolo della svastica: segno della religione induista, poco distante i cartelli politici del partito comunista dove spicca una falce e martello bianca su sfondo rosso.
Due enormi elefanti incatenati s’inoltrano lentamente nelle strade della foresta scortati da contadini e boscaioli e transitano accanto agli accampamenti di fortuna dei profughi di altri stati indiani, fuggiti alle carestie cicliche o alle persecuzioni, che si sono organizzati al ciglio delle strade e vivono dentro tende di plastica riciclata.
Sfilano piccole cittadine e pseudo-città confuse nel traffico, sino ad arrivare alla foresta tropicale, territorio di scimmie e vette rannuvolate; i monti sono completamente ricoperti dalla vegetazione fittissima. Il cielo si rannuvola, il vento e la grandine sconvolgono l’aria e la pioggia fa i resto, in poco tempo la strada tortuosa diventa un fiume inarrestabile e l’autobus fatica a proseguire. Essere dentro oppure fuori sono termini che non hanno senso, un semplice telone di stoffa pesante è aggiunto ai finestrini privi di vetri.
I tre tocchi alla porta, seppur lievi di timidezza, lo catapultano giù dal letto: - La corriera sta per partire - qualcuno incita dall’esterno, e improvvisamente si accorge che il sogno è finito, ma con difficoltà realizza che è l’alba.
Le visioni notturne di persone conosciute si tramutano velocemente in reali villaggi e città che si susseguono dal finestrino privo di vetri dell’autobus, mentre punta il nord del paese. Canali tra le piantagioni di banane e le strade polverose, pretestuose highway e semplice nastro cementato alla peggio che sopravvive solo per segnare una via; le voragini e i massi sulle carreggiate sono le barriere continue dei posti di controllo e dissuasori di velocità al contempo.
Scorge i templi induisti addobbati con caschi di banane, cesti di manghi, fiori di gelsomino legati a corona e intervallati da fiori di buganvillee. I sentieri dipartono dalla strada, conducono all’ingresso dei luoghi di culto e sono cosparsi di cenere – una vena grigia nella terra argillosa scurita ancora di più dall’umido della notte.
Accostati al tempio, nel fiume grigio-verde, decine di uomini dragano e con l’acqua alla vita s’immergono, aiutandosi con un contenitore di metallo riportano la sabbia del fondo in superficie, quindi caricano le piroghe che scendono all’ansa del fiume dove i mastodontici camion Tata attendono per portare quell’oro da costruzione nei cantieri edili, dove le impalcature di canne di bambù legate assieme imprigionano case eternamente in restauro. Sopra i muri diroccati il simbolo della svastica: segno della religione induista, poco distante i cartelli politici del partito comunista dove spicca una falce e martello bianca su sfondo rosso.
Due enormi elefanti incatenati s’inoltrano lentamente nelle strade della foresta scortati da contadini e boscaioli e transitano accanto agli accampamenti di fortuna dei profughi di altri stati indiani, fuggiti alle carestie cicliche o alle persecuzioni, che si sono organizzati al ciglio delle strade e vivono dentro tende di plastica riciclata.
Sfilano piccole cittadine e pseudo-città confuse nel traffico, sino ad arrivare alla foresta tropicale, territorio di scimmie e vette rannuvolate; i monti sono completamente ricoperti dalla vegetazione fittissima. Il cielo si rannuvola, il vento e la grandine sconvolgono l’aria e la pioggia fa i resto, in poco tempo la strada tortuosa diventa un fiume inarrestabile e l’autobus fatica a proseguire. Essere dentro oppure fuori sono termini che non hanno senso, un semplice telone di stoffa pesante è aggiunto ai finestrini privi di vetri.
Arriva nella missione-convento di Vaytthiri, nell’estremo nord del Kerala, quando è l'ora della preghiera serale, dopo aver percorso a piedi gli ultimi chilometri sotto la minaccia di una nuova tempesta.
Suor Gianangela lo sistema nella stanza chiamata degli italiani: - Qui sono ospitate le famiglie che adottano gli orfani accolti nella missione – gli dice - io in trentacinque anni ho visto tanti di bambini partire per l’Italia.
Parla con un espressione soddisfatta e non nasconde l’orgoglio che solitamente le madri nutrono per i propri figli.
Nella stanza vicino una donna anziana si lamenta cantilenando le stesse identiche tre parole mentre, nella cappella della minuscola chiesa, le sorelle pregano melodiose. La preghiera gli è nota ma poco dopo il canto del muezzin, da una moschea lontana, s’inserisce complicando le sue memorie spirituali, trasformando lamenti e orazioni in un unico miscuglio echeggiante.
Traak – da – da – traak – da – da…
Continua a ripetere la donna ammalata e costretta a letto nella stanza vicino. Il lamento afflitto viene spazzato via dai passi del Corano, le implorazioni del Profeta vincono il dislivello delle colline e giungono comprensibili: - Dio in verità non commette nessuna ingiustizia contro gli uomini, sono gli uomini a commettere ingiustizie verso se stessi.
Il cielo si rannuvola e la tempesta è sempre più vicina.
Traak – da – da – traak – da – da…
Nella cappella la preghiera serale è intercalata da campanelle intimidite dalle folate di vento: Padre nostro che sei nei cieli… Traak – da – da – traak – da – da…
- Sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra… Le voci continuano a inneggiare.
La candela si produce in una danza del ventre. Lo spiraglio d’aria fresca è un artiglio della burrasca esterna e solletica la lingua di fuoco.
Nel tempio del villaggio il bramino racconta una storia del Bhagavad Gita: - Krishna dice al suo auriga: Le membra non mi sorreggono, la bocca è arida, i capelli mi si rizzano sulla testa. Meglio morire qui, piuttosto che dare inizio a questa battaglia. Io non vorrei uccidere, nemmeno per il dominio dell’universo, tanto meno dunque per il dominio di questa terra.
Intorno al santo lettore gli incensi bruciano in silenzio.
Nella sua stanza le formiche volanti ronzano intorno e si gettano sulla fiamma con dei debolissimi banzaai.
Traak – da – da – traak – da – da… …Liberaci dal male e così sia.
Gli alberi tropicali e le donne in sari si ritirano definitivamente nell’ombra. L’insulina ha prodotto il suo effetto; l’anziana suora relegata a letto cessa di lamentarsi. Le tende si gonfiano alla finestra, con le inferriate e senza vetri, e la pioggia trasporta odori della campagna: sudore, sterco bruciato. I vocii e la devozione serale gli riportano alla mente i monaci buddisti dell’Emei Shan in Cina; la loro ospitalità, il loro nulla e pieno insieme. Sospiri trascendentali – alitano vento e semplici parole.
La notte profonda e i rumori nel buio, tacitano definitivamente le suppliche e i pianti. Sopra il tavolo della stanza due candele, una brocca d’acqua e il libro: Racconti di un pellegrino russo. I cancelli e le porte si serrano, alle nove di sera tutti a letto, lui compreso, quindi liberano i cani contro i ladri.
Alle sei di mattina suona la campana, e gli uccelli dell’alba seguono curiosi le pratiche che si ripetono da sempre ogni giorno uguali. Gianangela attraversa il cortile esterno con le iniezioni di insulina per l’ammalata. Il suono tondo del dialetto malayam lo invita alla colazione.
Le ombre bianche delle suore indiane procedono offuscate dalla tenda alla finestra, quando indossano l’abito religioso appaiono ancora più fragili. Fuori è un movimento continuo, l’ennesima ri-creazione: ronzii di insetti, pianti isterici dei bimbi in fasce, l’ondeggiare della voce delle suore pazze ricoverate all’interno. Lui partecipa alla sinfonia generale con una fastidiosa tosse da fumatore.
Passeggia tra la scuola e la lavanderia, ma la caccia fotografica è molto timida. Una ragazza nana, mascotte della missione, gli chiede una foto Polaroid e in cambio si presta per fargli da cicerone con veloci parole tronche di cui non conosce il significato. Alcune suore entrano dal cancello sulla strada, ritornano sorridenti dopo aver trascorso la notte fuori, nei villaggi della campagna per prestare aiuto ai contadini ammalati.
Suor Gianangela lo sistema nella stanza chiamata degli italiani: - Qui sono ospitate le famiglie che adottano gli orfani accolti nella missione – gli dice - io in trentacinque anni ho visto tanti di bambini partire per l’Italia.
Parla con un espressione soddisfatta e non nasconde l’orgoglio che solitamente le madri nutrono per i propri figli.
Nella stanza vicino una donna anziana si lamenta cantilenando le stesse identiche tre parole mentre, nella cappella della minuscola chiesa, le sorelle pregano melodiose. La preghiera gli è nota ma poco dopo il canto del muezzin, da una moschea lontana, s’inserisce complicando le sue memorie spirituali, trasformando lamenti e orazioni in un unico miscuglio echeggiante.
Traak – da – da – traak – da – da…
Continua a ripetere la donna ammalata e costretta a letto nella stanza vicino. Il lamento afflitto viene spazzato via dai passi del Corano, le implorazioni del Profeta vincono il dislivello delle colline e giungono comprensibili: - Dio in verità non commette nessuna ingiustizia contro gli uomini, sono gli uomini a commettere ingiustizie verso se stessi.
Il cielo si rannuvola e la tempesta è sempre più vicina.
Traak – da – da – traak – da – da…
Nella cappella la preghiera serale è intercalata da campanelle intimidite dalle folate di vento: Padre nostro che sei nei cieli… Traak – da – da – traak – da – da…
- Sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra… Le voci continuano a inneggiare.
La candela si produce in una danza del ventre. Lo spiraglio d’aria fresca è un artiglio della burrasca esterna e solletica la lingua di fuoco.
Nel tempio del villaggio il bramino racconta una storia del Bhagavad Gita: - Krishna dice al suo auriga: Le membra non mi sorreggono, la bocca è arida, i capelli mi si rizzano sulla testa. Meglio morire qui, piuttosto che dare inizio a questa battaglia. Io non vorrei uccidere, nemmeno per il dominio dell’universo, tanto meno dunque per il dominio di questa terra.
Intorno al santo lettore gli incensi bruciano in silenzio.
Nella sua stanza le formiche volanti ronzano intorno e si gettano sulla fiamma con dei debolissimi banzaai.
Traak – da – da – traak – da – da… …Liberaci dal male e così sia.
Gli alberi tropicali e le donne in sari si ritirano definitivamente nell’ombra. L’insulina ha prodotto il suo effetto; l’anziana suora relegata a letto cessa di lamentarsi. Le tende si gonfiano alla finestra, con le inferriate e senza vetri, e la pioggia trasporta odori della campagna: sudore, sterco bruciato. I vocii e la devozione serale gli riportano alla mente i monaci buddisti dell’Emei Shan in Cina; la loro ospitalità, il loro nulla e pieno insieme. Sospiri trascendentali – alitano vento e semplici parole.
La notte profonda e i rumori nel buio, tacitano definitivamente le suppliche e i pianti. Sopra il tavolo della stanza due candele, una brocca d’acqua e il libro: Racconti di un pellegrino russo. I cancelli e le porte si serrano, alle nove di sera tutti a letto, lui compreso, quindi liberano i cani contro i ladri.
Alle sei di mattina suona la campana, e gli uccelli dell’alba seguono curiosi le pratiche che si ripetono da sempre ogni giorno uguali. Gianangela attraversa il cortile esterno con le iniezioni di insulina per l’ammalata. Il suono tondo del dialetto malayam lo invita alla colazione.
Le ombre bianche delle suore indiane procedono offuscate dalla tenda alla finestra, quando indossano l’abito religioso appaiono ancora più fragili. Fuori è un movimento continuo, l’ennesima ri-creazione: ronzii di insetti, pianti isterici dei bimbi in fasce, l’ondeggiare della voce delle suore pazze ricoverate all’interno. Lui partecipa alla sinfonia generale con una fastidiosa tosse da fumatore.
Passeggia tra la scuola e la lavanderia, ma la caccia fotografica è molto timida. Una ragazza nana, mascotte della missione, gli chiede una foto Polaroid e in cambio si presta per fargli da cicerone con veloci parole tronche di cui non conosce il significato. Alcune suore entrano dal cancello sulla strada, ritornano sorridenti dopo aver trascorso la notte fuori, nei villaggi della campagna per prestare aiuto ai contadini ammalati.
La storia coraggiosa di quel luogo è semplice: nel 1935 un gesuita italiano approda nel Kerala e per assistere una partoriente chiede aiuto a due suore. La madre muore e la figlia si salva. Le suore si fermano nel villaggio dando vita all’opera missionaria, nella tutela degli orfani e dei bisognosi. Nel tempo le missioni si sono diffuse costruendo al loro interno scuole e orfanotrofi. Nella scuola di Vayitthiri operano insegnanti indù, cattolici e mussulmani. Molti dei neonati sono stati abbandonati perché ammalati gravemente e la comunità cattolica li segue con l’aiuto dell’ospedale poco lontano.
Il pranzo avviene nella sala comune, intorno al grande tavolo a ferro di cavallo dove le suore e le novizie, non ancora in abito talare, attendono curiose il suo ingresso. L’uomo straniero è la novità del giorno e forse dell’anno. Un gatto infastidisce una delle ragazze più giovani, e il risolino che emette è quello identico a tutte le ragazze del mondo, poi il tono generale recupera una profonda serietà assorta.
Esce nel vuoto. Piantagioni di caffè e tè. Per strada due ragazzini di Kalpetta vogliono conversare in inglese; sono due ombre che si avvicinano, che incontra sulla strada e che sfuggiranno dalla memoria come il lustrascarpe turco che oggi avrà venticinque anni: lo ricordava ragazzino undicenne rincorrerlo per pulire le scarpe in una stradina di Mardin. Due lettere in quattordici anni, poi soltanto il fumo di un ricordo nebuloso. Così si perdono le immagini, si dimenticano i volti…
Cammina sul ciglio della strada dove sfrecciano autobus stracarichi di gente e i camion veloci tagliano le curve in discesa con un muso da squalo prima dell’attacco; l’aria smossa ha un familiare odore speziato - misto di fumo e polvere. Gli sguardi bianchissimi nei visi marroni lo scrutano di sfuggita. Campane in lontananza e caldo opprimente. Le donne al lavoro nei campi di tè salutano a ogni piccolo suo accenno, dondolando impercettibilmente la testa più volte.
Nella piccola banca del paese il direttore rutta in sordina. Guardandolo fisso negli occhi dissemina una melassa d’inglese frammista ai rombi dei camion che sfrecciano sulla strada, il ventilatore è immobile per uno dei tanti black out giornalieri, parlano sudando copiosamente e firma moduli su moduli resi umidicci dalle mani fradice. L’omone gli chiede che cosa pensa dell’India, e lui in quel momento tenta solo di raggranellare un po’ d’aria smossa dalla sua mole in agitazione perpetua.
– Mi dispiace ma non ho nulla da offrirle.
Lui condivideva naturalmente la privazione del minimo indispensabile, eppure intorno continuavano a sorridergli e a salutarlo con gioia e curiosità – spettatore disarmato alla rappresentazione del vuoto.
Nel chai-shop è in bella mostra la vasca di plastica per lavare i bicchieri, molti quando entrano tuffano nell’acqua grigia la mano destra che servirà per piegare il chapati a cucchiaio, raccogliendo riso e la salsa di curry dagli opachi piatti d’acciaio.
Alcuni avventori bevono acqua calda, altri tè e latte; a causa di una pessima interpretazione sorbisce tè, latte e acqua in due bicchieri d’acciaio per stemperare la broda con i ripetuti versamenti. L’abitudine di bere acqua calda è millenaria e gli spiegano che in quel modo la temperatura interna allo stomaco si avvicina a quella esterna allontanando lo stimolo della sete e la fatica.
Vicino al sentiero che porta alle colline una famiglia vende polli vivi e bottiglie d’acqua; i figli sdruciti gli si avvicinano salutandolo insistentemente, in risposta timidamente lui si produce per gioco in un inseguimento rallentato a causa del caldo. La donna vende l’acqua minerale Kinley in bottiglia, ennesima proprietà della Coca Cola, e gentilmente gli indica il recipiente di metallo arrugginito per rinfrescarsi. Lui si scaraffa l’acqua addosso stando attento alle labbra perché vede galleggiare insetti tremolanti.
Cammina sul ciglio della strada dove sfrecciano autobus stracarichi di gente e i camion veloci tagliano le curve in discesa con un muso da squalo prima dell’attacco; l’aria smossa ha un familiare odore speziato - misto di fumo e polvere. Gli sguardi bianchissimi nei visi marroni lo scrutano di sfuggita. Campane in lontananza e caldo opprimente. Le donne al lavoro nei campi di tè salutano a ogni piccolo suo accenno, dondolando impercettibilmente la testa più volte.
Nella piccola banca del paese il direttore rutta in sordina. Guardandolo fisso negli occhi dissemina una melassa d’inglese frammista ai rombi dei camion che sfrecciano sulla strada, il ventilatore è immobile per uno dei tanti black out giornalieri, parlano sudando copiosamente e firma moduli su moduli resi umidicci dalle mani fradice. L’omone gli chiede che cosa pensa dell’India, e lui in quel momento tenta solo di raggranellare un po’ d’aria smossa dalla sua mole in agitazione perpetua.
– Mi dispiace ma non ho nulla da offrirle.
Lui condivideva naturalmente la privazione del minimo indispensabile, eppure intorno continuavano a sorridergli e a salutarlo con gioia e curiosità – spettatore disarmato alla rappresentazione del vuoto.
Nel chai-shop è in bella mostra la vasca di plastica per lavare i bicchieri, molti quando entrano tuffano nell’acqua grigia la mano destra che servirà per piegare il chapati a cucchiaio, raccogliendo riso e la salsa di curry dagli opachi piatti d’acciaio.
Alcuni avventori bevono acqua calda, altri tè e latte; a causa di una pessima interpretazione sorbisce tè, latte e acqua in due bicchieri d’acciaio per stemperare la broda con i ripetuti versamenti. L’abitudine di bere acqua calda è millenaria e gli spiegano che in quel modo la temperatura interna allo stomaco si avvicina a quella esterna allontanando lo stimolo della sete e la fatica.
Vicino al sentiero che porta alle colline una famiglia vende polli vivi e bottiglie d’acqua; i figli sdruciti gli si avvicinano salutandolo insistentemente, in risposta timidamente lui si produce per gioco in un inseguimento rallentato a causa del caldo. La donna vende l’acqua minerale Kinley in bottiglia, ennesima proprietà della Coca Cola, e gentilmente gli indica il recipiente di metallo arrugginito per rinfrescarsi. Lui si scaraffa l’acqua addosso stando attento alle labbra perché vede galleggiare insetti tremolanti.
Improvvisa burrasca. Sale su di un risciò diretto a Kalpetta.
Si siede al tavolo di una pasticceria sulla strada, scegliendo a caso tra la varietà di dolci e piccole paste al miele, alla frutta candita, aromatizzate allo zenzero. In basso nella vetrina, modello post-attentato dinamitardo, riposano ammassi gelatinosi marroni e arancioni, dolcissimi blob senza nome.
Lui osserva la strada; l’attenzione si focalizza su di una coppia indiana di modeste condizioni, vestita in modo molto dignitoso, mentre escono da un negozio che vende polveri e radici. L’uomo regge la borsa, una sacca di plastica, vecchio contenitore del riso con due manici di canna. La coppia si allontana. Lui sente improvvisamente il desiderio di famiglia. Vorrebbe essere quell’uomo; accompagnare a casa la donna e scaldare l’acqua per il tè, restare a guardare la pioggia e, sul letto di corde tese, spogliare la compagna che sa di rose e legno di sandalo, per poi baciarla così a lungo da prosciugare pioggia e nuvole, allontanare i rumori della strada e le urla della folla – diluire il mondo esterno con carezze instancabili. Immagina di abbandonare il capo sul suo ventre, cingerle i fianchi come il caldo umido che riveste ogni cosa intorno, e poi restarle vicino immobile a sognare.
Risale su di una corriera traballante, tra corpi e visi e odori estranei, per ritornare nella stanza solitaria, dove l’odore d’umido impera e soffre della sua mancanza. Il cielo è scuro di nuvole gonfie e sudicie di sbavature nere.
Ha bisogno della luce di una candela per continuare a scrivere. I tuoni si avvicinano e aumentano la solitudine di quel momento…e nessuno con cui condividere il bel-brutto tempo. Gli autobus transitano nel buio completo, le fioche luci interne producono ombre cinesi a mezz’aria.
Harrisons & Sons ha superato i confini del Kerala; le piantagioni di tè sono di loro proprietà anche nello stato del Tamil Nadu, dove per la prima volta vede le fabbriche della Nestlè. Le costruzioni, completamente aliene al paesaggio intorno, sono protette da cani, guardie e grossi cartelli di divieto d’accesso. Il confine tra i due stati si materializza all’improvviso subito dopo una curva a gomito, in prossimità del ponte che segna il territorio del Tamil Nadu; le condizioni della strada peggiorano, aumenta la polvere, il diverso taglio dei visi diviene più marcato. I villaggi sono dimessi, demoliti in profondità, e le strade di montagna sopravvivono con difficoltà all’epidemia di voragini. Alcuni alberi al ciglio della strada rappresentano templi adornati con stoffe, ceri, e semplici fili annodati, alla base delle radici rimasugli di incensi bruciati e vicino ombre di uomini – povere sculture di messaggeri divini contornate da mucche scheletriche.
Nel villaggio di Gudalur dalla foresta impenetrabile, alla base del cono della montagna, di notte scendono gli elefanti per saccheggiare gli orti e i frutti dei manghi, e Mercedes è divertita mentre gli racconta le difficoltà ambientali in quel minuscolo agglomerato di case intorno alla missione. Passeggiando all’ombra della foresta gli spiega la storia della cooperativa delle donne ricamatrici che lei segue da molto tempo: - Dopo tre anni di orientamento, se abbiamo fondi a sufficienza acquistiamo una macchina per cucire da destinare ad ogni ragazza che ha seguito il corso. Le donne ritornano nei loro villaggi di provenienza e possono iniziare, in piena autonomia, il lavoro di sartoria che in India ha un’antica tradizione.
Dall’alto della collina getta lo sguardo sulla vallata; si sentiva nel foro prodotto da un aculeo sopra la pelle di un elefante enorme - e di quella cavità infinitesimale la milionesima parte. Pelle – ossa – aria – carne e fumo di tabacco olandese, tutto con lui, dentro quel piccolissimo alveolo.
L’autobus frena improvvisamente; finalmente un mezzo diretto nello stato del Karnataka. Non pronuncia correttamente Mysore e deve ripetere più volte la sua destinazione al bigliettaio spicciativo. La discesa dall’altopiano conduce velocemente alla zona desertica dei territori del nord.
Il confine con il Kerala è tracciato nella piana assolata poi la strada abbandona la polvere e il caldo intenso, si inoltra nelle foreste e individuare animali mimetizzati diviene il gioco preferito dagli indiani: - Sahib lo vedi quel bufalo - questo è niente, dopo i monsoni la foresta diventa impenetrabile e all’interno si nascondono elefanti, tigri e leopardi. Lui guarda fuori, sorridendo al vicino naturalista, con gli occhi socchiusi per mettere a fuoco e nello stesso tempo per ripararsi dalle raffiche di sabbia, alzata dalle corriere che procedono in senso contrario. La regione del Deccan è in attesa dei monsoni, solo allora i canali di irrigazione e i grandi invasi si riempiranno d’acqua alimentando risaie e piantagioni; per ora sono solamente trincee e crateri vuoti.
Si siede al tavolo di una pasticceria sulla strada, scegliendo a caso tra la varietà di dolci e piccole paste al miele, alla frutta candita, aromatizzate allo zenzero. In basso nella vetrina, modello post-attentato dinamitardo, riposano ammassi gelatinosi marroni e arancioni, dolcissimi blob senza nome.
Lui osserva la strada; l’attenzione si focalizza su di una coppia indiana di modeste condizioni, vestita in modo molto dignitoso, mentre escono da un negozio che vende polveri e radici. L’uomo regge la borsa, una sacca di plastica, vecchio contenitore del riso con due manici di canna. La coppia si allontana. Lui sente improvvisamente il desiderio di famiglia. Vorrebbe essere quell’uomo; accompagnare a casa la donna e scaldare l’acqua per il tè, restare a guardare la pioggia e, sul letto di corde tese, spogliare la compagna che sa di rose e legno di sandalo, per poi baciarla così a lungo da prosciugare pioggia e nuvole, allontanare i rumori della strada e le urla della folla – diluire il mondo esterno con carezze instancabili. Immagina di abbandonare il capo sul suo ventre, cingerle i fianchi come il caldo umido che riveste ogni cosa intorno, e poi restarle vicino immobile a sognare.
Risale su di una corriera traballante, tra corpi e visi e odori estranei, per ritornare nella stanza solitaria, dove l’odore d’umido impera e soffre della sua mancanza. Il cielo è scuro di nuvole gonfie e sudicie di sbavature nere.
Ha bisogno della luce di una candela per continuare a scrivere. I tuoni si avvicinano e aumentano la solitudine di quel momento…e nessuno con cui condividere il bel-brutto tempo. Gli autobus transitano nel buio completo, le fioche luci interne producono ombre cinesi a mezz’aria.
Harrisons & Sons ha superato i confini del Kerala; le piantagioni di tè sono di loro proprietà anche nello stato del Tamil Nadu, dove per la prima volta vede le fabbriche della Nestlè. Le costruzioni, completamente aliene al paesaggio intorno, sono protette da cani, guardie e grossi cartelli di divieto d’accesso. Il confine tra i due stati si materializza all’improvviso subito dopo una curva a gomito, in prossimità del ponte che segna il territorio del Tamil Nadu; le condizioni della strada peggiorano, aumenta la polvere, il diverso taglio dei visi diviene più marcato. I villaggi sono dimessi, demoliti in profondità, e le strade di montagna sopravvivono con difficoltà all’epidemia di voragini. Alcuni alberi al ciglio della strada rappresentano templi adornati con stoffe, ceri, e semplici fili annodati, alla base delle radici rimasugli di incensi bruciati e vicino ombre di uomini – povere sculture di messaggeri divini contornate da mucche scheletriche.
Nel villaggio di Gudalur dalla foresta impenetrabile, alla base del cono della montagna, di notte scendono gli elefanti per saccheggiare gli orti e i frutti dei manghi, e Mercedes è divertita mentre gli racconta le difficoltà ambientali in quel minuscolo agglomerato di case intorno alla missione. Passeggiando all’ombra della foresta gli spiega la storia della cooperativa delle donne ricamatrici che lei segue da molto tempo: - Dopo tre anni di orientamento, se abbiamo fondi a sufficienza acquistiamo una macchina per cucire da destinare ad ogni ragazza che ha seguito il corso. Le donne ritornano nei loro villaggi di provenienza e possono iniziare, in piena autonomia, il lavoro di sartoria che in India ha un’antica tradizione.
Dall’alto della collina getta lo sguardo sulla vallata; si sentiva nel foro prodotto da un aculeo sopra la pelle di un elefante enorme - e di quella cavità infinitesimale la milionesima parte. Pelle – ossa – aria – carne e fumo di tabacco olandese, tutto con lui, dentro quel piccolissimo alveolo.
L’autobus frena improvvisamente; finalmente un mezzo diretto nello stato del Karnataka. Non pronuncia correttamente Mysore e deve ripetere più volte la sua destinazione al bigliettaio spicciativo. La discesa dall’altopiano conduce velocemente alla zona desertica dei territori del nord.
Il confine con il Kerala è tracciato nella piana assolata poi la strada abbandona la polvere e il caldo intenso, si inoltra nelle foreste e individuare animali mimetizzati diviene il gioco preferito dagli indiani: - Sahib lo vedi quel bufalo - questo è niente, dopo i monsoni la foresta diventa impenetrabile e all’interno si nascondono elefanti, tigri e leopardi. Lui guarda fuori, sorridendo al vicino naturalista, con gli occhi socchiusi per mettere a fuoco e nello stesso tempo per ripararsi dalle raffiche di sabbia, alzata dalle corriere che procedono in senso contrario. La regione del Deccan è in attesa dei monsoni, solo allora i canali di irrigazione e i grandi invasi si riempiranno d’acqua alimentando risaie e piantagioni; per ora sono solamente trincee e crateri vuoti.
Le statue equestri sono svenute in piedi sotto il sole dominatore e il busto di Ghandi, nella rotonda della piazza, è ostaggio del traffico. In un cartello è dipinto a grandi lettere “Shilpashiri”, e una freccia indica il secondo piano di un casermone demolito. Entra nella grande sala fresca del ristorante al secondo piano, eletto rifugio momentaneo al caos e al caldo esterno avvolgente e opprimente come un vestito troppo stretto, garrottato dalla cravatta dell’afa. I ventilatori al massimo dei giri frantumano l’aria irrespirabile e decine di aiutanti e camerieri sono addetti a non si sa bene che cosa.
Nel tavolo lo attende una birra con il suo bel vestitino di carta che la nasconde al pubblico di fantasmi integralisti intorno. L’apparizione ghiacciata lievita sulla tovaglia a quadretti bianchi e verdi che segnano meridiani e paralleli sulla carta geografica di macchie d’unto; isole di curry e continenti di salse piccanti popolati da mosche smaniose. In quella mappa, con la vista esplosa della terra, si innalza il bicchiere invitante.
Era giunto da poco tempo, scaricato dall’autobus ripieno di vita bipede e altre nature striscianti, ronzanti, e corvi che entravano e uscivano liberamente dai finestrini.
La torre dell’orologio gli ha indicato l’oasi di pace da assaporare per pochi minuti. Il sottofondo dei motori sofferenti di camion e autobus, che continuano a comporre una cantilena ammaliante quanto le sirene di Ulisse, lo istigano a rigettarsi nel calderone.
La stazione del treno è molto vicina, i sibili delle frenate spezzano il sonno e lo invogliano ad alzarsi e con passo sonnambulo avvicinare i binari per salire sul primo treno che passa, e in quel treno incontrare centinaia di “lui”, migliaia di “lei”.
Nel tavolo lo attende una birra con il suo bel vestitino di carta che la nasconde al pubblico di fantasmi integralisti intorno. L’apparizione ghiacciata lievita sulla tovaglia a quadretti bianchi e verdi che segnano meridiani e paralleli sulla carta geografica di macchie d’unto; isole di curry e continenti di salse piccanti popolati da mosche smaniose. In quella mappa, con la vista esplosa della terra, si innalza il bicchiere invitante.
Era giunto da poco tempo, scaricato dall’autobus ripieno di vita bipede e altre nature striscianti, ronzanti, e corvi che entravano e uscivano liberamente dai finestrini.
La torre dell’orologio gli ha indicato l’oasi di pace da assaporare per pochi minuti. Il sottofondo dei motori sofferenti di camion e autobus, che continuano a comporre una cantilena ammaliante quanto le sirene di Ulisse, lo istigano a rigettarsi nel calderone.
La stazione del treno è molto vicina, i sibili delle frenate spezzano il sonno e lo invogliano ad alzarsi e con passo sonnambulo avvicinare i binari per salire sul primo treno che passa, e in quel treno incontrare centinaia di “lui”, migliaia di “lei”.
Dieci tavoli enormi; è li che lo ha spinto il caldo. Ma chissà perché di fronte a Shary nel suo sari migliore. L’abito della ragazza è verde, ricamato di fiori neri minuscoli intorno al collo sottile e ai polsi, sulle spalle una stola di seta bianca indossata più per vezzo che per necessità. I suoi occhi sono profondi e il segno della benedizione sulla fronte è fresco di giornata, un’idea di kayal rimarca la profondità dello sguardo e inabissa le pupille ancora di più nel nero della pelle. Il sorriso è stupefacente e quando gli chiede l’ora, l’inglese non è mai stato un suono tanto dolce e armonico.
La musica fuoriesce da un cassone di legno e tenta di modernizzare melodie tradizionali. Lui ordina chichen raja kebab e una birra Kingfisher strong. Lei gli chiede da dove viene. L’uomo risponde affascinato dal tono della sua voce e lei continua l’approccio con una serie di domande banali e naturali al contempo, e motivazioni smozzicate: - Aspetto mio cugino - Una certa festa da amici – Un’amica ha partorito da poco - Vivo a Bangalore e domani mattina riparto.
Non abbassa mai lo sguardo. Lui deglutisce bocconi piccanti che sanno di curry e del suo profumo. La luce va via. Il cameriere porta le candele e accende la sua, quindi quella del tavolo di fronte…vuoto.
Un’ombra si discosta e avverte il peso di una mano sulla spalla, poi nient’altro che il fruscio che si allontana - non trattenuto. Il cameriere, poco lontano, sputa nel lavandino della sala i gusci di cardamomo.
La musica fuoriesce da un cassone di legno e tenta di modernizzare melodie tradizionali. Lui ordina chichen raja kebab e una birra Kingfisher strong. Lei gli chiede da dove viene. L’uomo risponde affascinato dal tono della sua voce e lei continua l’approccio con una serie di domande banali e naturali al contempo, e motivazioni smozzicate: - Aspetto mio cugino - Una certa festa da amici – Un’amica ha partorito da poco - Vivo a Bangalore e domani mattina riparto.
Non abbassa mai lo sguardo. Lui deglutisce bocconi piccanti che sanno di curry e del suo profumo. La luce va via. Il cameriere porta le candele e accende la sua, quindi quella del tavolo di fronte…vuoto.
Un’ombra si discosta e avverte il peso di una mano sulla spalla, poi nient’altro che il fruscio che si allontana - non trattenuto. Il cameriere, poco lontano, sputa nel lavandino della sala i gusci di cardamomo.
L’autobus lo scarica a Srirangapatnam appena fuori dalla porta principale dell’antica città. Vicino al tempio induista spiccano i minareti della Jama Masjid. I bambini dentro la scuola coranica gli chiedono le penne, ma sono in troppi e non potrebbe esaudire tutte le richieste, scatenerebbe risse furibonde accontentando solo qualcuno di loro.
L’uomo abbozza sorrisi e deboli rimproveri per chi più energico vuole allontanare i piccoli e continuare nel sutra di “one pen – one pen – one pen”. Dentro le stanze con le inferiate i ragazzi più grandi leggono i passi del Corano a voce alta, con una serietà marziale, poi all’esterno ritornano bimbi in vena di corse e sgambetti.
Sulla strada il flusso della folla sembra una manifestazione improvvisata e gli incitamenti degli autisti slogan politici di rivolta.
Nuvole nere in lontananza e tuoni con il cielo sereno. Villaggi e piccole cittadine, evaporate nel caldo, sono ombre vacillanti costruite di polvere addossata alle ombre. Imbonitori nella via dell’argento, delle spezie, nel rione dei falegnami, dei lattonieri. Nelle strade di campagna, in mezzo alla carreggiata, depongono riso e grano coperto da foglie di palma. I carri e le auto transitando dividono grano e pula, chicchi e steli d’erba.
Nel caldo che non lascia tregua, come un Boddhisatva, cerca illuminazioni. Si siede a tavola in compagnia di una famiglia indiana: riso, dhal e chapati come cucchiaio. Tra una frase e l’altra osserva dalla finestra uomini e donne che nel cortile rastrellano cumuli di spazzatura, intenti a cercare ogni cosa riutilizzabile.
I corvi impazziscono nella luce del tramonto indiano, hanno percepito chiaramente che tra poco dovranno lasciare il campo ai fruscii della notte. Nel tempio le stanze-caverne odorano di caglio e cenere, fumo di candele e incenso. Lui cammina scalzo sulle pietre levigate del pavimento senza riuscire a vedere dove appoggia i piedi; i pellegrini escono dalla stanza che racchiude l’effigie della dea protettrice. Per tre volte girano su se stessi, congiungono le mani al petto in un inchino che scopre i fianchi adiposi delle donne e le gambe glabre e secche degli uomini.
L’india Express riporta notizie delle manifestazioni in Francia contro Le Pen e approfondendo la situazione politica europea rimarca l’indirizzo di destra che hanno assunto i governi.
Non sapeva più che cosa stava succedendo in Palestina, e non aveva notizie della situazione in Afganistan. Le prime pagine dei giornali seguivano attentamente gli scontri nello Jammu, la guerriglia con il Pakistan e le questioni sociali in Rajastan.
L’uomo abbozza sorrisi e deboli rimproveri per chi più energico vuole allontanare i piccoli e continuare nel sutra di “one pen – one pen – one pen”. Dentro le stanze con le inferiate i ragazzi più grandi leggono i passi del Corano a voce alta, con una serietà marziale, poi all’esterno ritornano bimbi in vena di corse e sgambetti.
Sulla strada il flusso della folla sembra una manifestazione improvvisata e gli incitamenti degli autisti slogan politici di rivolta.
Nuvole nere in lontananza e tuoni con il cielo sereno. Villaggi e piccole cittadine, evaporate nel caldo, sono ombre vacillanti costruite di polvere addossata alle ombre. Imbonitori nella via dell’argento, delle spezie, nel rione dei falegnami, dei lattonieri. Nelle strade di campagna, in mezzo alla carreggiata, depongono riso e grano coperto da foglie di palma. I carri e le auto transitando dividono grano e pula, chicchi e steli d’erba.
Nel caldo che non lascia tregua, come un Boddhisatva, cerca illuminazioni. Si siede a tavola in compagnia di una famiglia indiana: riso, dhal e chapati come cucchiaio. Tra una frase e l’altra osserva dalla finestra uomini e donne che nel cortile rastrellano cumuli di spazzatura, intenti a cercare ogni cosa riutilizzabile.
I corvi impazziscono nella luce del tramonto indiano, hanno percepito chiaramente che tra poco dovranno lasciare il campo ai fruscii della notte. Nel tempio le stanze-caverne odorano di caglio e cenere, fumo di candele e incenso. Lui cammina scalzo sulle pietre levigate del pavimento senza riuscire a vedere dove appoggia i piedi; i pellegrini escono dalla stanza che racchiude l’effigie della dea protettrice. Per tre volte girano su se stessi, congiungono le mani al petto in un inchino che scopre i fianchi adiposi delle donne e le gambe glabre e secche degli uomini.
L’india Express riporta notizie delle manifestazioni in Francia contro Le Pen e approfondendo la situazione politica europea rimarca l’indirizzo di destra che hanno assunto i governi.
Non sapeva più che cosa stava succedendo in Palestina, e non aveva notizie della situazione in Afganistan. Le prime pagine dei giornali seguivano attentamente gli scontri nello Jammu, la guerriglia con il Pakistan e le questioni sociali in Rajastan.
In preda a fantasie arboree, che escono dalle finestre scardinate, l’hotel Metropole oramai decaduto definitivamente è immerso nella selvatica macchia tropicale. Il direttore serra le porte dei saloni, attraversa la hall deserta, esce per un ultima occhiata e si siede a terra nel colonnato esterno prospiciente il giardino che inizia a indicare il carattere anarchico della boscaglia lasciata libera di crescere. Licenzia tutti i lavoranti e rimane da solo ancora per un po’; si reca nella suite, resuscita ricordi di regine e principi ereditari, nobili inglesi e nipoti di maharaja. Rilegge il grande libro degli ospiti dell’albergo, rivive le feste, i ricevimenti, rivede i personaggi famosi e dà i bocconi avvelenati ai cani da guardia. Ed è proprio in quel momento, mentre i cani sbavano a terra, che sente dentro di se la pesante sensazione della fine. Con il dito mignolo si gratta la nuca, si tocca i baffi arricciandoli. Ha l’andatura lenta, la schiena è china oppressa dagli anni e dalla tristezza. I tassisti sono stati licenziati e non stazionano più sfaccendati sulla strada, appoggiati mollemente alla carrozzeria delle auto a bearsi delle nuove divise con il simbolo in oro dell’albergo. L’insegna è spenta - raggelata – inutile. La cucina non effonde più profumi di curry e fish masala, dragoncello e pepe. Il mausoleo crolla, lo sfarzo diviene gracchiare di rane e lentamente le famiglie di scimmie sono libere di invadere spazi vietati a loro per anni, e inizieranno una nuova evoluzione tra i candelabri e gli specchi, moltiplicate migliaia di volte nel gioco dei riflessi.
Non sono state sufficienti le benedizioni, le offerte, gli arabeschi tracciati con il gesso vicino all’ingresso a garantire la fortuna e impedire l’annullamento. L’uomo osserva tristemente gli arredi impacchettati, i mobili trasportati via per il primo rigattiere all’angolo che li venderà per poche rupie; sono scomparse le porte dai cardini, la rubinetteria è stata fusa per ricavare argento, sedie e sofà rivestiti con i tessuti preziosi del Kashmir sono stati rubati durante la notte, e i tavoli di legno di sandalo hanno perduto il loro profumo per sempre. Il sogno è finito.
Quel pianeta che ruotava al di fuori del tempo reale ha compiuto l’ultima rivoluzione su se stesso immobilizzandosi. Il popolo che transita attorno se ne accorgerà solo tra un po’ di tempo; probabilmente qualche disgraziato sentirà la mancanza delle musiche notturne e di quel poco di cibo offerto, tra le sbarre della recinzione, dai giardinieri gentili. Non rimane neppure l’eco dei quartetti d’archi, delle sonatine, il mi la re sol dei violini, il basso sostenuto dei pianoforti e le melodie di sitar. Non più i fruscii dei sari raffinati, ma solo sgocciolii nelle stanze vuote.
Lei gli chiede: - Come stai…?
Mi sento come un grande albergo che chiude i battenti – lui risponde.
Non sono state sufficienti le benedizioni, le offerte, gli arabeschi tracciati con il gesso vicino all’ingresso a garantire la fortuna e impedire l’annullamento. L’uomo osserva tristemente gli arredi impacchettati, i mobili trasportati via per il primo rigattiere all’angolo che li venderà per poche rupie; sono scomparse le porte dai cardini, la rubinetteria è stata fusa per ricavare argento, sedie e sofà rivestiti con i tessuti preziosi del Kashmir sono stati rubati durante la notte, e i tavoli di legno di sandalo hanno perduto il loro profumo per sempre. Il sogno è finito.
Quel pianeta che ruotava al di fuori del tempo reale ha compiuto l’ultima rivoluzione su se stesso immobilizzandosi. Il popolo che transita attorno se ne accorgerà solo tra un po’ di tempo; probabilmente qualche disgraziato sentirà la mancanza delle musiche notturne e di quel poco di cibo offerto, tra le sbarre della recinzione, dai giardinieri gentili. Non rimane neppure l’eco dei quartetti d’archi, delle sonatine, il mi la re sol dei violini, il basso sostenuto dei pianoforti e le melodie di sitar. Non più i fruscii dei sari raffinati, ma solo sgocciolii nelle stanze vuote.
Lei gli chiede: - Come stai…?
Mi sento come un grande albergo che chiude i battenti – lui risponde.
La lunga scalinata di mille gradini sale le colline e raggiunge il tempio dedicato alla dea Chamundi. Il tempio ha un gopuram abbagliante, la struttura piramidale a più piani è alta quaranta metri e interamente scolpita con raffigurazioni religiose. La dea Chamundi ha sconfitto il demone Mahishaura; una sorta di San Giorgio e il drago.
I quattro chilometri di scalini, striati di giallo e rosso, segnano perfettamente il percorso e nell’ombra stazionano timide coppie di fidanzati mentre i pellegrini procedono scandendo preghiere in sottovoce. A metà percorso l’uomo incontra il piazzale dedicato a Nandi, il toro di Shiva, scolpito in un’enorme pietra di granito. Coppie, gruppi, famiglie.
Il tempio è un bagno di folla; le bancarelle vendono ghirlande di fiori e gusci delle noci di cocco con composizioni floreali - omaggi al tempio e cibi alla dea.
Al ritorno incontra Mohammed che lo riaccompagna in città con uno scooter scassato ma capace di guizzare veloce tra il traffico. Giunto in città affida la sua vita a un anziano autista di risciò, per giungere al centro. L’uomo rinsecchito indossa la camicia strappata e sporca, e gli chiede dieci rupie con aria furbetta, ma in realtà gli autisti più giovani minimo ne pretendono venti. Traballando si gettano nel traffico tra i carri trainati dai bufali, corriere, camion, e altri risciò che olezzano l’aria rendendola solida e irrespirabile. Il chiasso è assordante e i vigili colpiscono con un bastone la carrozzeria dei mezzi, per convogliarli come mandrie di animali in un flusso meno caotico, percuotono il carapace degli insetti a tre ruote gialli e neri, fastidiosi e indispensabili. Il giocattolo a motore scatta in avanti, si incunea tra due camion giganteschi: uno trasporta cemento e l’altro sampietrini martellati al ciglio delle strade da donne e uomini fantasma.
Con un abracadabra si mette in opera il mercato indiano; la terra è ricoperta di frutta, cumuli di scarpe da cucire prima di sera, perfette piramidi di manghi impilati nella polvere della strada, fili, stoffe, incantatori. I veggenti gettano sulla strada le conchiglie, deducono spiegazioni dalla posizione dei gusci quindi toccano la fronte, il plesso solare e pregano. L’ombra di una mucca si delinea sulle mani giunte e distoglie dal responso, le speranze e le paure sono ninnate dai clacson.
Gli storpi diventano un tappeto questuante, inviati del sottosuolo che rompono l’equilibrio delle perfette pile dei bracciali di plastica e si immettono nel suo ascolto, interrompendo per un attimo gli esasperati sentimenti risolvibili. Monchi, sciancati, e mucchi di petali irrorati di continuo da donne che sanno di avere la magia del “rinvenire”.
Genuflessioni, rapimenti, bramini serissimi e impronte digitali sulla fronte degli impiegati che risalgono in moto e velocemente ritornano in città nei loro uffici posticci.
I quattro chilometri di scalini, striati di giallo e rosso, segnano perfettamente il percorso e nell’ombra stazionano timide coppie di fidanzati mentre i pellegrini procedono scandendo preghiere in sottovoce. A metà percorso l’uomo incontra il piazzale dedicato a Nandi, il toro di Shiva, scolpito in un’enorme pietra di granito. Coppie, gruppi, famiglie.
Il tempio è un bagno di folla; le bancarelle vendono ghirlande di fiori e gusci delle noci di cocco con composizioni floreali - omaggi al tempio e cibi alla dea.
Al ritorno incontra Mohammed che lo riaccompagna in città con uno scooter scassato ma capace di guizzare veloce tra il traffico. Giunto in città affida la sua vita a un anziano autista di risciò, per giungere al centro. L’uomo rinsecchito indossa la camicia strappata e sporca, e gli chiede dieci rupie con aria furbetta, ma in realtà gli autisti più giovani minimo ne pretendono venti. Traballando si gettano nel traffico tra i carri trainati dai bufali, corriere, camion, e altri risciò che olezzano l’aria rendendola solida e irrespirabile. Il chiasso è assordante e i vigili colpiscono con un bastone la carrozzeria dei mezzi, per convogliarli come mandrie di animali in un flusso meno caotico, percuotono il carapace degli insetti a tre ruote gialli e neri, fastidiosi e indispensabili. Il giocattolo a motore scatta in avanti, si incunea tra due camion giganteschi: uno trasporta cemento e l’altro sampietrini martellati al ciglio delle strade da donne e uomini fantasma.
Con un abracadabra si mette in opera il mercato indiano; la terra è ricoperta di frutta, cumuli di scarpe da cucire prima di sera, perfette piramidi di manghi impilati nella polvere della strada, fili, stoffe, incantatori. I veggenti gettano sulla strada le conchiglie, deducono spiegazioni dalla posizione dei gusci quindi toccano la fronte, il plesso solare e pregano. L’ombra di una mucca si delinea sulle mani giunte e distoglie dal responso, le speranze e le paure sono ninnate dai clacson.
Gli storpi diventano un tappeto questuante, inviati del sottosuolo che rompono l’equilibrio delle perfette pile dei bracciali di plastica e si immettono nel suo ascolto, interrompendo per un attimo gli esasperati sentimenti risolvibili. Monchi, sciancati, e mucchi di petali irrorati di continuo da donne che sanno di avere la magia del “rinvenire”.
Genuflessioni, rapimenti, bramini serissimi e impronte digitali sulla fronte degli impiegati che risalgono in moto e velocemente ritornano in città nei loro uffici posticci.
Vicino all’incrocio trafficato una ragazza fa degustare il caffè per promuovere un distributore automatico di Nescaffè. Stracci e ciabatte si fermano a sorbire quel liquido estraneo che per magia esce dal marchingegno colorato - cavallo di Troia delle multinazionali.
L’albero del pane non ha più frutti. I gigli, le calle, i fiori di vetro, si struggono sotto il sole che sconquasserebbe gli eroici cactus sudamericani. Tra le colline coltivate a caffè, i tronchi di alberi superstiti hanno il pepe rampicante che li avvolge completamente. Le colline del tè appaiono scolpite su di un’anima verde cangiante. Non sbocciano in lui fiori profumati, né ranuncoli, e neppure margherite di campo; è possibile che la linfa si sia congelata irrimediabilmente e che solidificandosi abbia fratturato le condotte linfatiche.
“Assicurati con noi” – dice l’enorme cartello dai colori squillanti, e al di sotto dell’uomo in cravatta cumuli di sporcizia e carretti di banane ricoperte da uno strato di polvere. “La Nostra Assicurazione è il massimo che puoi trovare” – continua l’imbonitore in tecnicolor, mentre gli stradini scaracchiano polvere e fumo del bitume caldo spalmato sulla strada.
La grazia è trasmessa in modo naturale dalle possibili schiave ribelli; le donne si pettinano aiutate dalla brezza che scende dal monte e mantiene dietro alla nuca i lunghi capelli sottili. Alcune sfoggiano collane e bracciali, segno che potranno sposarsi presto e offrire una dote; l’oro è il corredo obbligatorio - oblazione sicura per trovare marito. Un sari di seta e preziosi per un futuro interpretato in anticipo da quel faccione con i baffi, l’attore sempre presente nei cartelloni delle pubblicità dei film. E nel sogno di una commedia-musicale privata, le giovani donne, lucidano gli orecchini e i pin al naso, intrecciano i capelli, spolverano il sari, poi un tocco di kayal e una collana di fiori di gelsomino. Sotto il sole, il loro sudore si tramuta in miele di vergine predestinata.
L’albero del pane non ha più frutti. I gigli, le calle, i fiori di vetro, si struggono sotto il sole che sconquasserebbe gli eroici cactus sudamericani. Tra le colline coltivate a caffè, i tronchi di alberi superstiti hanno il pepe rampicante che li avvolge completamente. Le colline del tè appaiono scolpite su di un’anima verde cangiante. Non sbocciano in lui fiori profumati, né ranuncoli, e neppure margherite di campo; è possibile che la linfa si sia congelata irrimediabilmente e che solidificandosi abbia fratturato le condotte linfatiche.
“Assicurati con noi” – dice l’enorme cartello dai colori squillanti, e al di sotto dell’uomo in cravatta cumuli di sporcizia e carretti di banane ricoperte da uno strato di polvere. “La Nostra Assicurazione è il massimo che puoi trovare” – continua l’imbonitore in tecnicolor, mentre gli stradini scaracchiano polvere e fumo del bitume caldo spalmato sulla strada.
La grazia è trasmessa in modo naturale dalle possibili schiave ribelli; le donne si pettinano aiutate dalla brezza che scende dal monte e mantiene dietro alla nuca i lunghi capelli sottili. Alcune sfoggiano collane e bracciali, segno che potranno sposarsi presto e offrire una dote; l’oro è il corredo obbligatorio - oblazione sicura per trovare marito. Un sari di seta e preziosi per un futuro interpretato in anticipo da quel faccione con i baffi, l’attore sempre presente nei cartelloni delle pubblicità dei film. E nel sogno di una commedia-musicale privata, le giovani donne, lucidano gli orecchini e i pin al naso, intrecciano i capelli, spolverano il sari, poi un tocco di kayal e una collana di fiori di gelsomino. Sotto il sole, il loro sudore si tramuta in miele di vergine predestinata.
Villaggi, case isolate, capanne di legno e paglia, catapecchie, tende di plastica. Le mandrie di pecore attraversano le strade di Hassan. Mucche stranite dal caldo e gente, popolo, massa – singole ombre umane solitarie.
Fuori città il panorama diviene arido, solo scheletri di alberi e terra, colline di pietre e i letti dei fiumi in secca attendono i monsoni, il vigore, la rinascita. La vita ritrovata sarà acqua che allaga, alimenta, demolisce. La pioggia sui templi farà traboccare le piscine sacre, laverà le mandrie di bufali rendendoli lucide silhouette tirate a cera contro il verde brillante delle risaie. La pioggia renderà gravide le donne e seminerà uomini sul manto del destino distratto. La crosta della terra accoglie e sevizia, mette alla prova la resistenza umana per poi trattenere le ossa – e manterrà i segni del passaggio per quanto sarà possibile. Facili latitudini - semplici longitudini…il resto è fatica. Emisferi di dannazione e modeste felicità: un semplice piatto di riso, intrecci di canne di fiume e fiori annodati.
L’uomo arriva all’ora della benedizione; i monaci, vestiti con il dhoti bianco e una stola arancione di traverso al torace, trasportano ciotole di riso alle statue e gli enormi corvi reali li seguono per rapinare il cibo.
Il caldo è pesante e lui sosta all’ingresso del sito, all’ombra dell’alto gopuram, drogato dall’aria soffocante.
Lui ritorna per strada scansando il fango e le mucche, i cumuli di fiori vicino alle immagini sacre e i misteriosi ammassi formicolanti di insetti. Al tramonto, con il cielo striato di nuvole lanceolate, gli stormi dei pappagalli si riappropriano delle chiome degli alberi per trascorrere la notte.
La donna entra dalla porta. Scende le scale alzando il sari azzurro per non inciampare, le cavigliere lucide tintinnano ai suoi piedi e riducono al silenzio tutti gli altri suoni intorno. Il passo è frusciante; incede leggera, sollevata dal suolo, e i capelli assorbono le note del raga, le stoviglie diventano inutili fronzoli acciaiosi inventati solamente per racchiudere i riflessi delle lampade. La sala, solo un attimo prima caotica e brindante, ora è muta corsia d’ospedale – veglia funebre. Lei è angelo e giustiziere, padrona del suono, zittisce le zanzare pettegole in vena di racconti pepati sul suo piede martoriato. Regina – semplice madre – donna prototipo nel complicato essere femmina. Alza lo scialle di seta azzurro scuro e le braccia, velluto nero, si materializzano con tutta la capacità di stringere, afferrare, abbracciare. Assomiglia alle sculture femminee di Belur. Dolore, piacere, e il cameriere porta piccanti lenticchie per invogliarlo a un’altra birra fresca. Di fronte alla dea non servono sotterfugi e neppure giochi puerili di cuochi alle prime armi. Lui tenterebbe la vicinanza anche se fosse agonizzante, evirato, impotente, anche solo per un attimo di complice silenzio. Leggiadra, e insieme arrogante donna di Madras. La schiena nuda, al di sotto del corpetto, si infrange in pieghe che profumano di acqua di rose, di polvere della pianura e di similpelle surriscaldata dei sedili degli autobus moribondi sotto il sole.
La piana riarsa si evolve in foresta, i sogni pietrificati gemmano, l’acqua scorre e la vita magicamente ritorna. Due camion sono completamente distrutti in uno scontro frontale, più avanti un autobus è finito fuori strada. Gli autisti si sentono dio in terra; più è grande il mezzo che guidano più dio è potente. Sale una famiglia ridanciana: piedi nudi e scorticati, calcagni tatuati da vecchi tagli. L’uomo indossa una camicia logora e un sorriso splendido. Le donne vestite a festa hanno orecchini d’oro e decine di braccialetti. L’autobus mugghia e trascina via, accordando un’accelerata senza fine alla confusione dei clacson intorno, a rotta di collo su di una strada in discesa non più larga di tre metri.
Fuori città il panorama diviene arido, solo scheletri di alberi e terra, colline di pietre e i letti dei fiumi in secca attendono i monsoni, il vigore, la rinascita. La vita ritrovata sarà acqua che allaga, alimenta, demolisce. La pioggia sui templi farà traboccare le piscine sacre, laverà le mandrie di bufali rendendoli lucide silhouette tirate a cera contro il verde brillante delle risaie. La pioggia renderà gravide le donne e seminerà uomini sul manto del destino distratto. La crosta della terra accoglie e sevizia, mette alla prova la resistenza umana per poi trattenere le ossa – e manterrà i segni del passaggio per quanto sarà possibile. Facili latitudini - semplici longitudini…il resto è fatica. Emisferi di dannazione e modeste felicità: un semplice piatto di riso, intrecci di canne di fiume e fiori annodati.
L’uomo arriva all’ora della benedizione; i monaci, vestiti con il dhoti bianco e una stola arancione di traverso al torace, trasportano ciotole di riso alle statue e gli enormi corvi reali li seguono per rapinare il cibo.
Il caldo è pesante e lui sosta all’ingresso del sito, all’ombra dell’alto gopuram, drogato dall’aria soffocante.
Lui ritorna per strada scansando il fango e le mucche, i cumuli di fiori vicino alle immagini sacre e i misteriosi ammassi formicolanti di insetti. Al tramonto, con il cielo striato di nuvole lanceolate, gli stormi dei pappagalli si riappropriano delle chiome degli alberi per trascorrere la notte.
La donna entra dalla porta. Scende le scale alzando il sari azzurro per non inciampare, le cavigliere lucide tintinnano ai suoi piedi e riducono al silenzio tutti gli altri suoni intorno. Il passo è frusciante; incede leggera, sollevata dal suolo, e i capelli assorbono le note del raga, le stoviglie diventano inutili fronzoli acciaiosi inventati solamente per racchiudere i riflessi delle lampade. La sala, solo un attimo prima caotica e brindante, ora è muta corsia d’ospedale – veglia funebre. Lei è angelo e giustiziere, padrona del suono, zittisce le zanzare pettegole in vena di racconti pepati sul suo piede martoriato. Regina – semplice madre – donna prototipo nel complicato essere femmina. Alza lo scialle di seta azzurro scuro e le braccia, velluto nero, si materializzano con tutta la capacità di stringere, afferrare, abbracciare. Assomiglia alle sculture femminee di Belur. Dolore, piacere, e il cameriere porta piccanti lenticchie per invogliarlo a un’altra birra fresca. Di fronte alla dea non servono sotterfugi e neppure giochi puerili di cuochi alle prime armi. Lui tenterebbe la vicinanza anche se fosse agonizzante, evirato, impotente, anche solo per un attimo di complice silenzio. Leggiadra, e insieme arrogante donna di Madras. La schiena nuda, al di sotto del corpetto, si infrange in pieghe che profumano di acqua di rose, di polvere della pianura e di similpelle surriscaldata dei sedili degli autobus moribondi sotto il sole.
La piana riarsa si evolve in foresta, i sogni pietrificati gemmano, l’acqua scorre e la vita magicamente ritorna. Due camion sono completamente distrutti in uno scontro frontale, più avanti un autobus è finito fuori strada. Gli autisti si sentono dio in terra; più è grande il mezzo che guidano più dio è potente. Sale una famiglia ridanciana: piedi nudi e scorticati, calcagni tatuati da vecchi tagli. L’uomo indossa una camicia logora e un sorriso splendido. Le donne vestite a festa hanno orecchini d’oro e decine di braccialetti. L’autobus mugghia e trascina via, accordando un’accelerata senza fine alla confusione dei clacson intorno, a rotta di collo su di una strada in discesa non più larga di tre metri.
Rumori di gocce, biglie liquide sulla sua schiena e gli insetti lo mordono nel fresco della sera alla ricerca del sangue caldo. Nel frattempo oltrepassa Vayitthiri - Calicut – Ernakulam – Fort Cochin… un’intera giornata di viaggio: soste in un caldo infernale, pigiato, sudato. L’autista di risciò di Ernakulam è un pazzo, rallenta nei rettilinei e accelera nell’ingorgo del traffico e nelle curve, ha i lobi del cervello scambiati di posto. Gli offre dei bocconcini dolci, un impasto gommoso ultra-transgenico, che ha comprato al volo in un casottino. Sono le quattro del pomeriggio e il suo stomaco, vuoto dalla sera prima, si lamenta rumorosamente.
Arriva nella Tourist Home di Fort Cochin; gli apre un ragazzo e con il passo fiacco lo accompagna a vedere la stanza: un letto con il lenzuolo strappato e macchiato, per terra cartacce e cicche di sigarette, a destra il bagno minuscolo è un antro di puro terrore, la tazza del gabinetto rotta e una famiglia di fuochisti giace a gambe all’aria agonizzanti. I muri incrostati di murales misteriosi concludono la scena. Ringrazia ed esce pensando che la guida turistica solo tre anni prima parlava di quel posto come di un paradiso. Il tempo della distruzione è accelerato a quelle latitudini.
Arriva nella Tourist Home di Fort Cochin; gli apre un ragazzo e con il passo fiacco lo accompagna a vedere la stanza: un letto con il lenzuolo strappato e macchiato, per terra cartacce e cicche di sigarette, a destra il bagno minuscolo è un antro di puro terrore, la tazza del gabinetto rotta e una famiglia di fuochisti giace a gambe all’aria agonizzanti. I muri incrostati di murales misteriosi concludono la scena. Ringrazia ed esce pensando che la guida turistica solo tre anni prima parlava di quel posto come di un paradiso. Il tempo della distruzione è accelerato a quelle latitudini.
Lungo il promontorio le reti da pesca a bilanciere, introdotte all’epoca dei traffici marittimi con la Cina, emergono come enormi palafitte surreali di pali, sassi e corde che alzano ed abbassano le strutture a cucchiaio.
L’interno della città è un labirinto di strade tortuose e le case portoghesi sono accostate a costruzioni fatiscenti, nel centro storico sorge la chiesa più antica dell’India, San Francesco Saverio, e la sinagoga del quartiere ebraico.
Vicino all’attracco delle barche un capannone segnala il luogo di rappresentazione della danza kathakali, una danza a carattere religioso accompagnata da musica e pantomima su di una base narrativa. I ballerini si mascherano dipingendosi il volto e drammatizzano storie mitologiche, declamando personaggi che impersonificano la “sat” e “asat”, il vero e il falso. Nelle scuole dove si insegna questa pratica antichissima vige un controllo severo e una ferrea disciplina.
L’interno della città è un labirinto di strade tortuose e le case portoghesi sono accostate a costruzioni fatiscenti, nel centro storico sorge la chiesa più antica dell’India, San Francesco Saverio, e la sinagoga del quartiere ebraico.
Vicino all’attracco delle barche un capannone segnala il luogo di rappresentazione della danza kathakali, una danza a carattere religioso accompagnata da musica e pantomima su di una base narrativa. I ballerini si mascherano dipingendosi il volto e drammatizzano storie mitologiche, declamando personaggi che impersonificano la “sat” e “asat”, il vero e il falso. Nelle scuole dove si insegna questa pratica antichissima vige un controllo severo e una ferrea disciplina.
Il caldo è insopportabile. Lui attende la voce di lei nella cabina per le comunicazioni internazionali che sa di sudore e dopobarba, la cornetta si scioglie tra le sue mani e diventa scivolosa, si tramuta in plastica bruciata con i fili colorati scoperti. Vorrebbe rispondere al fil di voce che lo interroga dall’altra parte del mondo, ma le parole si bloccano nell’ammasso plastico del microfono fuso.
Sulla sua testa il conta scatti, liquefacendosi, goccia un liquido grigiastro puzzolente. La cabina di vetro e plastica si richiude su se stessa come un castello di carta ed entra imperioso il caos esterno, le urla, le richieste, l’elenco delle magnificenze locali: torri e forti portoghesi, cimiteri danesi, storie di navigatori arabi e cinesi. Lui rimane incastrato in quel pezzo di mondo che si avvicina alla distruzione totale, all’eclisse eterna. I pensieri disfatti cercano un contenitore momentaneo per ricostruire un’idea del corpo originale, per riassemblare organi e impalpabili pensieri, bottoni, cerniere, capelli e unghie.
Raccoglie il resto delle rupie fuse insieme e ritira lo scontrino di carta carbone.
All’esterno la strada è una lingua vulcanica di lava rassodata da poche ore e l’uomo si incammina scansando le feci di dinosauri estinti.
Ognuno reclama la propria parte; si sente un microbo vivisezionato e i mosconi affilano le zampe posteriori sopra la sua pelle sudata fradicia. E’ nel punto del fuoco di una lente immensa. Il macellaio vesuviano gli offre quarti macilenti di animali sconosciuti.
Sulla sua testa il conta scatti, liquefacendosi, goccia un liquido grigiastro puzzolente. La cabina di vetro e plastica si richiude su se stessa come un castello di carta ed entra imperioso il caos esterno, le urla, le richieste, l’elenco delle magnificenze locali: torri e forti portoghesi, cimiteri danesi, storie di navigatori arabi e cinesi. Lui rimane incastrato in quel pezzo di mondo che si avvicina alla distruzione totale, all’eclisse eterna. I pensieri disfatti cercano un contenitore momentaneo per ricostruire un’idea del corpo originale, per riassemblare organi e impalpabili pensieri, bottoni, cerniere, capelli e unghie.
Raccoglie il resto delle rupie fuse insieme e ritira lo scontrino di carta carbone.
All’esterno la strada è una lingua vulcanica di lava rassodata da poche ore e l’uomo si incammina scansando le feci di dinosauri estinti.
Ognuno reclama la propria parte; si sente un microbo vivisezionato e i mosconi affilano le zampe posteriori sopra la sua pelle sudata fradicia. E’ nel punto del fuoco di una lente immensa. Il macellaio vesuviano gli offre quarti macilenti di animali sconosciuti.
Poco lontano la prima chiesa costruita dai Portoghesi mostra la piatta facciata senza fronzoli, e gli indiani lasciano fuori dalla porta d'accesso le ciabatte come se fossero accolti in un tempio indù oppure in una moschea. I visitatori si avvicinano alla pietra sepolcrale di De Gama e accarezzano la lastra lucida. Da fuori arrivano le voci del tifo di una partita di cricket sotto il sole allo zenit. Poco lontano una manifestazione in appoggio al popolo palestinese scandisce cupe melopee.
La stanza in affitto è al secondo piano; al piano terreno i padroni lo chiamano per la colazione con tutta la famiglia. Sopra la sua testa il poster di Gesù ha una faretra di vetro da cui escono frecce luminose intermittenti. Partecipa alle pratiche intime, familiari, e le donne di casa indossano l’abito migliore per non sfigurare dinanzi all’ospite straniero.
Lungo la strada da Cochin ad Allepey la grande statua di San Sebastiano, racchiusa in una teca, partecipa al dolore generale. Frecce macchiate di sangue e l’espressione di patimento nel volto, la chiesa alle sue spalle è di un verdolino marcio.
Il tempio maggiore di Allepey, nel centro città vicino ai canali, accosta le statue coloratissime alle pubblicità dei negozi sottostanti, il frontale scolpito è la rappresentazione pressoché completa della cosmogonia induista. Farmacia Visnhu, Gioielleria Parvati… Nel canale le barche spezzano la macchia uniforme dell’acqua nera e gli alberi, piegati nella direzione del corso d’acqua, hanno orchidee parassite avvinghiate ai rami più bassi. La barca addomesticata per turisti stranieri e indiani, navigherà per otto ore nella laguna e attraverso i fiumi raggiungerà Quillon. Procedono lentamente lungo i corsi d'acqua: puzza di marcio e cordami, mangrovie e carrubi arrossati dai fiori infuocati. Ninfee, capanne con i tetti in lamiera, case dignitose, semplici rifugi per la notte. Argini di terra battuta, canoe e barche da trasporto - animali e uomini mutanti solo per metà esseri terricoli.
I bambini salutano incessantemente. Le anatre non amano il rumore del motore e accompagnano lo sciabordio con proteste stizzite. Alcuni fanno il bagno, altri il bucato in un acqua decisamente non trasparente e idilliaca.
Temporale in vista. Lontano il cielo si fa scuro e la cappa avanza, aumenta il vento e sconquassa le palme frustandole energicamente. La barca rallenta.
I grandi bilancieri delle lagune, appaiono instabili, sono trespoli per corvi e falchi, aironi e cormorani. Il fiume segue parallelamente il mare invisibile. Poi l’orizzonte si stringe in un imbuto che termina direttamente nel cuore del temporale. Le palme perdono la lucentezza degli ultimi raggi del sole rapiti dalle nuvole basse cariche di pioggia. Sotto il cielo martellato dai fulmini le canoe continuano a traghettare persone da una riva all’altra, spinte silenziosamente da un uomo in piedi che si aiuta con una canna di bambù immersa nei bassi fondali.
Tra le palme appare la statua di un Cristo che rassicura con la mano protesa indicando la via per il mare. I falchi svolazzano disordinatamente, non seguono una direzione precisa, avvertendo la burrasca; la luce è filtrata dalle prime gocce. La pioggia si intensifica e occorre scendere al coperto, la visibilità non supera il metro. L’acqua del fiume ribolle, si increspa, la barca rolla e beccheggia in modo preoccupante. Quattordici chilometri prima di Quillon così come è iniziato tanto improvvisamente il temporale cessa, e nel tramonto il cielo striato e i versi degli uccelli induce a cercare un rifugio per al notte.
La stanza in affitto è al secondo piano; al piano terreno i padroni lo chiamano per la colazione con tutta la famiglia. Sopra la sua testa il poster di Gesù ha una faretra di vetro da cui escono frecce luminose intermittenti. Partecipa alle pratiche intime, familiari, e le donne di casa indossano l’abito migliore per non sfigurare dinanzi all’ospite straniero.
Lungo la strada da Cochin ad Allepey la grande statua di San Sebastiano, racchiusa in una teca, partecipa al dolore generale. Frecce macchiate di sangue e l’espressione di patimento nel volto, la chiesa alle sue spalle è di un verdolino marcio.
Il tempio maggiore di Allepey, nel centro città vicino ai canali, accosta le statue coloratissime alle pubblicità dei negozi sottostanti, il frontale scolpito è la rappresentazione pressoché completa della cosmogonia induista. Farmacia Visnhu, Gioielleria Parvati… Nel canale le barche spezzano la macchia uniforme dell’acqua nera e gli alberi, piegati nella direzione del corso d’acqua, hanno orchidee parassite avvinghiate ai rami più bassi. La barca addomesticata per turisti stranieri e indiani, navigherà per otto ore nella laguna e attraverso i fiumi raggiungerà Quillon. Procedono lentamente lungo i corsi d'acqua: puzza di marcio e cordami, mangrovie e carrubi arrossati dai fiori infuocati. Ninfee, capanne con i tetti in lamiera, case dignitose, semplici rifugi per la notte. Argini di terra battuta, canoe e barche da trasporto - animali e uomini mutanti solo per metà esseri terricoli.
I bambini salutano incessantemente. Le anatre non amano il rumore del motore e accompagnano lo sciabordio con proteste stizzite. Alcuni fanno il bagno, altri il bucato in un acqua decisamente non trasparente e idilliaca.
Temporale in vista. Lontano il cielo si fa scuro e la cappa avanza, aumenta il vento e sconquassa le palme frustandole energicamente. La barca rallenta.
I grandi bilancieri delle lagune, appaiono instabili, sono trespoli per corvi e falchi, aironi e cormorani. Il fiume segue parallelamente il mare invisibile. Poi l’orizzonte si stringe in un imbuto che termina direttamente nel cuore del temporale. Le palme perdono la lucentezza degli ultimi raggi del sole rapiti dalle nuvole basse cariche di pioggia. Sotto il cielo martellato dai fulmini le canoe continuano a traghettare persone da una riva all’altra, spinte silenziosamente da un uomo in piedi che si aiuta con una canna di bambù immersa nei bassi fondali.
Tra le palme appare la statua di un Cristo che rassicura con la mano protesa indicando la via per il mare. I falchi svolazzano disordinatamente, non seguono una direzione precisa, avvertendo la burrasca; la luce è filtrata dalle prime gocce. La pioggia si intensifica e occorre scendere al coperto, la visibilità non supera il metro. L’acqua del fiume ribolle, si increspa, la barca rolla e beccheggia in modo preoccupante. Quattordici chilometri prima di Quillon così come è iniziato tanto improvvisamente il temporale cessa, e nel tramonto il cielo striato e i versi degli uccelli induce a cercare un rifugio per al notte.
Lui arrotola una sigaretta con la presa di tabacco umido, si guarda intorno avvertendo la sensazione di essere solo al mondo, lontano – smarrito – cullato dal motore diesel che ogni tanto perde i colpi. I trampolieri ritornano allo scoperto, innervositi dal fuori programma burrascoso impostano il passo impettito e riprendono la ricerca di cibo tuffando il lungo becco nelle paludi. Dopo l’ampia rientranza il pontile di sassi indica l’approdo per un villaggio e i canali scompaiono nella foresta scura, mentre l’acqua torna ad essere una lastra immobile.
Un modesto tempio, un’altra chiesa e nei piccoli cantieri martellano, piallano, rastremano gli scafi delle grandi canoe di legno. Le gocce di pioggia trattenute dal telone sono mitragliate via dalla brezza che taglia di lato e cosparse dal vento benedicono l’arrivo. Per tutte quelle ore l’India si è allontanata, le strade trafficate e la polvere sono dicerie senza fondamento e appartengono a luoghi lontani.
L’attracco riporta ogni cosa ad incastrarsi nel misto di urla, clacson e profumi di spezie.
Estasiato – esaltato – narcotizzato dal caos che lo riavvolge, sceglie un Iternational per passare la notte; scopre ben presto che è orrendo ma è troppo tardi per cercare una sistemazione migliore. E’ arrivato in una bolgia: le luci delle vetrine dei negozi sono alimentate con i gruppi elettrogeni e i rumorosissimi marchingegni soffocano a loro volta il caos infernale del traffico serale. Si convince che San Bailamme sia nato in quel luogo.
La Main Road di Quillon è all’apice di una crisi isterica, le persone non sono abituate a vedere stranieri per strada e la curiosità si mescola al mutismo, tutto ciò che è dotato di movimento è accavallato inesorabilmente: marciapiedi, strade, persone, ogni cosa si fonde insieme e il flusso umano procede nell’oscurità causata dai cali di tensione improvvisi.
Solo bagliori nel buio assoluto. La vita riesce sempre a complicarsi, il buio assale, la luce va via e giunge il buio preistorico. Nell’oscurità i rumori si amplificano naturalmente quasi non avessero barriere solide, la mente non è distratta dalla vista e nell’assenza di luce la vita crepita, ha richiami sottili, ignoti. Gioiellerie e pisciatoi accostati, frutta e polvere. La debole luce in fondo alla via è il locale ideale: di giorno terra di mosche e di notte impero delle zanzare. Prendere o lasciare.
Un modesto tempio, un’altra chiesa e nei piccoli cantieri martellano, piallano, rastremano gli scafi delle grandi canoe di legno. Le gocce di pioggia trattenute dal telone sono mitragliate via dalla brezza che taglia di lato e cosparse dal vento benedicono l’arrivo. Per tutte quelle ore l’India si è allontanata, le strade trafficate e la polvere sono dicerie senza fondamento e appartengono a luoghi lontani.
L’attracco riporta ogni cosa ad incastrarsi nel misto di urla, clacson e profumi di spezie.
Estasiato – esaltato – narcotizzato dal caos che lo riavvolge, sceglie un Iternational per passare la notte; scopre ben presto che è orrendo ma è troppo tardi per cercare una sistemazione migliore. E’ arrivato in una bolgia: le luci delle vetrine dei negozi sono alimentate con i gruppi elettrogeni e i rumorosissimi marchingegni soffocano a loro volta il caos infernale del traffico serale. Si convince che San Bailamme sia nato in quel luogo.
La Main Road di Quillon è all’apice di una crisi isterica, le persone non sono abituate a vedere stranieri per strada e la curiosità si mescola al mutismo, tutto ciò che è dotato di movimento è accavallato inesorabilmente: marciapiedi, strade, persone, ogni cosa si fonde insieme e il flusso umano procede nell’oscurità causata dai cali di tensione improvvisi.
Solo bagliori nel buio assoluto. La vita riesce sempre a complicarsi, il buio assale, la luce va via e giunge il buio preistorico. Nell’oscurità i rumori si amplificano naturalmente quasi non avessero barriere solide, la mente non è distratta dalla vista e nell’assenza di luce la vita crepita, ha richiami sottili, ignoti. Gioiellerie e pisciatoi accostati, frutta e polvere. La debole luce in fondo alla via è il locale ideale: di giorno terra di mosche e di notte impero delle zanzare. Prendere o lasciare.
Il ventilatore accompagna il sonno e complica i sogni sottoponendoli alla tortura continua di un rumore fastidioso. L’aria spinta con forza in basso allontana le zanzare e altri insetti che tentano di arrampicarsi sul letto. Alle cinque del mattino i corvi iniziano ad accordare le voci monotone, fuori piove leggermente. Attraverso un chillum di cristallo la gola assapora l’aria elettrizzata – gonfia di caldo umido.
Lui è in attesa del treno per Trivandrum nel piazzale della stazione, la pioggia della notte ha lavato le strade, ingentilito ogni cosa e rilassato le persone.
Nella carrozza di legno incontra famiglie curiose – esseri che appartengono ad altri clan. Gli uomini delle pianure incontrano le tribù di montagna - scontro e curiosità. Visi diversi in evoluzioni discoste di poco, ma avvertibili. Il colore della pelle, le caratteristiche facciali, la statura - linguaggi gutturali e suoni dolci. Amuleti di legno, di selce, di bronzo. Le diverse società si incontrano, i più curiosi si annusano, altri cercano un modo per poter comunicare. Gli sciamani sembrano avere più cose in comune: la terra, i fiori, gli unguenti, il senso del sacrificio nei rituali magici.
Intorno a lui spargono polveri – ossa sbriciolate e acqua che purifica.
Lui è in attesa del treno per Trivandrum nel piazzale della stazione, la pioggia della notte ha lavato le strade, ingentilito ogni cosa e rilassato le persone.
Nella carrozza di legno incontra famiglie curiose – esseri che appartengono ad altri clan. Gli uomini delle pianure incontrano le tribù di montagna - scontro e curiosità. Visi diversi in evoluzioni discoste di poco, ma avvertibili. Il colore della pelle, le caratteristiche facciali, la statura - linguaggi gutturali e suoni dolci. Amuleti di legno, di selce, di bronzo. Le diverse società si incontrano, i più curiosi si annusano, altri cercano un modo per poter comunicare. Gli sciamani sembrano avere più cose in comune: la terra, i fiori, gli unguenti, il senso del sacrificio nei rituali magici.
Intorno a lui spargono polveri – ossa sbriciolate e acqua che purifica.
I templi hanno i colori assopiti e il cielo plumbeo assorbe ogni tinta accesa, annullando i cromatismi sfacciati. I fiori hanno perso la lucentezza naturale ma le ghirlande restano vive più a lungo dissetate direttamente dal cielo. Le pozzanghere rispecchiano piedi scalzi e risciò. I colori tecnicolor sono semplici acquerelli, muti, silenziosi, e i sari non sventolano più ricordi di primavera - semplice scorrere del grigio nel grigio più scuro. E’ come se il mare avesse rotto l’argine di sabbia sulla costa e si fosse spinto per chilometri ad invadere la città. L’oceano ha usurpato la Città del Serpente, il tempio di Sri Padmanabhaswamy, la M.G. Road, il Chalai bazar. Gli storpi e le donne mendicanti con i bambini seduti a terra, mostrano pinne, squame, variazioni genetiche. Le ruote di camion e autobus sono paralizzate, incrostate dai denti di cane, colonie di corallo, e i semafori diventano boe luminose che segnalano i bassi fondali.
Tutto diviene liquido; la pioggia e l’avanzare del mare. I parchi si tramutano in isole di sabbia, lagune isolate dove sopravvivono intere famiglie di baraccati in costruzioni palafittate. Le porte della città vecchia resistono a fatica colpite dalle fiancate dei camion in fuga. Le croci delle chiese, le cime dei gupuram e la mezzaluna delle moschee fuoriescono dalle acque indicando siti religiosi subacquei. Sacchi di plastica galleggianti insieme alle noci di cocco, palazzi investiti dalle onde anomale e i topi salgono ai piani più alti dove trovano riparo assiepamenti di scarafaggi e nugoli di mosche. Negli uffici stile occidentale, sulla moquette polverosa, sono accampati le famiglie di pescatori fuggiti dalla costa, le scrivanie utilizzate come letti e are sacrificali, sopra i tavoli i piatti di foglie di banano colme di riso e sotto le poltrone sputano le ossa del pollo.
Nell’ufficio dell’agenzia di viaggio il poster delle Maldive ha nell’azzurro del mare il segno della saliva rossa di betel sgocciolante.
Il mare si è dilatato in modo inarrestabile. Fulmini di energia statica stropicciano il cielo accompagnati dalle frasi urlate dell’Apocalisse: - Ecco che egli viene fra le nubi. Ogni occhio lo vedrà. Gemeranno su di lui tutte le tribù della terra. I sette tuoni fecero sentire la loro voce. Salirono al cielo nella nube…è l’ora di giudicare i morti. E colui che era seduto sulla nube diede con la falce sulla terra e la terra fu mietuta.
Tutto diviene liquido; la pioggia e l’avanzare del mare. I parchi si tramutano in isole di sabbia, lagune isolate dove sopravvivono intere famiglie di baraccati in costruzioni palafittate. Le porte della città vecchia resistono a fatica colpite dalle fiancate dei camion in fuga. Le croci delle chiese, le cime dei gupuram e la mezzaluna delle moschee fuoriescono dalle acque indicando siti religiosi subacquei. Sacchi di plastica galleggianti insieme alle noci di cocco, palazzi investiti dalle onde anomale e i topi salgono ai piani più alti dove trovano riparo assiepamenti di scarafaggi e nugoli di mosche. Negli uffici stile occidentale, sulla moquette polverosa, sono accampati le famiglie di pescatori fuggiti dalla costa, le scrivanie utilizzate come letti e are sacrificali, sopra i tavoli i piatti di foglie di banano colme di riso e sotto le poltrone sputano le ossa del pollo.
Nell’ufficio dell’agenzia di viaggio il poster delle Maldive ha nell’azzurro del mare il segno della saliva rossa di betel sgocciolante.
Il mare si è dilatato in modo inarrestabile. Fulmini di energia statica stropicciano il cielo accompagnati dalle frasi urlate dell’Apocalisse: - Ecco che egli viene fra le nubi. Ogni occhio lo vedrà. Gemeranno su di lui tutte le tribù della terra. I sette tuoni fecero sentire la loro voce. Salirono al cielo nella nube…è l’ora di giudicare i morti. E colui che era seduto sulla nube diede con la falce sulla terra e la terra fu mietuta.
Su di un foglio fluttuante lui scorge una frase di Tagore: Tutto il mio corpo e tutte le mie membra fremevano alla carezza di colui che è intangibile, e se la fine giunge ora, che venga; sia questa la mia parola di commiato.
Se volete lasciare un messaggio parlate dopo il segnale acustico…
- Compratemi i gelati - Le noccioline tostate sono le migliori di Kovalam - Datemi un senso. Il caldo dopo la pioggia è arroventamento di vapori che non lasciano scampo, penetrano, bruciano, e la pelle si annerisce senza sudare; punizione agrodolce. Volete un ananas a venti rupie – Aggiusto le scarpe in dieci minuti – Volete un pareo.
Una mosca si tuffa nel bicchiere con un fondo di birra e agonizza nella schiuma alcolica, le zampette la sospingono freneticamente in giri concentrici. Un’altra la segue nella piscina schiumosa e l’uomo osserva gli inutili sforzi. Il vetro del bicchiere deforma le ombre che passano. Dietro di lui qualcuno prega di fronte alla statua casalinga di Parvati, raffigurata mentre suona il flauto; la protettrice musicista è dipinta in mille colori.
Termina lo studio entomologico liberando le mosche sulla tovaglia.
Ora Parvati appare sorridente.
Se volete lasciare un messaggio parlate dopo il segnale acustico…
Il bar-acquario trasmette bolle di raggae e pop; fuori transita la coppia indiana di Bombay. Lui è in giacca e pantaloni con la piega perfetta sul davanti, lei in sari rosa, collane e orecchini nella miglior tradizione. Il vento trascina a mezz’aria il foulard di lei, prolungamento del corpo, una sorta di coda fremente, un guinzaglio ghermito dalle nuvole basse. Hanno le ciabatte in mano, camminano scalzi senza bisogno di prestare attenzione a quello che calpestano nella battigia levigata dal mare. A tratti si afferrano la mano sempre guardando fissamente avanti a loro.
E’ una domenica di festa, ma è anche un giorno particolare perché oggi festeggiano l’anniversario del loro matrimonio, tre anni ed ora lei aspetta un bambino. Entrano nel locale non prestando attenzione ai tavoli intorno occupati da turisti indiani e occidentali. La turista giapponese imprime ideogrammi nel quaderno di viaggio, lui prova un moto d’invidia perché lei riuscirà molto meglio a descrivere il sari rosa della donna, che per un attimo si è posato sul suo tavolo con la leggerezza di una farfalla.
Il lampo rosa si è umanizzato, è tornato a essere materia capace di ridere, e a bassa voce la donna si maschera di giochi infantili, di semplici romanticherie nei confronti del fidanzato serio e impeccabile. La regina ha deciso di imbarcarsi nello scafo di un bar occidentale e prendere posto negli sgabelli poppieri sconvolti dal vento e dal rumore della risacca. Beve una coca cola; con quel gesto depone la corona di pietre di luna che immaginava sul suo capo, allontana le danze di corte nel palazzo del maharaja; suoni immaginati solamente e dettati dal portamento regale.
Se volete lasciare un messaggio parlate dopo il segnale acustico…
Escono dopo poco e lui le riprende la mano non appena varcano la soglia.
Il vento si impossessa nuovamente di lei e lei ritorna farfalla irreale, indecisa se posarsi oppure far soffrire ogni singolo granello di sabbia, che per invogliarla a sedersi si tramuta in corolla imbalsamata.
La favola lentamente procede nella direzione del tramonto, trascinando con se quell’arte femminile di ammaliare e scomparire.
Se volete lasciare un messaggio parlate dopo il segnale acustico…
Il faro arroccato lancia un segnale nel cielo. Odore di pesce arrosto e puzza di marcio, la combinazione terrifica riesce a diventare abitudine e il mare sempre lì ad insultare di continuo la riva striata di sabbia nera. I pesci di poco conto restano a putrefarsi e i corvi banchettano con i cadaveri estraendo solo gli occhi.
Se volete lasciare un messaggio parlate dopo il segnale acustico… continua a ripetere la fredda invenzione robotica.
Se volete lasciare un messaggio parlate dopo il segnale acustico…
- Compratemi i gelati - Le noccioline tostate sono le migliori di Kovalam - Datemi un senso. Il caldo dopo la pioggia è arroventamento di vapori che non lasciano scampo, penetrano, bruciano, e la pelle si annerisce senza sudare; punizione agrodolce. Volete un ananas a venti rupie – Aggiusto le scarpe in dieci minuti – Volete un pareo.
Una mosca si tuffa nel bicchiere con un fondo di birra e agonizza nella schiuma alcolica, le zampette la sospingono freneticamente in giri concentrici. Un’altra la segue nella piscina schiumosa e l’uomo osserva gli inutili sforzi. Il vetro del bicchiere deforma le ombre che passano. Dietro di lui qualcuno prega di fronte alla statua casalinga di Parvati, raffigurata mentre suona il flauto; la protettrice musicista è dipinta in mille colori.
Termina lo studio entomologico liberando le mosche sulla tovaglia.
Ora Parvati appare sorridente.
Se volete lasciare un messaggio parlate dopo il segnale acustico…
Il bar-acquario trasmette bolle di raggae e pop; fuori transita la coppia indiana di Bombay. Lui è in giacca e pantaloni con la piega perfetta sul davanti, lei in sari rosa, collane e orecchini nella miglior tradizione. Il vento trascina a mezz’aria il foulard di lei, prolungamento del corpo, una sorta di coda fremente, un guinzaglio ghermito dalle nuvole basse. Hanno le ciabatte in mano, camminano scalzi senza bisogno di prestare attenzione a quello che calpestano nella battigia levigata dal mare. A tratti si afferrano la mano sempre guardando fissamente avanti a loro.
E’ una domenica di festa, ma è anche un giorno particolare perché oggi festeggiano l’anniversario del loro matrimonio, tre anni ed ora lei aspetta un bambino. Entrano nel locale non prestando attenzione ai tavoli intorno occupati da turisti indiani e occidentali. La turista giapponese imprime ideogrammi nel quaderno di viaggio, lui prova un moto d’invidia perché lei riuscirà molto meglio a descrivere il sari rosa della donna, che per un attimo si è posato sul suo tavolo con la leggerezza di una farfalla.
Il lampo rosa si è umanizzato, è tornato a essere materia capace di ridere, e a bassa voce la donna si maschera di giochi infantili, di semplici romanticherie nei confronti del fidanzato serio e impeccabile. La regina ha deciso di imbarcarsi nello scafo di un bar occidentale e prendere posto negli sgabelli poppieri sconvolti dal vento e dal rumore della risacca. Beve una coca cola; con quel gesto depone la corona di pietre di luna che immaginava sul suo capo, allontana le danze di corte nel palazzo del maharaja; suoni immaginati solamente e dettati dal portamento regale.
Se volete lasciare un messaggio parlate dopo il segnale acustico…
Escono dopo poco e lui le riprende la mano non appena varcano la soglia.
Il vento si impossessa nuovamente di lei e lei ritorna farfalla irreale, indecisa se posarsi oppure far soffrire ogni singolo granello di sabbia, che per invogliarla a sedersi si tramuta in corolla imbalsamata.
La favola lentamente procede nella direzione del tramonto, trascinando con se quell’arte femminile di ammaliare e scomparire.
Se volete lasciare un messaggio parlate dopo il segnale acustico…
Il faro arroccato lancia un segnale nel cielo. Odore di pesce arrosto e puzza di marcio, la combinazione terrifica riesce a diventare abitudine e il mare sempre lì ad insultare di continuo la riva striata di sabbia nera. I pesci di poco conto restano a putrefarsi e i corvi banchettano con i cadaveri estraendo solo gli occhi.
Se volete lasciare un messaggio parlate dopo il segnale acustico… continua a ripetere la fredda invenzione robotica.
Sotto il ponte transita il treno diretto al nord, il Bombay Express, un alieno biscione di ferro e legno. Due bambini si confondono con l’asfalto da quanto sono scuri e sporchi, l’apparizione del turista è inaspettata e inizia la tradizionale richiesta lamentosa di qualche rupia. L’uomo non ha soldi spiccioli e al bimbo più grande nasce un’ottima idea. Dirigono verso una baracca che, al ciglio della strada, vende incerti alimenti.
Il contratto è firmato al momento e consumato subito in due pezzi di torta e due bicchieri colmi d’acqua; il saluto è gioco e ringraziamento insieme.
Occhi di lince e sorrisi di smalto bianco, unghie sporche, piedi scalzi e qualche cosa di nuovo da raccontare quella sera in una delle tante capanne accostate ai binari.
Un altro treno sfreccia sotto il ponte, i bimbi hanno ripreso la loro postazione e tra poco scenderanno alla ricerca di bagliori delle cose gettate dai finestrini.
Come ritornerò – pensa l’uomo - quali emozioni riprenderanno forma, quale sostanza assumeranno. Il telefono muto lo fa sentire solo al mondo e i corvi se la ridono spolpando le carcasse dei pesci marci.
La riva si allontana, disperde le orme e segna il confine tra terra e acqua. Inizia molto prima il vero confine e la mente è arginata dall’orizzonte. Tutto questo è poetica dell’ozio, in realtà la spiaggia è solo uno scalo per le coppie fresche di matrimonio che confondono la fame con il folclore e attendono l’aereo per le Maldive.
Mente, pensieri, involtini di sogni cotti a fuoco lento e conditi con salsa piccante. Somosa alle erbe, tandoori al ginepro, chiodi di garofano, lacrime al curry e sorrisi di polpa di cocco. Tagli perfetti, ananas dolcissimi, buio, odore di brace. Una Scissors senza filtro e sogni di Zelig. Miracoli e sabbia. Albe e tramonti. Impercettibili movimenti dei fianchi delle donne che dalla campagna giungono al mare, sulla spiaggia affollata da turisti indiani, per vendere la frutta che matura nel viaggio e diviene zucchero come le loro parole mentre cercano di convincere potenziali acquirenti. Come si può far finta di non vedere, come poteva continuare a leggere “Il Periplo di Baldassarre” senza pensare che la loro ricerca andava oltre a quella di riuscire a scovare il Libro della Bestia.
Una vita, semplice, normale, era la ricerca dei filosofi in sari sotto il sole, così magre da non lasciare ombra.
Il contratto è firmato al momento e consumato subito in due pezzi di torta e due bicchieri colmi d’acqua; il saluto è gioco e ringraziamento insieme.
Occhi di lince e sorrisi di smalto bianco, unghie sporche, piedi scalzi e qualche cosa di nuovo da raccontare quella sera in una delle tante capanne accostate ai binari.
Un altro treno sfreccia sotto il ponte, i bimbi hanno ripreso la loro postazione e tra poco scenderanno alla ricerca di bagliori delle cose gettate dai finestrini.
Come ritornerò – pensa l’uomo - quali emozioni riprenderanno forma, quale sostanza assumeranno. Il telefono muto lo fa sentire solo al mondo e i corvi se la ridono spolpando le carcasse dei pesci marci.
La riva si allontana, disperde le orme e segna il confine tra terra e acqua. Inizia molto prima il vero confine e la mente è arginata dall’orizzonte. Tutto questo è poetica dell’ozio, in realtà la spiaggia è solo uno scalo per le coppie fresche di matrimonio che confondono la fame con il folclore e attendono l’aereo per le Maldive.
Mente, pensieri, involtini di sogni cotti a fuoco lento e conditi con salsa piccante. Somosa alle erbe, tandoori al ginepro, chiodi di garofano, lacrime al curry e sorrisi di polpa di cocco. Tagli perfetti, ananas dolcissimi, buio, odore di brace. Una Scissors senza filtro e sogni di Zelig. Miracoli e sabbia. Albe e tramonti. Impercettibili movimenti dei fianchi delle donne che dalla campagna giungono al mare, sulla spiaggia affollata da turisti indiani, per vendere la frutta che matura nel viaggio e diviene zucchero come le loro parole mentre cercano di convincere potenziali acquirenti. Come si può far finta di non vedere, come poteva continuare a leggere “Il Periplo di Baldassarre” senza pensare che la loro ricerca andava oltre a quella di riuscire a scovare il Libro della Bestia.
Una vita, semplice, normale, era la ricerca dei filosofi in sari sotto il sole, così magre da non lasciare ombra.
La strada punta il sud, oltrepassa villaggi su villaggi, angoli di campagna e incroci intasati all’inverosimile. La polvere e la sabbia del mare si mescolano in un turbinio invadente e inarrestabile. Il ceck point del Tamil Nadu è una semplice sbarra alzata e abbassata da un controllore annoiato, mummificato dal sole a picco. Dieci chilometri prima di Capo Comorin, Kanyakumari come in realtà si chiama la punta estrema dell’India, il verde è un’esplosione di risaie e piantagioni di banani. Intorno sorgono colline spoglie, alcune arrotondate hanno la sommità a punta mentre altre appaiono semplicemente ammassi di pietre enormi levigate.
A Kanyakumari gli oceani si incontrano per stringere un patto e mettere fine al continente indiano. Solo due isole poco lontane dalla costa sono l’ultimo territorio e ci si arriva con un presunto ferry, miracolato da chissà quale dio che gli accorda un accettabile galleggiamento. In un isola la statua enorme di Vivekananda e nell’altra il tempio, con le cupole rosse e le colonne di pietra nera, dedicato allo stesso il filosofo.
Il mare ha strappato il colore terroso al continente e per diversi chilometri le acque sono gialle, poi l’oceano interviene e disperde le ultime memorie polverose dell’India, lentamente diluisce il fango in un azzurro sempre più profondo mano a mano che la terra rimpicciolisce. L’India è solo un ricordo. Salsedine e correnti vorticose, pesci mitologici e flotte straniere alla ricerca di spezie. Non si sente più l’odore di gelsomino, del ghee cagliato offerto alle divinità, non si vedono i piedi callosi, le mani piagate, non si sentono le melodie di sarod e tabla. Oltre quell’orizzonte altre terre, altri popoli, altre epoche. Qui finisce l’India, tra le bancarelle e un’esagerata chiesa gotica, barche colorate e alberghi fuori luogo. L’impero si ferma, gli imperatori attendono; moghul, maharaja, bramini, lebbrosi, pezzenti e nuovi signori delle grandi città scompaiono.
A Kanyakumari gli oceani si incontrano per stringere un patto e mettere fine al continente indiano. Solo due isole poco lontane dalla costa sono l’ultimo territorio e ci si arriva con un presunto ferry, miracolato da chissà quale dio che gli accorda un accettabile galleggiamento. In un isola la statua enorme di Vivekananda e nell’altra il tempio, con le cupole rosse e le colonne di pietra nera, dedicato allo stesso il filosofo.
Il mare ha strappato il colore terroso al continente e per diversi chilometri le acque sono gialle, poi l’oceano interviene e disperde le ultime memorie polverose dell’India, lentamente diluisce il fango in un azzurro sempre più profondo mano a mano che la terra rimpicciolisce. L’India è solo un ricordo. Salsedine e correnti vorticose, pesci mitologici e flotte straniere alla ricerca di spezie. Non si sente più l’odore di gelsomino, del ghee cagliato offerto alle divinità, non si vedono i piedi callosi, le mani piagate, non si sentono le melodie di sarod e tabla. Oltre quell’orizzonte altre terre, altri popoli, altre epoche. Qui finisce l’India, tra le bancarelle e un’esagerata chiesa gotica, barche colorate e alberghi fuori luogo. L’impero si ferma, gli imperatori attendono; moghul, maharaja, bramini, lebbrosi, pezzenti e nuovi signori delle grandi città scompaiono.
Lel – lia – alai – tarar – keli…
non è la macchinazione di un geografo impazzito
e improvvisamente lui si accorge
che quella roccia
è la fine di una terra.
non è la macchinazione di un geografo impazzito
e improvvisamente lui si accorge
che quella roccia
è la fine di una terra.