Santiago del Cile. Palazzo della Moneda. Mi distraggo un attimo dal rumore intorno e i pensieri arrancano incerti - lievitano timidamente.
Riassaporo ricordi, sensazioni, canzoni di epoche giovanili, ritmi e testi di rivolta, di riscatto, di libertà.
Sogni d’altri uomini e donne che la mia generazione ha colorato di significati non raggiungendo, quasi sicuramente, il senso del vero.
Ma con quanto coraggio e sincero trasporto abbiamo cantato “El pueblo unido jamas sera vencido”…emozionati sul serio.
1973
La voce di Salvator Allende, rotta dalla commozione, riempì la piazza: -…le mie non sono parole piene di amarezza, ma piuttosto di delusione. Esse rappresenteranno un giudizio morale su coloro che hanno tradito il giuramento che fecero in qualità di soldati del Cile… Sono forti e ci possono fare schiavi, ma non potranno fermare i progressi sociali del mondo, né con la violenza, né con i fucili. Stiate certi che, presto o tardi, saranno di nuovo aperti i grandi viali lungo i quali liberi cittadini marceranno per costruire una società migliore. Lunga vita al Cile! Lunga vita al popolo! Lunga vita ai lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e in me c’è la sicurezza che questo sacrificio rappresenterà una lezione morale che punirà la codardia, la perfidia e il tradimento…-
Dopo poco i jet dell’aviazione bombardarono il palazzo della Moneda. Si consumava così la tragedia di un popolo, si sbarrava la porta della libertà in faccia ai sogni di milioni di persone.
La destra politica e il generale Pinochet, con l’appoggio degli USA, distrussero l’esperimento del Governo Democratico di Unità Popolare di Salvator Allende.
L’America protesse il colpo di stato impaurita dalle radicali innovazioni applicate dal governo Democratico: le nazionalizzazioni, la riforma agraria, gli espropri alle multinazionali.
Nasce la cupa definizione di Golpe di Stato: ottantamila morti, centinaia di migliaia di esiliati, uccisioni, torture, regolamenti di conti anche fuori del Cile.
Pinochet rimase capo della giunta militare dal 1973 al 1989, liquidò il Parlamento e mise al bando i partiti di sinistra. Lo spiraglio democratico si riaprì nel 1989 quando il gruppo Concertazione per la Democrazia vinse le elezioni.
Il caldo colloso è avvolgente in questa città di Spagna, trasportata come per magia in Sud America, riprodotta così velocemente che non si è avuto il tempo di terminare la costruzione dei palazzi, di stendere l’asfalto sulle strade e coprire le voragini che devastano il cemento.
Città immaginaria. Città fantasma. Città esule d’Europa.
Il progetto è quello di lasciare velocemente Santiago, puntare verso i deserti del Norte e rimandare la visita della città al ritorno, tra un mese e mezzo.
Inizia la ricerca della Stazione degli autobus per il Nord del paese. Alle 16,30 l’autobus muove per Antofagasta: impiegheremo il pomeriggio, la notte e la mattinata di domani per giungere a San Pedro de Atacama.
La strada percorre la striscia di terra cilena che si affaccia sull’Oceano Pacifico e si sviluppa in salar e deserti nei confini posti ad est, per poi elevarsi in altopiani e cordigliere.
Antofagasta - Calama - San Pedro.
Calama appare come una porta aperta su di un mare di sabbia. Da qui con un altro mezzo percorriamo il deserto di Atacama, puntando direttamente su San Pedro. L’ambiente si trasforma da deserto di sassi a immensa piana di polvere: i colori accesi ed il levigare dei venti costanti hanno modellato il panorama in geometrie esasperate e fantasiose.
La terra e la stanchezza s’intrecciano insieme senza fiorire. Oltrepassiamo incroci dove a perdita d’occhio le strade proiettate verso il nulla intersecano altro nulla e i viottoli di polvere disegnano le antiche vene d’America - “l’andare” è smarrire la ragione stessa del viaggio.
L’oasi di San Pedro sorge al limitare del salar ed è un intrico di case basse, un villaggio fantasma disteso in prossimità del lago salato quasi completamente evaporato.
San Pedro de Atacama è un luogo sonnolento e decantato da scrittori e viaggiatori, dove i visi tristi se sorridono “sanno sorridere”, dove generazioni di uomini hanno perso il respiro scavando il salnitro per le grandi compagnie americane. Terra di confine, così vicino all’Argentina come alla Bolivia, un angolo di mondo che assomiglia all’inferno e alla luna insieme. Le case di mattoni cotti al sole si ricoprono di polvere finissima alzata in volute biancastre da camion e bus. In questo territorio riarso, sopra i muri delle case, rimane il ricordo del colera sotto forma di un vecchio cartello che spiega come salvaguardarsi dal contagio. Spiccano altri avvisi più recenti: l’odierna campagna è contro un insetto mortale che disegnato alla meno peggio, non mi ricorda nulla di conosciuto. Questo piccolo paese resiste al caldo come al pianto notturno, alle lacrime in memoria di due ragazzi morti in un incidente stradale nel pomeriggio. In questa isola fuori del tempo la morte diventa un dramma collettivo. Alle due di notte le campane della Iglesia di San Pedro suonano a morto, annunciano la triste veglia nel solitario rintocco ripetuto. I rintocchi in questo vuoto non hanno echi di risposta.
Pukarà de Quintor. Andiamo alla ricerca di un sentiero diretto alla fortezza indios chiamata Pukarà Inka, attraversiamo il fiume e risaliamo il promontorio, da qui lo sguardo racchiude la valle e l’oasi del villaggio.
La fortezza risale al XII secolo ed è stata l’ultima difesa contro gli spagnoli. Le singole pietre riportano i disegni minerali delle colline intorno.
Il sole allo zenit sbianca i contorni della cordigliera - un fotogramma sovraesposto in cui si intravedono i vulcani in lontananza.
La “Valle della Luna” è un’area delimitata da rocce di mille colori e fattezze: piccoli canyon intagliano formazioni suggestive creando astratti animali di pietra. La valle è una grande conca; un vallone di sabbia contornato dall’opera fantasiosa che vento e pioggia hanno solcato sopra i materiali rocciosi. Un bicchiere ricolmo di rena orlato da picchi multicolori. Il sole al tramonto muta le tinte in riflessi fiammeggianti di rosso acceso. Poi la sera dipinge in viola le onde sabbiose infrante dal vento. Il grande lago salato di Atacama è quasi completamente prosciugato; la raccolta del salgemma e del salnitro ha spinto le multinazionali straniere in questo angolo di mondo.
Racconti e silenziose memorie di quell’epoca dipingono fantasmi erranti nel nulla intorno.
Un tempo era fatica di braccia, turni impossibili e paghe da fame.
Le concrezioni saline si colorano di mille sfumature rosse e giallastre, l’azzurro del cielo è delimitato nettamente dalla linea candida dell’orizzonte tremolante - un taglio preciso che si perde in lontananza e rende ammutoliti.
Rimaniamo increduli davanti a tanta severità ambientale.
Un mondo di neve secca: i rumori degli scarponi incidono la crosta di sale, da ogni parte i reticolati dei vecchi cantieri restano sghimbesci cigolando al vento.
Una landa immobile, un sogno d’alcolizzato, una visione che punisce lo sguardo ed affascina allo stesso tempo.
Un magnetismo che odora di zolfo si propaga da rigagnoli d’acqua bollente sotto forma di sbuffi silenziosi di vapore.
La città di Calama è una tappa obbligata per raggiungere la Bolivia. Ci sono due opportunità: continuare la strada per Arica e attraversare la frontiera stradale, oppure raggiungere il confine ad Ollague con il treno della notte.
Continuiamo a passeggiare e ad interrogarci sulle due possibilità.
La Stazione del Ferrocaril rimane chiusa tutto il giorno, è impossibile avere informazioni attendibili e i treni boliviani sono riconosciuti da tutti come imprevedibili e fantasiosi.
Non esiste una tabella oraria e tanto meno un calendario preciso delle partenze settimanali, è tutto supposto, sperato. La strada sostituisce la sala d’aspetto e gli indios bivaccano da un giorno intero in attesa del treno della notte.
I dubbi continuano e la sera scende con un codazzo di tenebre che spinge ad affrettare una decisione.
Improvvisamente il sibilo di un treno a vapore anima la folla seduta, le luci della stazione si accendono, la biglietteria alza le imposte - il romantico fischio del treno ha deciso per noi.
I corpi accalcati si destano velocemente, i bambini tornano a scomparire dentro le stoffe colorate legate alla schiena delle donne, i cappelli di paglia ritrovano il loro senso e l’aria riprende profondità al suono di dialetti diversi.
E come un mare invitante in una giornata afosa; la folla ci spinge al tuffo, al salto, a farne parte - odori, profumi, suoni, visi, sorrisi che chiedono di partecipare alla quotidianità.
Il treno è sul binario, freme della febbre del vapore tenuto a freno e sobbalza lievemente quasi animato da vita propria; il locomotore ed una sola carrozza per un corteo di persone, un esodo di sacchi e di stoffe colorate annodate insieme.
Le luci all’interno del vagone sono fievolmente inutili e nel buio quasi completo ci pigiamo gli uni agli altri sopra panche di legno, con scuse e sorrisi modelliamo gli incastri dei corpi.
Gli incerti equilibri sono scossi di sorpresa dalla partenza, ci avviamo nel buio profondo con le movenze di un animale preistorico. Lentamente saliamo la cordigliera andina e gradualmente il freddo diventa insopportabile, l’altitudine rende i vetri dei finestrini ragnatele di condensa solidificata, l’andirivieni del controllore ci fa compagnia insieme ai lamenti in sordina di bimbi in fasce. La notte trascorre lentamente tra un brivido e l’altro; la temperatura scende sotto lo zero.
Buia carovana nel buio più totale.
L’alba è un sogno agognato che si avvera all'improvviso e i primi raggi del sole rischiarano l’ambiente circostante.
Notti eterne e luce inclemente. Le albe miracolose ricordano all’uomo il sogno e la sopravvivenza.
Costeggiamo il salar; intorno a noi il deserto di alta quota e le montagne altissime lentamente arrossano le vette. Magia e desolazione, un nulla affascinante e muto. Un plastico modellato per gioco da un fanciullo fantasioso in una terra immensa, bianca e marrone, deposta nella sommità al mondo.
Terra viva e inabitabile al contempo - in un gioco di sfumature che si ripete all’infinito nell’infinito spazio.
Ollague è il confine cileno, un luogo desolatissimo, l’avamposto estremo che prepara alla terra di nessuno - il vuoto che protegge il nulla. Timbriamo il passaporto in un ufficio improvvisato e ci allontaniamo zaini in spalla con un gruppo di contadini boliviani di ritorno a casa. La prima stazione ferroviaria della Bolivia dista quattro chilometri; seguiamo i binari che puntano direttamente la piana sabbiosa distesa di fronte. Nell’aria tremolante lievita la piccola stazione boliviana di Abaroa. Il responsabile dell’immigrazione afferma che il passaporto sarà timbrato a Uyuni, poi sorridendo ci avvisa che non ha idea di quando transiterà il prossimo treno. La situazione è comica, l’unica cosa da fare è adattarci e imitare gli indios in una rassegnata attesa. I nostri compagni di viaggio ci scrutano con curioso interesse - gli occhi scintillano nell’ovale dei visi bruciati dal sole… Il sole nell’altopiano ha reso argentee le rocce murate a secco dei muri delle poche case.
L’addetto allo scalo ferroviario veste una divisa sdrucita e gironzola senza una mansione precisa.
Nel minuscolo spaccio di alimentari acquistiamo un pacco di gallette che sarà la nostra colazione e forse il pranzo, chissà. Una linea di binari arrugginiti è insabbiata inesorabilmente e intorno alle vecchie carrozze fossilizzate i cani si contendono il cibo con uno stuolo di maiali. Più che un confine tra due stati è il confine con la realtà e l’immaginazione fa fatica ad elaborare un luogo come questo. Le vecchie glorie dell’avventura ferroviaria hanno sostato troppo a lungo in questa palude di sabbia, il ricordo delle memorie sferraglianti si è assopito per sempre.
Le carrozze di legno sono orfani abbandonati - corridori senza fiato che restano immobili a seccare sotto il sole.
Durante la notte il freddo scende dalla cordigliera e avvolge il salar, le ruote di ferro, i freni consumati e gli scambi arrugginiti; una cappa artica si deposita in questo spiraglio di mondo e il vento racconta di se stesso nel vibrare di vecchi cartelli ossidati e illeggibili.
Il tempo è reale solo attraverso il conto di albe e tramonti, si può facilmente perdere il senso di quanti anni, quanti secoli o semplici secondi si raccolgono in questo spazio immutabile.
La pelle è riarsa dal sole; camminando nella landa desertica il sudore prosciuga prima di uscire dai pori e uno strato di sale si forma sul viso.
Voci contrastanti rendono ancora più incerta la partenza: forse verso sera, forse questa notte, ed arriva la sera, ed arriva la notte. Poi un rumore smorzato. Lentamente un carro merci sale nella nostra direzione, un fantasma di ferro e vapore, di legno e buio: il cargo del 3 Aprile.
Si spalancano le porte di assi inchiodate e dopo tanta attesa è una fortuna anche quel cubicolo traballante. Il pavimento si colora di stoffe e paglia e in un buio quasi totale ci adagiamo anche noi a terra scivolando in un sonno a episodi.
Una mamita india offre foglie di coca da masticare contro il freddo e la fame.
Alle tre del mattino arriviamo ad Uyuni e una corte dei miracoli di indios riveste il pavimento della stazione.
Ci avviamo alla ricerca di un posto per dormire, bussiamo timidamente alle imposte serrate e i lievi tocchi sono accompagnati da latrati di cani in lontananza. Un’anziana signora in vestaglia, con i bigodini in testa, ci viene ad aprire, non vogliamo contrattare né pensare ad un'altra sistemazione, siamo esausti e accogliamo un catino di plastica al posto del lavandino con un sorriso. L’anziana dama spagnola augura buon riposo e si allontana con un passo fantasma nella penombra - meteora d’Europa fasciata di tulle.
L’aria è tersa il mattino dopo. Andiamo dal responsabile dell’ufficio immigrazione per vistare i passaporti. La carta geografica alle sue spalle pare riprodurre il territorio lunare e i minuscoli segni scuri indicano città e villaggi, il resto della carta è ombreggiata dai rilievi e le vaste zone desertiche sono macchie di bianco sporco. Il salar di Uyuni sulla mappa è evidenziato come fosse il mare della tranquillità del nostro satellite.
Nella realtà esterna lo sguardo si perde in meraviglie abbagliate dal sole.
Risalendo la strada polverosa mi rendo conto che la piana di Uyuni è un esperimento alchemico, un mondo di effimeri bagliori che trapassano il blu profondo del cielo.
Il viaggio verso Potosì procede su di una corriera molto veloce ma senza pretese; saliamo i passi tra la cordigliera e penetriamo pianure interminabili, villaggi di minatori, greggi di lama e vigogne nei rari pascoli. Inaspettatamente una valle verdissima sembra affermare l’esistenza di un creatore; un fiume rende fertile l’enorme pianoro: buoi, asini e lama pascolano in quella visione bucolica, resa ancor più angelica dal panorama infernale e riarso intorno.
L’intensificarsi di capanne isolate e piccoli agglomerati di case annuncia l’arrivo a Potosì.
La città più alta del mondo sorge a quattromila metri sul livello del mare e appare bianca e tremula vista da lontano, alle sue spalle si leva imponente il Cerro Rico.
La montagna è tristemente famosa per le sue miniere che hanno visto generazioni di indios lavorare e morire per i forzieri di Spagna, all’interno di quelle miniere d’argento nel cuore di un monte martoriato dalle profonde gallerie.
L’arrivo è ovattato dall’altitudine, i nostri passi diventano più cauti e il peso dello zaino si materializza all'improvviso. Seguiamo lentamente la strada acciottolata che sale ripida verso la piazza principale. Le chiese, la cattedrale, i palazzi coloniali e le strade lastricate appaiono miracoli dell’uomo dopo tante ore di territorio vuoto e spopolato. Il palazzo della Moneda, oggi museo cittadino, mantiene le attrezzature per la fusione e il conio delle monete. La grande ruota dentata della pressa era mossa in un primo tempo da asini e muli ed in seguito gli spagnoli impiegarono indios e schiavi africani perché il loro costo era minore. Molti trovarono la morte legati a questa macchina.
Visitiamo le miniere del Cerro con una cooperativa di minatori. Prima di salire la montagna sostiamo al mercato, acquistiamo viveri e regali che distribuiremo all’interno delle miniere ai componenti della cooperativa: dinamite, carburo, zolfo, detonatori, sigarette e foglie di coca.
Seguiamo il consiglio dell’accompagnatore e ci procuriamo un sacchetto di foglie anche per noi: si posizionano tra i denti e il labbro inferiore, succhiandole lentamente l’alcaloide della cocaina entra in circolo. I minatori usano le foglie con l’aggiunta di calce per combattere la fame, la fatica e l’altitudine.
La parte alta della città che si dirama verso le miniere è un mondo distinto: una terra di fatica e di dolorose memorie, e la gioventù ad ogni brillare di mina fugge sempre più lontano.
Saliamo all’imboccatura dello scavo ed è incredibile la quantità di materiale roccioso che è accatastato al di fuori, tonnellate e tonnellate di pietre che l’argento ha solo sporcato lievemente. Detriti trasportati a mano, trascinati in superficie con carichi di quarantacinque chilogrammi per volta; piccoli uomini magri entrano ed escono, a turno sostano piegati sui talloni con lo sguardo rivolto alla valle.
La montagna è forata in mille meandri che si disperdono nelle buie cavità, i pozzi e le gallerie sono visibili da lontano per la presenza dei gruppi di lavoratori che con diverse mansioni popolano le baracche, i loro ricoveri notturni.
Le donne valutano le pietre estratte, i bambini salgono con i detriti verso la luce lontana, è un passamano continuo in equilibrio sopra i piccoli scalini scavati nella parete che scende la voragine.
Entriamo nel pozzo avanzando carponi in un ambiente che di umano ha pochissimo, ripetutamente urto con la testa le volte basse della galleria, le torce illuminano gli antri con una luce ondeggiante.
Ogni tanto ci fermiamo a parlare con i minatori e improvvisando il viaggio dei Re Magi depositiamo la dinamite, la coca, una sigaretta.
Visi scavati. Bocche in eterna masticazione. Le gengive arrossate si mostrano ad ogni sorriso. L’aiuto delle erbe divine è un filtro contro i gas e i vapori di carburo che bruciano da lampade ammaccate.
Percorriamo tre chilometri nel sottosuolo, le nostre labbra sono scure come la salvia a forza di masticare coca. Un minatore a trent’anni dimostra il doppio della sua età e al doppio non ci arriverà mai. Sostiamo per osservare la messa in opera di un candelotto di dinamite: il lavorante posiziona l’esplosivo in un foro ottenuto con punta e martello, inserisce la miccia e fa fuoco, solo in quel momento ci allontana in un posto riparato e consiglia di otturarci le orecchie. Il botto è cupo, è un mugugno che sposta l’aria spessa di polvere. I luoghi di scavo assomigliano a celle di punizione, una torre di Babele a testa in giù che sussurra spari e scoppi, voci concitate e colpi di tosse. In una piccola grotta appare la scultura del Tio: il diavolo protettore, modellato con il fango e colorato di rosso. La piccola nicchia è vicino ad un passaggio che porta alle gallerie e le offerte sono depositate ai piedi della piccola statua: foglie di coca, sigarette, bicchieri d’alcool. Qualcuno avvicina una sigaretta accesa alla bocca del simulacro e rivela il sogno che alimenta i minatori: trovare una vena d’argento tanto grande da poter diventare ricchi, riuscire a vivere senza dover lavorare, oppure investire il denaro ricavato in un isola lontana. In un mare così limpido da dimenticare secoli di polvere e sudore.
Nel buio alla ricerca di una vena d’argento - nel sole immaginare d’averla trovata. La tua bocca mai sazia di masticare coca - il tuo sguardo mai vinto scruta l’orizzonte senza fine. Lunga è la strada da coprire. Le mani si spellano tra le pietre. La Pacha mama ti sospinge a continuare - incita ad andare - ma in fondo a questa pianura un’altra ne diparte. E così via all’infinito. Un’altra presa di coca e tanta strada da percorrere.
Partiamo diretti alla Laguna di Tarapaya a circa trenta chilometri da Potosì. Il cielo è plumbeo di nuvole temporalesche. Lo sguardo indugia dubbioso e non abbandona un istante l’orizzonte che promette la pioggia. Dondoliamo più o meno dolcemente con gli abitanti di lontani villaggi. Il temporale si allontana e riporta una contagiosa giovialità all’interno del bus. L’autista ci indica il sentiero che sale all’Ojo del Inca, un lago vulcanico che rispecchia nelle acque tiepide, i colori pastello delle pareti dirupate dei monti circostanti.
Il giallo oro e l’arancio dei sedimenti rocciosi crea una tela pittorica avanguardista, le canne di fiume e il verde intenso dell’erba umida sono filtrati dalle nuvole contro il sole.
Il sentiero e le carrarecce polverose sono percorse da famiglie indie che ritornano alle loro case - case invisibili.
Gli abiti colorati si disperdono tra la polvere e gli arbusti ingialliti.
E’ un intenso sollievo immergere i piedi nelle acque curative, il silenzio è completo e lo sguardo scende la valle lentamente, l’ambiente ed il tepore trasporta in una calma profonda. Ritorniamo a valle e attendiamo un mezzo di trasporto in compagnia di una donna in nero strattonata dai figli impazienti - il viso scurissimo della donna mi riporta alla mente le sculture antiche.
Cena a base di carne di lama, riso e patate fritte, nella piccola casa di un minatore della cooperativa.
Seguiamo i racconti di miniera e ricchezza: -...”ricordo Carlos Piscoia, lui trovò un’enorme vena d’argento tanti anni fa e divenne ricchissimo. Ma l’egoismo lo rese cieco, non sacrificò nulla al Tio ed il diavolo protettore lo punì facendogli perdere ogni cosa in poco tempo. In quattrocentocinquant’anni di estrazione dell’argento in Sud America, l’ottanta per cento proviene dal Cerro Rico e c’è un motivo, siamo baciati dal nostro generoso Tio”.
Potosì – Betanzos – Sucre.
Alla stazione dei bus ci assicurano che a Betanzos è giorno di mercato; fiduciosi facciamo una sosta, ben conoscendo l’estrema variabilità degli orari dei mezzi pubblici.
Betanzos è deserta, assomiglia ad un set cinematografico abbandonato velocemente, la piccola folla allibita ci osserva scendere dalla corriera e salutare l’autista.
Con gli zaini in spalla improvvisiamo un tour del villaggio, in realtà occorrono pochi minuti per comprendere che l’informazione era sbagliata.
Ci dirigiamo verso la strada asfaltata in attesa di un bus per Sucre. Letteralmente “on the road again”.
Il viaggio sarà lunghissimo a causa dei lavori in corso nel tratto della cordigliera.
Sucre ci accoglie con un boato nello stadio di football, la Bolivia incontra il Venezuela in una partita valida per la Coppa America. Prevedo che dovrò abituarmi alla litania sportivo–liturgica: Italia, Paolo Rossi…la palla saltellante non ha confini.
Campesino fuori dal tempo - oppure il tempo è estraneo al campesino?
1° Aprile.
Ci svegliamo con la pioggia e i rumori familiari sono ovattati, resi in sordina dalla cassa acustica immaginaria delle nuvole basse.
E’ ormai una strana quotidianità svegliarsi in Bolivia, ricercare un luogo dove fare colazione, un mercato per un pò di frutta, l’acqua, i micro per i vari spostamenti, luoghi per riposare ed angoli per rivivere le antiche epoche passate. Epoche ancora leggibili sopra visi tenaci, tra l’esagerazione architettonica dell’epoca coloniale e i cappelli di fogge che ricordano gli elmi dei conquistadores.
Vivere in Sud America e leggere del Sud America; ho appena letto il libro “Tejas verdes” di Hernan Valdes, è la storia della sua prigionia in un lager di Pinochet durante lo sconvolgimento sociale del 1973.
Mondi familiari e mondi sconosciuti, ogni giorno può essere quello giusto per avere una nuova visione, una maggiore comprensione. Ragionamenti – interpretazioni. Ogni giorno è viaggio e udibile movimento d’atomi. Vivo una realtà formata di coincidenze fortuite e ritmi diversi, dove ogni giorno l’odore onnipresente di fritto mi avvisa che è iniziata una nuova giornata, di vita per alcuni e di sopravvivenza per altri. Scrivere all’alba, in questa stanza, mi sembra codardia e allora mi vesto frettolosamente ed esco.
Sud America sfruttato. Sud America esausto. Sottomesso nel nome della Spagna, nel nome dell’Europa, nel nome del progresso, nel nome di Dio. Le sofferenze si moltiplicano come le lacrime.
Il centro di Sucre aggrega l’arte coloniale con i ritmi contadini. La cattedrale cinquecentesca, in piazza 25 di Maggio, è riccamente decorata con una incredibile varietà di fregi e sculture. La Cattedrale degli Apostoli è affollata da campesinos scalzi.
La città riporta alla mente la lotta di indipendenza di Simon Bolivar contro la Spagna nel 1825.
El Libertador; il mito di un popolo, il sogno di un continente. La continua sofferenza di un uomo che ricerca l’unione di tutto il sud America, in un'unica patria. Un uomo che diceva di avere un sogno che non esiste e sentiva il peso dei ricordi più del peso degli anni. Un uomo mitizzato a tal punto che i suoi capelli divennero delle reliquie, nelle terre liberate. Un uomo che morì giovane e circondato da pochi amici. Un fantasma ammalato che disperse gli amori e la ragione nella furia del tempo. Non fu sconfitto sul campo di battaglia; l’arroganza, i soprusi, i tradimenti, gli interessi infimi, arenarono la speranza.
Il generale è morto. La colletta dei carcerati e degli addetti al mattatoio permise un funerale dignitoso. Il generale è morto. Non trovò la strada per uscire da quel labirinto che lo ossessionava nelle notti sofferenti di febbri. Il generale è morto. Questa terra avrà sogni di riscatto solo dopo tanto tempo.
Visitando la città ci imbattiamo in angoli di placida vita campagnola e incroci intasati di traffico, negozi occidentalizzati e splendidi mercati indiani nei stretti vicoli di case basse, tra chiese e palazzi coloniali grigio fumo.
Cerchiamo di avere informazioni su di un itinerario trekking nella Cordigliera Real, un percorso che raggiunge il così detto Inca Trail. Le informazioni sono scarse e approssimative, alle nostre domande seguono sequele di “forse” e nomi intraducibili, domani vedremo il da farsi.
Di sera incontriamo un “naufrago” italiano che gestisce un bar con la moglie boliviana, dopo essere stato impiegato per molti anni in un progetto di cooperazione – “Sono agronomo e ho tenuto corsi di specializzazione nelle comunità contadine della zona insegnando l’utilizzo delle macchine agricole. Quando le macchine si ruppero fu impossibile ricevere i pezzi di ricambio dall’Italia. Da quel momento rimasi qui, e ho scoperto che per vivere si ha bisogno di poco. Non credo che riuscirei a vivere di nuovo in Italia, ora ho moglie e figli e soprattutto una seconda patria” -.
Dopo aver ridotto gli zaini cerchiamo un mezzo per l’aeroporto dove, a detta di qualcuno, dovrebbe fermare un bus per i villaggi della Cordigliera.
La sosta sulla strada si protrae a lungo e decidiamo di fare l’autostop, infruttuosamente a dire il vero.
Dialoghi affrettati con persone che transitano fanno ben sperare, ed ecco un camioncino scoperto con una vera folla assiepata all’interno. Il mezzo si blocca al nostro cenno; tra sorrisi e sguardi dubbiosi saliamo le basse sponde del pianale e all’improvviso ci troviamo impilati gli uni su gli altri. Il piccolo camion riporta a casa gli abitanti dei villaggi montani: le donne allattano e i contadini masticano foglie di coca.
Risaliamo le strade di montagna attraversando paesi di capanne, case di fango con aie starnazzanti e ragazze che intrecciano fili colorati.
Rubiamo informazioni ai compagni di viaggio; tra il traballio continuo e i colpi di tosse causati dalle nuvole di polvere che alziamo al nostro passaggio rombante, il nome Punilla è ripetuto più volte. Noi lo prendiamo per buono. Le donne con i bimbi racchiusi, come preziosi gioielli, in un fardello legato alla schiena, prenotano fermate prossime al deserto di alta quota. A perdita d’occhio il nulla, nient’altro che vuoto, ma non appena toccano terra vanno in quel silenzio popolando l’orizzonte di vivi colori.
Giunti alla misteriosa meta saltiamo a terra, salutiamo i compagni di viaggio e una bimba minuscola ci saluta sbracciando animatamente: gli occhi sono lampi luminosi, un sorriso di Dea…un volto indimenticabile.
Lampi. Negli occhi infiammati di una bimba quechua tutto si legge e nulla si risolve. Una capanna discosta di poco dalla strada funge da negozio e da ufficio postale. Acquistiamo acqua purificata e il gestore ci indica la strada per Chataquilla, da dove diparte il sentiero dell’Inka.
Percorriamo otto chilometri su di una strada polverosa che sale in larghe voltoline, attraversiamo piccoli terrazzamenti coltivati e radi boschi. A tratti la nebbia montana nasconde la vista intorno.
Chataquilla si materializza dopo l’ennesima curva in salita: una chiesa di sasso, alcune costruzioni diroccate ed enormi massi erratici su cui spiccano frasi rivoluzionarie, lettere enormi che inneggiano la libertà e i diritti dei contadini.
Non lontano dalla chiesa individuiamo il sentiero che scende nella valle adiacente. Intorno a noi un circo di montagne e verdi colline degradanti verso le strette valli.
Il vecchio sentiero riporta ancora in alcuni tratti i segni dell’antica pavimentazione e scende tagliando parallelamente le tormentate colline, in alcuni punti le pareti franose hanno formato una raccolta di sedimenti e siamo obbligati a lunghe deviazioni.
In lontananza le silhouette delle creste montagnose si rispecchiano all’infinito le une nelle altre, identiche nei colori e nelle tribolate evoluzioni dei picchi rocciosi.
Ad un bivio sostiamo un attimo in attesa di decidere la direzione. La voce lontana di un pastore ci indica la strada e scioglie l’imbarazzo del dubbio.
Lentamente scendiamo nella valle seguendo l’antico sentiero destinato a scomparire in un prossimo futuro: le frane, la pioggia e le nevicate lo nasconderanno per sempre.
Scomparirà questo simbolo del movimento - senso dell’andare, pietre levigate che passi e zoccoli d’animali per centinai e centinai d’anni hanno percorso di continuo.
Nella valle intravediamo un paese di poche case ed il sentiero scende decisamente in quella direzione, dovrebbe essere Chaunaca ma la nostra posizione geografica è del tutto immaginaria.
Siamo sulla strada giusta, e rincuorati da alcuni contadini al lavoro nei campi che si sbracciano premurosi.
Un codazzo di cani annuncia rumorosamente la nostra presenza, case e capanne risuonano di rumori domestici, l’aria odora di legno bruciato.
Il passo è lento, quella lentezza di chi vorrebbe essere invisibile per non disturbare nessuno e poter osservare in pace quel mondo in fondo ad una valle, così simile ai nostri paesi eppure così diverso nei modi, nei riti e nei ritmi.
Proseguiamo oltre il paese e incontriamo il fiume.
Un contadino ci concede il permesso di piantare la tenda vicino alla sua terra, con un largo sorriso invita a fermarci, e così con la splendida vista del fiume impetuoso di fronte inventiamo una cena a lume di candela.
Grilli e tremule luci dalle piccole case. I figli del contadino ci osservano da lontano timidamente, poi è solo notte e acqua che scorre.
Il giorno rischiara l’interno della tenda, il sole lentamente asciuga la condensa e l’umido della notte; mentre siamo intenti a smontare il nostro ricovero notturno il contadino ci raggiunge.
Scambiamo poche parole; l’uomo mescola lo spagnolo ad un dialetto intraducibile, a titolo di ringraziamento gli porgo il sacchetto di foglie di coca che porto sempre con me, il gesto è molto apprezzato ma anche molto confidenziale. Il campesino sorride incredulo visibilmente colpito da quel gesto amichevole e da una sacca legata in vita estrae due frutti di avocado, ricambiando il nostro dono con la sua colazione.
I gesti di saluto si ripetono all’infinito mentre l’uomo sale le colline per dirigersi in un luogo imprecisato dell’immenso scenario.
I teli della tenda sono allargati a terra ed il sole li asciuga in poco tempo; ci incamminiamo anche noi in un punto imprecisato del mondo.
Il paese risvegliato al completo riprende le forme di vita millenarie. Ad un rappresentante di quel pezzo di mondo dimenticato, proviamo a chiedere notizie di un sentiero alternativo per il ritorno.
Notizie incerte prevedono il passaggio di un camion per Sucre, l’orario è top secret, la direzione ugualmente.
Iniziamo un’attesa lunghissima rincuorati dalla presenza di altre persone del paese che portano sacchi e ceste vicino alla strada mentre il sole sale di posizione e di intensità.
Dopo tre ore un barrito ferroso scuote l’attesa.
Un ciborio su ruote avanza pigramente oltrepassando buche e voragini della strada, ci aiutano a salire e poi aiutiamo altri nell’impresa di caricare pacchi, sacchi, ceste e i nostri zaini.
Il viaggio si rivela lungo e incredibile, rimarcando la rara abilità dell’uomo a convivere insieme ad altri uomini: stipati, stretti, quasi coperti da fascine e legni raccolti lungo la strada, le soste accolgono altri viandanti e cumuli di frutta e verdura per i mercati delle valli lontane.
Sucre – Tarabuco. Il villaggio di Tarabuco deve la sua fama al mercato settimanale, uno dei più famosi del Sud America.
Risalendo e scendendo l’ultimo rilievo osserviamo la valle dall'alto, il mio vicino loquace racconta un episodio storico di cui va molto fiero: - Ritorno a casa per le ferie – mi dice - io lavoro a La Paz ma i miei genitori sono rimasti nella loro casa, laggiù vicino alla chiesa. Nel 1816 in questo villaggio si combatté una battaglia importante; tutte le persone parteciparono alla difesa del paese e fu una donna a comandare quelle truppe improvvisate contro le forze spagnole. Si chiamava Dona Juana Azurduy de Padilla. Padilla era il suo paese di origine, si racconta che avesse un coraggio incredibile ed un astuzia da vera stratega militare. Pensa ad un esercito di straccioni e contadini. Nel mese di Marzo, la battaglia di Jumbati viene ricordata con feste e processioni. Il popolo quechua è ancora molto fiero di quel ricordo -.
L’arrivo per noi è meno glorioso, la nostra schiena è provata dalle buche del tragitto e la sera scende lentamente, lasciandoci solo il tempo di cercare un buco per dormire.
Nella piazza centrale sorge la chiesa del paese e tutto intorno è un via vai continuo di camion e carri: indios di altri villaggi giungono in paese per vendere al mercato di domani mattina.
Masticando coca passano curvi davanti alla chiesa - si fanno il segno della croce e poi scompaiono portandosi dietro ombre di stracci.
Gli specchi di Tarabuco.
La piazza e le vie laterali lentamente vanno popolandosi, lungo le strade e i sentieri giungono indios con ponchos colorati e cappelli di fogge diverse.
Domenica di mercato e cerimonie religiose: un piccolo corteo porta in processione una croce e animali di legno scolpito, il passo è lento e cerimonioso.
L’aria risuona di contrattazioni e dei canti di devozione della Domenica delle Palme mentre i camion continuano a scaricare gruppi di persone.
La folla si riflette negli specchi di Tarabuco; gli specchi appesi nelle povere case contadine e dagli usci spalancati provengono riflessi di colori che transitano nelle stanze spoglie.
Cumuli di mercanzie contrastano con l’artigianato destinato ai turisti; ciuffi di pelo di lama tinto e le sculture della Pacha Mama sbucano da mucchi di oggetti votivi: sassi, polveri misteriose, feti di vigogne in albanelle di formalina.
Restiamo increduli alla notizia di quante ore impiegheremo per raggiungere Cochabamba: dodici ore con un autobus di linea per coprire trecentoquaranta chilometri, sembra impossibile sulla carta ma non lo sarà nella realtà.
La strada non asfaltata costeggia dirupi senza fondo. L’eccessiva disinvoltura nel modo di guidare rende il tragitto una scommessa con la morte e la scelta della corsa notturna è un ottimo modo per comprendere, solo a metà, quello che si rischia.
Cochabamba.
Strade polverose e case in perenne costruzione.
La periferia vive lungo la strada principale, immersa nella frenesia del traffico e spesso si incontrano cumuli di yeso al ciglio delle strade con i lavoranti che riempiono i sacchi, sommersi da una nuvola di cipria: il gesso in questa zona è una risorsa economica rilevante.
La strada punta direttamente la Cordigliera Serrada. Risalendo l’ultimo dosso la visione è totale: la valle di Cochabamba appare enorme, e le verdissime colline portano in rilievo le piaghe di terra argillosa, i rilievi erosi dalle piogge appaiono come sezionati, sotto osservazione, anatomizzati nella ricerca di risposte universali.
Il mercato campesino è in assoluto il mercato più autentico sino ad oggi incontrato: la frutta e la verdura si perdono nei mille colori di abiti e stoffe sventolanti.
La visione induce ad una rappresentazione pittorica e così tento di memorizzarne i colori: un vortice di colori striati di bianco, il verde scuro, un terra di Siena, una grandine di piccole macchie gialle e arancio e poi alcune screziature più scure che abbozzano i visi, grigie sagome di cani che gironzolano, e per finire la netta striscia colorata di blu cobalto del cielo.
Oruro.
La città sorge addossata ai confini con il Cile e l’Argentina. Paragonare la città alla Beirut o alla Kabul di turno è quanto di più banale si possa fare, ma è nello stesso tempo la prima cosa che salta alla memoria.
La gloriosa città del carnevale boliviano, la così detta Diablada, in questi periodi morti mostra un aspetto trasandato, diroccata in cumuli di detriti e macerie polverose.
Sostiamo in una taverna per una zuppa, il mate di coca ed una birra.
Attraverso i vetri maculati da unti ancestrali, osservo la polvere della strada alzarsi nell’aria secca e soffrire nell’indecisione della ricaduta.
Osservo, attraverso tende rammendate che negano l’esistenza di acqua e sapone, uno spicchio del mondo esterno: piedi scalzi, zampe di muli e ombre rotolanti di ogni mezzo di trasporto possibile.
Deviando dalla strada principale un sentiero sterrato costeggia il precipizio sulla valle, ad oltre quattromila metri gli autobus manovrano con difficoltà sulla strada stretta.
A tratti i passeggeri scendono e il mezzo manovra nelle strette curve, al limite del ribaltamento.
Sul ciglio della strada osservo bimbi immobili: il logoro cappello sventola smosso dal turbine polveroso, lo sguardo è fisso, tutto intorno le creste della cordigliera si susseguono addolcite da vallate senza fine.
Il grande altopiano di polvere annuncia il ritorno ad Oruro. Scesa la sera, intorno ai binari della stazione ferroviaria, viene allestito un mercato all’aperto e nella penombra scintillano lumi a petrolio e fioche lampadine.
Ideal.
Non c’è pace all’alloggiamento Ideal. Quale ironia della sorte è il suo nome - alle sette di mattina le fragorose omelie di radioline a tutto volume riempiono le strade. Urli e strepiti, preghiere di ambulanti, il caos si è dato appuntamento sotto la nostra finestra.
Sorrido pensando a questa folle città: cani smunti che girellano con torsioni di paura, specchi in frantumi che riflettono frantumazioni più profonde, calendari ingialliti di pinups svestite, cigolii di porte che non si aprono mai completamente e dai rubinetti fuoriesce acqua salata.
Partenza per La Paz.
L’altopiano che precede La Paz sembra non avere fine.
Da lontano scorgiamo il monte Illimani, inconfondibile con le sue tre vette raccolte a più di seimila metri; siamo stupiti perché di fronte a noi non si scorge ancora nessuna città. Continuiamo ad avanzare ed ecco che la valle si apre e lo spettacolo lascia muti. Quattrocento metri sotto di noi vediamo la città ed è come osservare la caldera di un grande vulcano: le pareti scendono ripide arginate da una teoria di casupole di fango e mattoni.
La città si estende verso l’alto come a ricercare l’ossigeno.
Le strade che si inoltrano nei quartieri alti sono piste di fango, polvere e sassi. Case appena accennate sorgono non ancora con una fisionomia certa, e sono ben poca gloria per una città definita “ la più alta capitale del mondo”.
Planiamo nel cuore caotico del centro: gli alti grattacieli, sorgono schiaffeggiando di modernità la popolazione indios.
I titoli dei giornali indicano: Bolivia, un paese in assedio. Troviamo una città militarizzata a causa delle manifestazioni degli insegnanti rurali. Assistiamo all’arresto serale degli esponenti del sindacato scuola. Intorno a noi stendardi, cartelli di protesta, il continuo esplodere di mortaretti, i canti di libertà, gli slogan urlati e un vociare funebre di sottofondo. I militari armati assistono nervosi. Ben presto riusciamo a capirne di più e seguiamo un po’ discosti la manifestazione, la presenza straniera in queste circostanze non è accolta molto bene.
Il governo boliviano non tiene presente i bisogni delle minoranze sociali e linguistiche, tende a privatizzare le scuole e incentivare gli istituti scolastici nei grossi agglomerati, bocciando di fatto i progetti didattici delle scuole rurali, per altro di buonissimo livello.
Questa situazione porta a scioperi ed arresti.
Pensare che il sessanta per cento della popolazione è india, il trentacinque mestiza, l’uno per cento africana e solo il quattro per cento è formata da discendenti delle famiglie europee e non: tedeschi, spagnoli, indiani, giapponesi e criminali nazisti.
Tiahuanaco.
L’alba non si è ancora instaurata in cielo e noi siamo alla ricerca di un mezzo pubblico per le rovine di Tiahuanaco.
Nella parte alta di La Paz, vicino al cimitero, ronziamo alla ricerca di informazioni seguendo code interminabili agli sportelli ancora sbarrati delle compagnie di trasporto.
Abbiamo la netta impressione che sarà impossibile trovare posto, gli autobus a lunga e media percorrenza sono stipati dagli abitanti dei villaggi sperduti che sorgono da qui al lago Titicaca.
Il sito archeologico Incaico appare irraggiungibile e optiamo per una ricerca di gruppo con alcuni stranieri che gironzolano spaesati. Formiamo una piccola compagnia così assortita: un ragazzo australiano, una coppia brasiliana e due svizzeri, tutti sguinzagliati alla ricerca di un micro o un taxi.
Dopo vari tentativi l’impresa riesce ed eccoci imbarcati su di una macchina scassata: tre davanti, tre dietro e uno nel bagagliaio.
L’autista decide di percorrere una strada secondaria, cercando così di evitare i posti di blocco e di pedaggio.
La scorciatoia è un campo lunare, le fosse e le fenditure del terreno alzano la polvere che si deposita sulle pareti delle case di fango. Attraversiamo poveri quartieri appollaiati contro pareti di roccia quasi verticale.
Impieghiamo due ore per coprire settantaquattro chilometri: la strada sull’altopiano corre protetta dalla barriera altissima di monti innevati, i paesi di fango appaiono come dadi marroni abbandonati sopra il tessuto giallo di un enorme tavolo da gioco.
E poi polvere, polvere e ancora polvere.
Le rovine distano un chilometro dal paese: dell’originaria città cerimoniale dell’Impero Inca resta ben poco da vedere e molto da immaginare. L’antica piramide è quasi del tutto scomparsa e le pietre sono state utilizzate per costruire la chiesa del paese, alcuni monoliti scolpiti con figure umane restano visibili e si innalzano dal pianoro contrastando il cielo azzurro e profondo.
Di chiara lettura è il luogo sacro/astronomico della città: la piattaforma che misura cento metri quadrati è protetta da un muro di pietre squadrate da cui fuoriescono visi scolpiti, allegorie di teste guerriere e animali mitologici. Il luogo sacro è caratterizzato dalla Porta del Sole e gli antichi astronomi Incas utilizzavano la struttura come un calendario di pietra, e sono ancora visibili gli altari per le offerte.
All’epoca della costruzione della città, nel Settecento A.C., le acque del lago Titicaca lambivano i templi posti a nord.
Oggi il lago è a trenta chilometri di distanza e tutto intorno è una pianura d’erba con i monti all’orizzonte.
Inspiro la pace dopo la confusione di La Paz.
Il ritorno in città è sonnacchioso ed è tutto congelato in una calma non sperata, scopriremo ben presto che siamo capitati durante i tre giorni di festa della Settimana Santa.
Fiori della Pasqua. I pellegrini a piedi giungono in città. Le donne aymara salgono le strade di La Paz con la bombetta in testa e ì sacchi colorati sulla schiena.
Andiamo con un mezzo pubblico a Villa San Antonio, uno dei villaggi-quartiere posti in alto rispetto alla conca della città, regno di eterni lavori in corso, discariche a cielo aperto e resti di archeologia industrial-popolare.
Da un punto panoramico ci godiamo il tramonto e spiamo l’enorme cratere di La Paz. L’Illimani sorge così vicino che sembra poter toccare il candido velo dei suoi ghiacciai.
La luna si è alternata al sole con una velocità incredibile; rientriamo a piedi in città, lentamente scendiamo verso quel mare di case in basso che si illuminano quasi per magia nei ritmi serali.
Fiochi lumini in un corpo di cemento e ferro tubo. E’ tutto disteso in un’aria rarefatta e a questa altitudine le stelle appaiono come fori precisi, perforazioni da cui fuoriesce la luce di un sole lontanissimo.
…le luci sono incastonate nella notte profonda. Diademi di pietre e fango che riflettono le stelle.
Partenza per il lago Titicaca.
Il lago appare come un grande mare interno e scendendo verso Copacabana la valle si allarga. Il villaggio è un agglomerato sfocato dalla distanza, due picchi rocciosi si innalzano quasi a protezione delle case: il Cerro Nino e il Cerro Calvario.
La gente è in festa. La spiaggia è colma di persone che si disputano gli ultimi posti sui barconi che salpano per le rive opposte.
L’arenile è tramutato in un luogo da fiera di paese: banchi gastronomici, carretti di gelatai, venditori di pop corn dolci, l’aria è condita da urla e incitamenti continui.
Saliamo il Cerro Calvario seguendo una fila ininterrotta di pellegrini.
L’ascesa è un susseguirsi di stazioni della via crucis e di indovini che colano piombo fuso dentro bacinelle colme d’acqua: il piombo raffreddandosi si modella in forme astratte e grumose. Il responso avviene leggendo significati misteriosi nelle casuali solidificazioni del materiale.
Il sentiero a tratti diviene pianeggiante in piccoli terrazzamenti dove preti, stregoni ed indovini praticano sedute private di preghiere e invocazioni.
Altari di diverse origini divengono sede di percorsi liberatori. Alcune famiglie al completo seguono i mediatori religiosi che ruotano attorno alle croci, o a semplici sassi appena scolpiti: i bambini afferrano saldamente le mani dei genitori e seguono un percorso regolato dall’avanzare e dalle improvvise soste dello sciamano.
L’intermediario si riempie la bocca di birra, la spruzza direttamente dalle labbra sopra i fiori o i ceri accesi, gorgogliando preghiere.
Nella scalinata che precede la vetta, sono appesi feticci e oggetti che materializzano le speranze dei fedeli: piccoli camion di plastica, automobiline, mazzi di soldi finti, miniature di case. La vetta, oltre quattromila metri, è preda di estasi e ubriacature: ceri votivi, cumuli di bottiglie e altari anneriti.
I bòli di foglie di coca masticata punteggiano le pietre sacre.
Religioni unite, stravolte, rivoluzionate. Le risate scomposte mescolano ilarità alcoliche all’effetto dell’altitudine. Il Titicaca si disperde in lontananza disgregando i contorni di acqua e cielo in un unico fremere di evaporazioni.
L’orizzonte è liquefatto da una lente appannata.
Yama Pata Trek.
Da Copacabana l’antico sentiero inca attraversa i villaggi e raggiunge Yamap dove con una barca dirigiamo per L’isla del Sol. Il sentiero in tre ore e mezzo ci ha allontanato dal caos festaiolo della città: lentamente lasciamo dietro di noi i clacson invadenti e i tubi di scappamento.
Il vecchio rematore ci traghetta in trenta minuti all’isola del Sole: mastica una manciata di foglie di coca e rema, rema e tossisce insistentemente, tossisce e sorride. Il sorriso si amplifica quando gli regalo un sacchetto di foglie di coca; ci organizziamo per la data del ritorno.
In un silenzio irreale la mia mente segue la melodia dello sciabordare dell’acqua.
Sistemiamo la tenda di fronte alla Porta del Sole: il sito archeologico è vicino ai campi coltivati e le pietre incaiche si uniscono ai muretti di sostegno. In lontananza, sulla linea precisa dell’est geografico, sorge la catena innevata dello Llampu.
Ci incamminiamo alla scoperta dell’isola, ed avviene un miracolo: è in corso una cerimonia che risale all’epoca incaica, ed ora fa parte delle celebrazioni pasquali. Un piccolo corteo di uomini suonano flauti di legno e procedono di casa in casa, attirando all’esterno intere famiglie: dalle case fuoriescono uomini e donne con pannocchie di mais legate alla schiena. Le donne indossano abiti coloratissimi e la folla, risvegliata per magia dalle note musicali, si incammina verso un grande pianoro nella parte alta del villaggio di Yamani.
Riuniti nel luogo della cerimonia iniziano un ballo ritmato da grancasse e tamburi - il canto aymara narra di storie primordiali e speranze di buoni raccolti.
Il Titicaca fa da sfondo alle sagome danzanti con il blu profondo del suo manto increspato.
Restiamo muti e increduli, in una posizione discosta, per non disturbare con la nostra presenza. Sebastian, un anziano del gruppo, si avvicina e ci invita a partecipare: seduti a terra hanno formato due file parallele, una di uomini ed una di donne, gli uni di fronte a gli altri distanziati di un metro.
La musica accompagna lo scambio di doni: foglie di coca, bottiglie di chicha, frutta, sigarette. E’ un continuo masticare, fumare e bere. Luly è con le donne di fronte a me, vicino a mamite enormi vestite a festa che indossano cappelli simili alle bombette: le donne curiose la omaggiano di continui complimenti in un dialetto incomprensibile.
Tento di destreggiarmi onorevolmente tra un rifiuto e una bevuta, una presa di coca ed una sigaretta; non voglio offendere nessuno, ma la bottiglia che passa di bocca in bocca mi crea un po’ di apprensione. Il mio pacchetto di Camel entra a far parte dei regali di gruppo.
L’incredulità insegue la commozione e non riesco ad aggiungere altro.
Notte.
La luna piena rischiara, con tonalità d’onice, la costa e l’Isola della Luna di fronte a noi - il silenzio è illuminato da chiarori impalpabili. Vicino alle pietre antiche l’aria si fa di un magnetico tepore.
Alba.
L’alba trasporta uccelli curiosi sopra la tenda. Un fremere sospettoso attorno a un oggetto ignoto di alieni occidentali.
All’orizzonte avanza lentamente la barca con il nostro traghettatore. Nel ritorno incontriamo sulla riva due contadini che trasportano sacchi d’erba e patate, ci prestiamo per portare il loro raccolto in paese, la gioia dei due è immensa perché ora possono raddoppiare il guadagno della giornata. Salutiamo l’anziano rematore e sulla strada restiamo in attesa di un mezzo per la città.
Nel pianale di un furgoncino, stipati tra pesce secco e contenitori di latte, osserviamo transitare i villaggi e le greggi di lama isolati. Le canoe di totora, la canna di lago, prendono il largo per la pesca.
A Copacabana attendiamo la partenza del bus per La Paz. L’autista decide misteriosamente di percorrere una strada secondaria. Questa scelta ci sarà fatale. La strada alternativa è stretta e polverosa, accidentata sino all’impraticabilità, a metà del percorso si trasforma in un acquitrino fangoso.
Dopo una curva di fronte a noi si presenta uno spettacolo desolante: un’auto impantanata blocca la strada e poco oltre un autobus di linea è inclinato su due ruote: appoggia contro un terrapieno, e nei campi intorno i passeggeri bivaccano contenti dello scampato pericolo.
A me resta solo una domanda: ed ora?
Come accade in tutte le parti del mondo ognuno ha un’idea, alcuni ipotizzano la soluzione e si architettano fantasiose teorie di leve e argani, di piani inclinati e forza di braccia. Quest’ultima appare la più probabile. I caballeros sono invitati a raddrizzare la corriera e così inizia la tragicommedia. Ci trasformiamo in formiche operaie: trasportiamo sassi, scaviamo il fango e puntellati sulle gambe tentiamo di rizzare quel cassone di ferro arrugginito. Non so per quale miracolo della natura dopo un’ora e mezzo riusciamo nell’intento. Arriviamo a La Paz che è notte inoltrata.
Sala giochi di La Paz.
Schiene contro schiene. Stanza quadrata, squallida e rumorosa. Bip e pop di videogames. Schiene contro schiene. Spazio angusto di una sala giochi. Schiene contro schiene. Dentro mostri – visori. Come unico scopo resistere. Schiene contro schiene. Rimanere in vita il più possibile. Sopravvivere. Lo schema elettronico rispecchia la vita. Sopravvivere al gioco. Piedi scalzi e raggi laser.
Partiamo per l’Amazzonia boliviana, diretti a Rurrenabaque. Saliamo la Cordigliera Real: la vista spazia tra valli e picchi innevati, i monti di rocce nere contrastano i ghiacciai accecanti. Scendendo verso le yungas, le terre coltivate, i posti di blocco si susseguono e i controlli si fanno minuziosi.
La strada scende, da quattromila metri, e raggiunge il bacino amazzonico a duecento metri sul livello del mare.
La pioggia ci accompagna tutta la notte. Le ripide strade sono cornici di terra battuta accanto a precipizi vertiginosi.
Gli autisti preferiscono la notte perché riescono a vedere le luci dei mezzi che risalgono la valle, la strada stretta non permette il transito a due bus contemporaneamente. Buio e folli corse. Arriviamo a Rurre alla dieci di mattina del giorno dopo: pioggia, fango, caldo umido, acqua, rigagnoli, pozze, ed il Rio Beni che scorre trascinando fango e legname.
Capanne di canne, legno e foglie, costruzioni poverissime e alberi in fiore.
Di sera il paese è buio completo, la luce di bazar improvvisati e dei piccoli alimentari illuminano la strada quel poco che basta per non rimanere impantanati nel fango delle strade.
In un piccolo ristorante sul fiume assaggiamo il pescado locale: il giovane cameriere si chiama Chico, lo guardo passare e ripassare tra i tavoli demoliti dall’umido, transita con le ciabatte logore ed una maglia sdrucita.
Chico dell’Amazzonia. Chico minatore. Chico rivoluzionario. Sorti incrociate e futuro incerto. I sogni ronzano attorno alle poche alternative possibili. Destini di sudore e fatica.
La notte si è frantumata in gracidii, canti di uccelli notturni e gorgoglii dei mulinelli. Le canoe di legno come fantasmi notturni discendono il fiume.
Confine di acqua e foresta a due passi dal Perù.
La pioggia è passata e di buon ora andiamo a sfidare il giorno ancora cupo. La nostra destinazione è la selva, tra il rio Beni e il rio Thuici.
La via acquatica si perde nella verde immensità e in tre giorni si può raggiungere Riveralta che dista cinquecento chilometri. Il fiume si attorciglia alla foresta. Oltrepassiamo piccole rapide e tronchi galleggianti, legati assieme e trasportati alle segherie dei paesi in basso. René guida la nostra barca. In due ore raggiungiamo l’approdo: uno spiazzo improvviso dell’argine. Ci togliamo le scarpe per percorrere la prima parte del sentiero, tra pozze e rigagnoli delle ultime piogge. Entriamo nel dedalo della foresta tra alberi enormi e tronchi caduti, suoni di uccelli multicolori e una miriade di rumori privi di soggetto.
René ci spiega l’uso medico di foglie e cortecce: infusi per la diarrea, radici contro le emorragie e per i dolori artritici. Di fronte ad un salto argilloso, il nostro compagno lancia un pezzo di legno nel vuoto, ed improvvisamente due pappagalli prendono il volo sotto di noi; il piumaggio varia dal rosso al giallo, all’azzurro. Disturbati si librano in volo lanciando rumorosi versi di disappunto, altri pappagalli verde smeraldo svolazzano nella valletta sottostante.
In lontananza udiamo un rumore continuo. Il ronzio è misterioso e senza sosta, René affranto scioglie il nostro stupore: -“Sono le multinazionali del legno che disboscano ininterrottamente”.
Distruzione di un paradiso naturale - che disgrega popoli e animali. Il regno è vinto. Il re detronizzato agonizza con una tshirt americana. Le opere naturali sono annientate – trafitte - bruciate. Il mondo ha incrociato l’uomo e ne è rimasto vinto.
I sentieri nella selva restano visibili per poco tempo, tutto è uguale e diverso, i percorsi delle guide sono tracciati misteriosi che solo loro conoscono.
Assaggiamo l’acqua delle liane, dette unghia di gatto, e un liquido lattiginoso che fuoriesce da l’intaglio praticato da René con il machete, -“esiste una pianta simile, ha lo stesso liquido ma è altamente tossica”-.
Incontriamo alcune persone che costruiscono le capanne laboratorio per i biologi stranieri; le case sorgono per controllare e denunciare l’avanzamento dei disboscamenti e le uccisioni indiscriminate degli animali.
Il pranzo di fronte al fiume è pane, sardine e pesche sciroppate. Mangiamo assediati da piccoli insetti che succhiano il nostro sangue.
Il ritorno con il favore della corrente è velocissimo e dietro di noi si affievoliscono i rumori delle motoseghe.
Lasciamo quel misterioso paradiso ad un incerto futuro.
La Paz – Sorata.
Il paese di Sorata è posto alle pendici delle grandi montagne. Acquistiamo provviste per la giornata ed iniziamo l’ascesa al villaggio di Lakatya, un luogo non ben precisato vicino all’Ambra Llampu, un monte di quattromilaottocento metri. Lungo la strada compriamo pezzi di canna da zucchero, ottima per dissetare. Attraversiamo piccoli villaggi sperduti tra le montagne e d’improvviso il cielo si oscura: le nuvole e le nebbie ci avvolgono nella salita, cerchiamo un buon posto per sistemare la tenda prima della notte.
Il buio sopraggiunge velocemente, ceniamo a base di pane e tonno, a tratti la nebbia si infittisce e non riusciamo a scorgere nulla.
All’alba scopriamo di essere alle porte del villaggio di Lakatya. Continuiamo a salire, ed arriviamo ad una cengia dove godiamo uno splendido panorama: la cordigliera è di fronte a noi ed in basso le valli degradano sino al verde delle terre coltivate.
Il mio ginocchio è fuori uso, al ritorno in Italia scoprirò che il menisco è rotto. Decidiamo di scendere a Sorata per la notte. Nel ritorno incontriamo i lama al pascolo; alcuni bambini giocano con noi sul sentiero, un gioco di superamenti e attese, un nascondersi a turno per poi ritrovarci tra risate e sberleffi. Legato ad un ramo gli lasciamo un piccolo tesoro che scopriranno al loro ritorno: un fazzoletto, una penna, un elastico per capelli e caramelle. Un vero tesoro da queste parti.
Gli alti monti tornano a coprirsi di nuvole temporalesche – animali immaginari corrono nel cielo.
Sorata: alloggiamento Residencial.
L’antica casa coloniale è stata trasformata in pensione: balconi trasandati, portali scolpiti, grandi stanze con arredi francesi, spagnoli e grandi specchi opacizzati dal tempo. I quadri alle pareti ripercorrono storie antiche, di generali e schiavi, di navi colme d’argento che solcavano il mare per la lontana Europa.
Il Residencial è quanto resta dell’aristocrazia che in queste montagne sfruttava il popolo contadino; un divano francese, una stampa del Cairo, le balaustre intagliate. Nobili storie e sfruttamento si attorcigliano insieme: la Bolivia perde, con la guerra del Pacifico, gli approdi al mare e tutta la striscia di terra che arriva sino ad Arica. Il Paraguay, con la guerra del Chaco, sottrae alla Bolivia una parte dei territori confinanti, sotto la spinta di multinazionali del petrolio interessate allo sfruttamento di quelle aree. Il Brasile si appropria di una parte del territorio boliviano, una terra ricca di alberi della gomma, con la promessa della costruzione di una linea ferroviaria mai portata a termine. Attualmente i giapponesi aiutano il paese nella costruzione delle strade, per poi imporre i loro mezzi di trasporto al mercato interno.
Non sempre impeccabili sono gli interventi di missioni cattoliche e di progetti organizzati da disparate organizzazioni non governative.
Non esiste un vero aiuto all’autodeterminazione del popolo. Lo sfruttamento minerario del paese avviene con capitali ed interessi stranieri.
Treno La Paz – Arica. Rientriamo in Chile.
La partenza da La Paz è prevista per le sei del mattino, in realtà sino alle otto nulla si muove.
Più che un treno, quello che ci attende, assomiglia ad una corriera su rotaie. Uscire da La Paz è irreale, saliamo tra case ad alveare e strade di mercati, poi il panorama si allarga non appena il Ferrobus si spinge gli oltre quattromila metri dell’altopiano. L’ambiente intorno passa dalla città immensa alle montagne con i campi coltivati a perpendicolo, attraversiamo agglomerati di case rimaste congelate al millecinquecento. Ruderi e ferri arrugginiti divengono miraggi di corazze spagnole, e d’improvviso si stagliano nella piana le costruzioni dell’epoca incaica.
L’altipiano - riarso dal sole - deborda dalla linea di confine dell’orizzonte con miraggi evaporati.
Il sole frigge sulla pelle e le notti sono gelate. I lama e le vigogne pascolano svogliate, i pastori-bambini contemplano passare il treno di ferro lucido. Chico osserva la locomotiva. Sguardi ignoti filtrano per un attimo dai finestrini. Sguardi di bianchi europei che transitano. Chico ha un filo di paglia in bocca, un maglione sgualcito e rammendato più volte, sopra le labbra socchiuse leggo il pensiero inespresso: “Riuscirò mai a prendere il treno per Arica?”.
L’orizzonte è preda della sterminata pianura e dall’improvviso materializzarsi dei vulcani Sajama e Parinacota che si innalzano dall’altopiano.
Sostiamo al confine cileno in una terra di nessuno popolata da militari a cavallo che svolgono le pratiche doganali. Scendiamo dal treno con i bagagli e riparati sotto una tettoia posticcia tiriamo fuori ogni cosa: il controllore è minuzioso, brusco e plateale.
Oltrepassato il confine si para davanti l’ennesima piana desertica. Lentamente scendiamo nella direzione della costa. Ritrovarsi al livello del mare non sarà uno scherzo; il nostro sistema circolatorio è messo a dura prova, i globuli rossi stanno impazzendo e la testa ronza lievemente.
Alle otto di sera arriviamo ad Arica.
La terra si è rivoltata in dodici ore di viaggio, si è completamente trasformata in un altro mondo. Le luci nella notte rischiarano giardini, negozi, il passeggio vacanziero in un ordine disciplinato di minigonne di fronte a bar e supermercati. Un ritorno dal mondo del nulla. Il viaggio in una macchina del tempo.
Sono lontani i mercati coloratissimi, altri sapori della vita, lontani quanto i sorrisi che parlano in silenzio. La gola è stretta come il nodo per legare un bimbo alla schiena. L’unico miracolo è l’odore del mare.
Arica.
La valle di Azapa, non lontano dalla città, deve la sua fama ai petroglifi tracciati sopra dune di sabbia e sassi. Saliamo le riarse colline tra pietre che delineano lama giganti, danzatori e animali mitologici. Il caldo è di una intensità pungente. Chiediamo un passaggio ad un camioncino per il villaggio di San Miguel de Azapa. Nel museo del villaggio sono custoditi oggetti appartenuti alle popolazioni vissute nell’area tra la precordigliera ed il mare. Date le scarse precipitazioni i reperti sono conservati molto bene: manufatti risalenti al tremila A.C., alcuni appartenenti all’epoca inca, altri ancora presentano influssi artistici della Tiwanacho boliviana. Due mummie datate duemila anni a.C. sono composte in posizione fetale e indossano ancora brandelli di abiti.
Arica – Parco del Lauca.
Ripartiamo diretti al lago Chungarà nella Cordigliera Real. In bus, da Arica, procediamo lentamente per aiutare il corpo ad abituarsi all’altitudine, nonostante questo alcuni passeggeri hanno bisogno della bombola di ossigeno.
L’ambiente ritorna ad essere quello dell’altipiano: cactus a candelabro, greggi di lama, vigogne e alpaca. Ad una sosta seguiamo il consiglio di acquistare il mate di coca, l’infuso aiuta l’ambientamento in altitudine.
Scendiamo al lago. Di fronte a noi il Parinacota con i suoi seimilaquattrocento metri sovrasta ogni cosa; è Domenica ed il rifugio del parco è chiuso, non si vede anima viva in giro e decidiamo di mettere la tenda in una piazzola munita di un muretto frangi vento. La strada in basso costeggia il lago e punta direttamente il passo Tambo Quemado che segna il confine con la Bolivia. L’effetto della salita da Arica, zero metri sul mare, sino a qui, quattromilacinquecento metri, si traduce in uno stordimento lunare e difficoltà nella messa a fuoco.
Il sole cala e la temperatura si abbassa brutalmente. Il tramonto ci ipnotizza mentre chini sul fornello da campeggio sciogliamo una pastina liofilizzata di asparagi.
Il tè mattutino riscalda le ossa. L’acqua delle borracce è ghiacciata e così pure quella del lago. Seguiamo sentieri che salgono colline e pietraie in un ambiente severissimo, rasentiamo lingue di lava scura solidificata a più di cinquemila metri. La cima innevata del Parinacota veglia su ogni cosa: lagune popolate da uccelli, piccole pozze multicolori, voli di fenicotteri rosa e il silenzio primordiale.
Siamo in attesa di un mezzo per il ritorno ad Arica. Nella vastità desolata arriva Francisca. La ragazza boliviana con la figlia Wilma si materializzano d’incanto sbucando dal nulla intorno, Francisca intreccia sciarpe e cappelli di lana d’alpaca per venderli ai viaggiatori che sostano al lago.
La ragazza ci chiede da dove veniamo e quante ore di autobus occorrono per raggiungere l’Italia.
Alle due del pomeriggio fa ingresso nella nostra visuale un furgone, tiro un sospiro di sollievo riconoscendo l’autista dell’andata.
Insieme a Francisca, Wilma ed un gruppo di turisti cileni partiamo per il paese di Parinacota. Una chiesa, la scuola con undici alunni e le case di sasso, in tutto tre famiglie stabili. La seconda tappa è Putre, l’ennesimo villaggio sperduto, entriamo in paese durante una cerimonia religiosa mentre il corteo con le croci addobbate di fiori e carta, percorre la strada che porta alla collina incombente sull’agglomerato di case.
Le preghiere per un buon raccolto si perdono tra le nebbie.
Arica – Santiago.
Tutto è pronto. Trenta ore di viaggio per il ritorno.
Isla Negra: la casa di Pablo Neruda è di fronte al mare e dalle finestre lo sguardo si perde tra le onde. Di fronte all’oceano i ricordi congelati del poeta danno tono ad un paese che si rincorre.
Incredulo leggo sul giornale: In Cile firmato l’accordo per la parificazione legale e l’inserimento nella costituzione del principio che sancisce l’uguaglianza tra uomo e donna. In una foto della seconda pagina Pinochet saluta la nazione invitato all’inaugurazione della stagione teatrale. Un piccolo trafiletto riporta la notizia dell’arresto di sei uomini Mapuche durante una manifestazione per i diritti degli indigeni.
Alla notizia degli indios arrestati mi ritorna alla mente una poesia di Pablo Neruda: Potranno tagliare tutti i fiori ma non riusciranno a fermare la primavera.
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