Odoro i popoli migranti. I profumi si mescolano in un aroma adatto all’arte culinaria di un cuoco universale. Il pesto genovese unito al glicine, il patchuly al dopobarba dozzinale, la lavanda del Col di Nava al profumo d’ambra.
Ascolto i passi del popolo migrante scalpitare per mutamenti di percorso, improvvisamente incespicano nella moquette dell’aeroporto. Al suono di dialetti e lingue diverse, le gambe stanche accennano passi di danza per riacquistare l’equilibrio.
Osservo telefoni cellulari e corni portafortuna di plastica rossa. Madonnine d’oro e bip elettronici, abiti felpati e sari leggerissimi. Ambienti futuribili e terribili zoppie. Origini smarrite nel frullatore dello spazio migrante in movimento.
L’arrivo a Cuba presenta il confuso impatto di una terra apparsa all’improvviso. Tre e trenta del mattino; dopo sette ore di ritardo, essere stonati rientra nella norma. La “mordida”, arrischiata dai responsabili dell’immigrazione, spinge ad un risveglio repentino, per fortuna non ci coinvolge. Cambiamo la fila del controllo passaporti salvandoci in extremis dalle prime tasse non legali. L’aria è umida, calda e piovigginosa. Accettiamo un’offerta d’alloggio, interessante come prezzo, compreso il trasporto in città con un taxi. Aima è il primo incontro cubano: è un’affittacamere regolare che si presta per accompagnarci da un suo amico, nella zona del Vedado. Da questo momento la velocità classica dei viaggi prende la mano. Continua a piovere. Nel buio totale le strade lucide si susseguono, dall’auto le immagini esterne scorrono veloci colpite dai fanali e dai rari lampioni. Le case appaiono in rilievo, deformate dalle gocce di pioggia esplose sopra i vetri dell’auto. “Il corpo reale”, sommariamente intravisto, prende lentamente forma e il suono delle parole straniere mi fa sentire finalmente in viaggio.
Ascolto i passi del popolo migrante scalpitare per mutamenti di percorso, improvvisamente incespicano nella moquette dell’aeroporto. Al suono di dialetti e lingue diverse, le gambe stanche accennano passi di danza per riacquistare l’equilibrio.
Osservo telefoni cellulari e corni portafortuna di plastica rossa. Madonnine d’oro e bip elettronici, abiti felpati e sari leggerissimi. Ambienti futuribili e terribili zoppie. Origini smarrite nel frullatore dello spazio migrante in movimento.
L’arrivo a Cuba presenta il confuso impatto di una terra apparsa all’improvviso. Tre e trenta del mattino; dopo sette ore di ritardo, essere stonati rientra nella norma. La “mordida”, arrischiata dai responsabili dell’immigrazione, spinge ad un risveglio repentino, per fortuna non ci coinvolge. Cambiamo la fila del controllo passaporti salvandoci in extremis dalle prime tasse non legali. L’aria è umida, calda e piovigginosa. Accettiamo un’offerta d’alloggio, interessante come prezzo, compreso il trasporto in città con un taxi. Aima è il primo incontro cubano: è un’affittacamere regolare che si presta per accompagnarci da un suo amico, nella zona del Vedado. Da questo momento la velocità classica dei viaggi prende la mano. Continua a piovere. Nel buio totale le strade lucide si susseguono, dall’auto le immagini esterne scorrono veloci colpite dai fanali e dai rari lampioni. Le case appaiono in rilievo, deformate dalle gocce di pioggia esplose sopra i vetri dell’auto. “Il corpo reale”, sommariamente intravisto, prende lentamente forma e il suono delle parole straniere mi fa sentire finalmente in viaggio.
Tra poco albeggia - non ho sonno - assaporo l’ultima sigaretta in un terrazzo nel quartiere del Vedado. L’Avana dorme sotto una pioggia calda e leggera. Il velo impalpabile scivola pigramente sopra i tetti diroccati.
Guillén, il padrone di casa, apparso burbero nella notte, al mattino si presenta con due tazzine di porcellana azzurra colme di caffè e un aperto sorriso rifinito da bianchissimi denti - ceselli di madreperla su di un viso abbronzato. Dopo due ore di sonno e la confusione mentale dovuta al fuso orario, mi ritrovo affacciato al balcone della casa. Il mattino sospinge al lento risveglio la città: le imposte si aprono, bimbi in divisa rossa ed altri vestiti in marrone chiaro vanno a scuola. Meccanici improvvisati, impegnati sulle auto spalancate, sono assorti sopra i pezzi di un motore smontato come chirurghi durante un difficile intervento a cuore aperto. La strada si riempie di biciclette, automobili degli anni cinquanta e biblici sidecar. Il primo tributo turistico è per il mare dei Caraibi, così vicino al quartiere che sembra invitare alla risacca. L’argine del malecon, la strada litoranea, separa nettamente la città dal mare. Il secondo appuntamento è per il Centro Artisti, dove incontriamo il responsabile dei rapporti internazionali e fissiamo un colloquio per il nostro ritorno all’Avana. Il Centro Culturale è in buoni rapporti con diverse associazioni straniere che operano con progetti di cooperazione in ambiti sociali e artistici; sono ben accetti tentativi di collaborazione e aiuti materiali. L’embargo ha colpito duramente anche l’espressione artistica. Per le strade della città inizia la persecuzione dei ragazzi locali, guarda caso hanno amici italiani e qualche cosa da vendere. Si prestano per trovare una macchina, i sigari, il rhum o altre mercanzie più o meno legali, inventandosi un sistema di lavoro basato sul guadagno di piccole percentuali. Respingendo offerte disparate andiamo alla ricerca di un bus diretto a Trinidad e Santa Clara; entrambe le città si trovano sul nostro percorso ideale. L’autobus Viaje Azul è ottimale per noi. Pizza, cerveza e si parte. Nuvole basse, caldo umido e a tratti piove. Arriviamo a Santa Clara con il buio e una vecchia automobile americana ci trasporta come in un sogno. L’ingresso in città è accompagnato dall’imbrunire e dai cigolii del motore. Ottima cena al paladar “La terrazza”: i paladar sono piccoli ristoranti a conduzione famigliare. L’intera città è completamente al buio per un improvviso black out.
Penso alle imprese rivoluzionarie di un paese ancora oscuro.
Guillén, il padrone di casa, apparso burbero nella notte, al mattino si presenta con due tazzine di porcellana azzurra colme di caffè e un aperto sorriso rifinito da bianchissimi denti - ceselli di madreperla su di un viso abbronzato. Dopo due ore di sonno e la confusione mentale dovuta al fuso orario, mi ritrovo affacciato al balcone della casa. Il mattino sospinge al lento risveglio la città: le imposte si aprono, bimbi in divisa rossa ed altri vestiti in marrone chiaro vanno a scuola. Meccanici improvvisati, impegnati sulle auto spalancate, sono assorti sopra i pezzi di un motore smontato come chirurghi durante un difficile intervento a cuore aperto. La strada si riempie di biciclette, automobili degli anni cinquanta e biblici sidecar. Il primo tributo turistico è per il mare dei Caraibi, così vicino al quartiere che sembra invitare alla risacca. L’argine del malecon, la strada litoranea, separa nettamente la città dal mare. Il secondo appuntamento è per il Centro Artisti, dove incontriamo il responsabile dei rapporti internazionali e fissiamo un colloquio per il nostro ritorno all’Avana. Il Centro Culturale è in buoni rapporti con diverse associazioni straniere che operano con progetti di cooperazione in ambiti sociali e artistici; sono ben accetti tentativi di collaborazione e aiuti materiali. L’embargo ha colpito duramente anche l’espressione artistica. Per le strade della città inizia la persecuzione dei ragazzi locali, guarda caso hanno amici italiani e qualche cosa da vendere. Si prestano per trovare una macchina, i sigari, il rhum o altre mercanzie più o meno legali, inventandosi un sistema di lavoro basato sul guadagno di piccole percentuali. Respingendo offerte disparate andiamo alla ricerca di un bus diretto a Trinidad e Santa Clara; entrambe le città si trovano sul nostro percorso ideale. L’autobus Viaje Azul è ottimale per noi. Pizza, cerveza e si parte. Nuvole basse, caldo umido e a tratti piove. Arriviamo a Santa Clara con il buio e una vecchia automobile americana ci trasporta come in un sogno. L’ingresso in città è accompagnato dall’imbrunire e dai cigolii del motore. Ottima cena al paladar “La terrazza”: i paladar sono piccoli ristoranti a conduzione famigliare. L’intera città è completamente al buio per un improvviso black out.
Penso alle imprese rivoluzionarie di un paese ancora oscuro.
La speranza è un sogno che può valere la vita stessa, la vita e il futuro. Il tempo ha stratificato sofferenze diverse sopra uomini e donne d’ebano. I bianchi cubani evocano fantasmi europei, dispersi dalla ricerca di fama o dal tarlo della conquista. A Santa Clara esistono ancora i carretti trainati dai cavalli, non certo adatti al tiro; la razza equina come quella umana si trasforma e si adegua alle difficoltà dei territori. Mi ritorna alla mente la teoria darwinista legata all’essenza e ai mutamenti degli esseri viventi rispetto all’ambiente che li circonda. Mi chiedo se davvero le difficoltà ambientali migliorano l’uomo, oppure lo avvicinano pericolosamente alle regole animali. Osservo nel buio della strada le luci di posizione dei carri: sono semplici lampade a petrolio e i gusci traballanti, stipati di persone, rientrano in città dalle terre coltivate a canna da zucchero e chissà da quale altra periferica rotazione del mondo. Nel buio - rumori di zoccoli ferrati. La notte è realmente buia e i cali di tensione elettrica riportano Cuba allo stato primordiale. In queste tenebre rivivono le memorie antiche di popoli originari. I Siboney della costa, i Guanahatabey, di quando Colombo battezzò quest’isola “Juana”, e di come, dopo quasi un secolo, il rivoluzionario Hatuey fu messo al rogo per aver organizzato una rivolta contro gli spagnoli.
Storie sospirate…così lontane da essere dimenticate per sempre.
Terra meticcia, terra d’embargo ed enormi scritte rivoluzionarie: “Fino alla vittoria”, “Ora e sempre resistenza”. Sopra il palazzo della televisione spicca, a caratteri cubitali, la frase: “Nella pace come nella guerra il nostro impegno sarà la comunicazione”. L’onnipresente volto del Che, raffigurato in centinaia di murales, non si mescola ancora con la pubblicità della coca cola americana. A volte sembra d’essere in visita agli stands delle nostre feste politiche di sinistra. Santa Clara tra storia e vita. Penso alle motivazioni che alimentano il popolo migrante europeo in questa parte del mondo: chi è alla ricerca di chicas, altri che vagano alla scoperta di liberi luoghi d’incontro, chi per nostalgia del comunismo o di un sogno, ed altri che tendono alla comprensione di tutto questo.
Essere viaggiatori - in un paese dove tutto è una continua esplosione innescata da fughe di pensiero.
Pedalando nel verde deserto, che per chilometri si estende tra un paese e l’altro, i contadini vanno al lavoro con il cappello di paglia e a torso nudo. Questo periodo dell’anno riserva sole cocente, aria umida ed improvvisi acquazzoni. Le nuvole nere avanzano, rendono tutto in bianco e nero, appaiono basse, quasi raggiungibili con un salto ben calibrato.
E queste case: sedie a dondolo, frigoriferi russi enormi e coloratissimi, piante grasse ben curate e il caffè sempre al fuoco. Queste case aperte, con le imposte prive di vetri; bocche spalancate alle lievi brezze notturne. Case che trasportano all’esterno odori e storie, arredi identici eppure sempre caratterizzati in modi diversi, da un particolare, da un tocco magico a volte: un poster cinese, l’immagine di un santo, le fotografie di famiglia; il tutto esposto come mercanzie di venditori improvvisati. La vita quotidiana trascorre tra case, inferriate e acqua che bolle. Ieri una ragazza cubana mi si è avvicinata e con fare ruffiano mi ha chiesto se stavo aspettando lei. Non aveva più di quindici anni. Mi sono allontanato pensando e sperando che questo non sia, ancora per molto tempo, il prezzo da pagare per le nuove generazioni. L’alloggio di Santa Clara è la casa di un dottore che affitta camere per arrotondare lo stipendio. Converso con la madre anziana e le sue parole sono cadenzate con il ritmo di un ballo lento. Molti sono i ricordi di una Spagna mai vista, profondamente celata nella memoria, e la madre ha nutrito di racconti e d’arte culinaria questa sua figlia. Un respiro da Salamanca nel cuore d’eroina della rivoluzione, - la pensione rivoluzionaria - mi dice - è di ottanta pesos al mese - circa tre dollari. Difficile rispondere alla domanda se questa è vita, sopravvivenza oppure resistenza.
La città ruota attorno al Parque Vidal dove si affaccia il teatro “La Caridad”. In questo teatro nel 1920 cantò Enrico Caruso. Osservando i palazzi intorno e la diversità di visi e di condizioni sociali, mi viene alla mente una descrizione letta nel libro Fitzcarraldo di Werner Herzog. Il popolo scalzo e lacero osservava i ricchi e i padroni, vestiti a festa per l’occasione mondana, sognando di entrare nel Teatro di Manaus, in Amazzonia, per ascoltare un concerto di Caruso:
…Davanti al gigantesco portale sono di guardia due soldati indios, nelle uniformi risalenti alla guerra di liberazione. Nei loro sguardi estraniati c’è ancora l’incanto della foresta…Giunge all’esterno quella tipica mescolanza di mormorio festoso e di orchestra che accorda…Vicino all’ingresso, alcuni curiosi, meticci scalzi…Altri ancora senza scarpe e con pantaloni sbrindellati…Mulatti dei quartieri più poveri…
Storie sospirate…così lontane da essere dimenticate per sempre.
Terra meticcia, terra d’embargo ed enormi scritte rivoluzionarie: “Fino alla vittoria”, “Ora e sempre resistenza”. Sopra il palazzo della televisione spicca, a caratteri cubitali, la frase: “Nella pace come nella guerra il nostro impegno sarà la comunicazione”. L’onnipresente volto del Che, raffigurato in centinaia di murales, non si mescola ancora con la pubblicità della coca cola americana. A volte sembra d’essere in visita agli stands delle nostre feste politiche di sinistra. Santa Clara tra storia e vita. Penso alle motivazioni che alimentano il popolo migrante europeo in questa parte del mondo: chi è alla ricerca di chicas, altri che vagano alla scoperta di liberi luoghi d’incontro, chi per nostalgia del comunismo o di un sogno, ed altri che tendono alla comprensione di tutto questo.
Essere viaggiatori - in un paese dove tutto è una continua esplosione innescata da fughe di pensiero.
Pedalando nel verde deserto, che per chilometri si estende tra un paese e l’altro, i contadini vanno al lavoro con il cappello di paglia e a torso nudo. Questo periodo dell’anno riserva sole cocente, aria umida ed improvvisi acquazzoni. Le nuvole nere avanzano, rendono tutto in bianco e nero, appaiono basse, quasi raggiungibili con un salto ben calibrato.
E queste case: sedie a dondolo, frigoriferi russi enormi e coloratissimi, piante grasse ben curate e il caffè sempre al fuoco. Queste case aperte, con le imposte prive di vetri; bocche spalancate alle lievi brezze notturne. Case che trasportano all’esterno odori e storie, arredi identici eppure sempre caratterizzati in modi diversi, da un particolare, da un tocco magico a volte: un poster cinese, l’immagine di un santo, le fotografie di famiglia; il tutto esposto come mercanzie di venditori improvvisati. La vita quotidiana trascorre tra case, inferriate e acqua che bolle. Ieri una ragazza cubana mi si è avvicinata e con fare ruffiano mi ha chiesto se stavo aspettando lei. Non aveva più di quindici anni. Mi sono allontanato pensando e sperando che questo non sia, ancora per molto tempo, il prezzo da pagare per le nuove generazioni. L’alloggio di Santa Clara è la casa di un dottore che affitta camere per arrotondare lo stipendio. Converso con la madre anziana e le sue parole sono cadenzate con il ritmo di un ballo lento. Molti sono i ricordi di una Spagna mai vista, profondamente celata nella memoria, e la madre ha nutrito di racconti e d’arte culinaria questa sua figlia. Un respiro da Salamanca nel cuore d’eroina della rivoluzione, - la pensione rivoluzionaria - mi dice - è di ottanta pesos al mese - circa tre dollari. Difficile rispondere alla domanda se questa è vita, sopravvivenza oppure resistenza.
La città ruota attorno al Parque Vidal dove si affaccia il teatro “La Caridad”. In questo teatro nel 1920 cantò Enrico Caruso. Osservando i palazzi intorno e la diversità di visi e di condizioni sociali, mi viene alla mente una descrizione letta nel libro Fitzcarraldo di Werner Herzog. Il popolo scalzo e lacero osservava i ricchi e i padroni, vestiti a festa per l’occasione mondana, sognando di entrare nel Teatro di Manaus, in Amazzonia, per ascoltare un concerto di Caruso:
…Davanti al gigantesco portale sono di guardia due soldati indios, nelle uniformi risalenti alla guerra di liberazione. Nei loro sguardi estraniati c’è ancora l’incanto della foresta…Giunge all’esterno quella tipica mescolanza di mormorio festoso e di orchestra che accorda…Vicino all’ingresso, alcuni curiosi, meticci scalzi…Altri ancora senza scarpe e con pantaloni sbrindellati…Mulatti dei quartieri più poveri…
Immagino non molto diversa quella serata del 1920 a Santa Clara, con i signorotti locali e ricchi americani che fuggivano il proibizionismo. Il potere e gli interessi economici affamavano il popolo, in un’epoca di eccessi e soprusi senza limiti. Cuba era il vero territorio di conquista, dove le compagnie statunitensi possedevano due terzi delle tenute agricole e gran parte delle miniere. La parte storica di Santa Clara si sviluppa nei luoghi che portano ancora i segni della rivoluzione. Il Mausoleo del Che, che dal 1997 ne conserva il corpo, è una spianata di cemento ed erba con le stelle in pietra rialzate dal livello della piazza. Il monumento al “Tren blindado” ricorda l’offensiva contro le truppe di Battista; contemporaneamente all’assalto del treno, in altre parti dell’isola si organizzarono attentati e rivolte, era il 1958…io venivo al mondo e qui stava per iniziare la grande rivoluzione. La notte tiene in serbo l’incontro con la dignità incrinata del giovane popolo cubano. Il divertimento che ottenebra e il rhum che suona la testa più di una rumba. L’esagerata voglia di apparire per essere piacevoli; corpi a disposizione del mondo. Si incontrano turisti obesi con ragazze poco più che bambine, donne cubane bianche, creole, nere come africane che vagano di locale in locale, d’angolo in angolo con occhiate che annunciano la prima mossa. Un vortice di corpi che non hanno più nulla da nascondere, e occhi che rispecchiano l’aspra strada scelta a forza. Triste teatro della vita. Bevendo nei bar, mi rendo conto che si può spendere in una serata la pensione mensile di un cubano, semplicemente sorseggiando aperitivi…è follia.
Giornata di trasferimento per Trinidad.
Osvaldo, l’amico autista della famiglia, ci da un passaggio per la stazione dei bus. Osvaldo è fiero della sua macchina pre-rivoluzionaria, e molto vanitoso dei capelli perfettamente tirati all’indietro e impomatati al punto giusto.
Siamo visi in transito osservati di sfuggita. Due stranieri - due dei tanti che passano e leggono parole rimaste sospese…domande stordite dall’acqua di colonia.
Le colline sovrastano Trinidad. La prima vista, della perla coloniale cubana, non tradisce le aspettative. Ceniamo in un paladar in compagnia di un fastidioso cubano un po’ ubriaco e un po’ furbo; riusciamo ad ammansirlo con una birra mentre continua a snocciolare l’elenco delle compagini del calcio italiano.
Il sole caldo dei Caraibi non si placa un momento. La playa Ancon è un paradiso di coralli fossili e alberi di mangrovie. L’acqua del mare possiede tutte le tonalità del blù e l’aria è di un viola elettrico inventato dal sole cocente. Il ritorno in bicicletta è assolato e infernale. I granchi terricoli fuggono sulla strada litoranea. Trinidad, per i cubani, è un fiore all'occhiello. In verità, oltre alle testimonianze storiche della parte coloniale, è la vita vissuta che trasporta nella realtà di questa città; le persone soffrono la compressione della polizia che ha il compito di preservare il gioiello coloniale, almeno nell’apparenza. Il proibito deve accadere in spazi chiusi, nascosti, lontani dall’essere cosa normale; le chicas rischiano la galera se vengono trovate in compagnia di stranieri. C’è tensione nell’aria al tramonto. Intorno ai locali notturni, il buio si allea al proibito e l’intensità degli sguardi è avvisaglia di un safari. Chi è la vittima predestinata?. Ogni antro diventa luogo di caccia, di incontro, un pulpito di richieste varie e fantasiose a volte, ogni angolo è presieduto da oratori diversi che hanno pronti elenchi dei loro mali o dei dolori delle famiglie. Nella folla notturna, ad osservare bene, si scorgono le perle sincere. I falsari sono palesi il più delle volte; si fa parte di un gioco e la vittoria si misura in dollari, né medaglie né coppe. La storia è antica e sempre la stessa: sorrisi, profumi e morte nello stesso momento.
Osvaldo, l’amico autista della famiglia, ci da un passaggio per la stazione dei bus. Osvaldo è fiero della sua macchina pre-rivoluzionaria, e molto vanitoso dei capelli perfettamente tirati all’indietro e impomatati al punto giusto.
Siamo visi in transito osservati di sfuggita. Due stranieri - due dei tanti che passano e leggono parole rimaste sospese…domande stordite dall’acqua di colonia.
Le colline sovrastano Trinidad. La prima vista, della perla coloniale cubana, non tradisce le aspettative. Ceniamo in un paladar in compagnia di un fastidioso cubano un po’ ubriaco e un po’ furbo; riusciamo ad ammansirlo con una birra mentre continua a snocciolare l’elenco delle compagini del calcio italiano.
Il sole caldo dei Caraibi non si placa un momento. La playa Ancon è un paradiso di coralli fossili e alberi di mangrovie. L’acqua del mare possiede tutte le tonalità del blù e l’aria è di un viola elettrico inventato dal sole cocente. Il ritorno in bicicletta è assolato e infernale. I granchi terricoli fuggono sulla strada litoranea. Trinidad, per i cubani, è un fiore all'occhiello. In verità, oltre alle testimonianze storiche della parte coloniale, è la vita vissuta che trasporta nella realtà di questa città; le persone soffrono la compressione della polizia che ha il compito di preservare il gioiello coloniale, almeno nell’apparenza. Il proibito deve accadere in spazi chiusi, nascosti, lontani dall’essere cosa normale; le chicas rischiano la galera se vengono trovate in compagnia di stranieri. C’è tensione nell’aria al tramonto. Intorno ai locali notturni, il buio si allea al proibito e l’intensità degli sguardi è avvisaglia di un safari. Chi è la vittima predestinata?. Ogni antro diventa luogo di caccia, di incontro, un pulpito di richieste varie e fantasiose a volte, ogni angolo è presieduto da oratori diversi che hanno pronti elenchi dei loro mali o dei dolori delle famiglie. Nella folla notturna, ad osservare bene, si scorgono le perle sincere. I falsari sono palesi il più delle volte; si fa parte di un gioco e la vittoria si misura in dollari, né medaglie né coppe. La storia è antica e sempre la stessa: sorrisi, profumi e morte nello stesso momento.
Sogno - realtà - fede politica e perdizione…esplosioni silenziose - vibrazioni telluriche. Un silenzio che frantuma l’acciaio - uno stropiccio costante.
Le storie si accavallano e si attorcigliano in racconti disparati che seguono solo la logica della sopravvivenza. Ed entri in mondi di figli ammalati, matrimoni finiti, mancanza di lavoro, la ricerca di una casa, di cibo, d’idee per il domani; “ma le idee”, ti senti rispondere, “non nutrono la mia vecchia madre”. Dominati e dominanti a loro volta, nei modi di compiere accerchiamenti, sistemare tranelli, preparare imboscate, ma pronti anche ad un pieno sorriso quando scopri i loro trucchi. Rhum per stordire, son per dimenticare; nella musica cubana regna la tristezza ed un sinuoso romanticismo.
Nell’aria un profumo penetrante di sudore. Un misto di aromi floreali non ben riconoscibili. Un profumo che lega – unisce – intrappola. A volte lambisce le narici in velocità - altre volte si fissa nell’aria calda che respiri. L’invisibile filo profumato annoda e concatena situazioni diverse – grovigliosamente a volte - getta la memoria olfattiva in crisi. Quel profumo racchiude tutti gli sguardi - i corpi - e la comica realtà della vita - così semplice e così complicata nel suo procedere. L’aroma intenso dei Caraibi si appiccica addosso. La Casa della Trova è un locale dove è possibile ascoltare la musica dal vivo, si può ballare ed è impossibile non bere la serie di pozioni alcoliche e birre locali. L’ingresso costa un dollaro e pochi cubani possono permettersi di entrare, tutto si paga in dollari e solo chi commercia, traffica o lavora per gli stranieri ha l’opportunità di averne in tasca. Le persone sulla porta di ingresso, militarizzata alla meglio da due guardie in divisa, guardano tristemente chi balla; non possono entrare e accennano passi di danza resa ovvia e scontata da turisti che provano ad imitare corpi flessuosi…che non gli apparteranno mai. Che destino! Si può nascere al di qua, oppure al di là di quella porta della Casa della trova di Trinidad. Per un attimo diventa il riferimento di tutto. Per gioco posiziono quella porta al centro del mondo ed i significati di sorrisi e pianti sono delimitati da quelle assi verticali tinteggiate di blu. Quella barriera definisce il dentro e il fuori, la possibilità o l’impossibilità di stare comodamente seduti a teorizzare del mondo con un margarita ghiacciato in mano. Insieme al vetro del bicchiere mi ritrovo a stringere un sentimento simile alla rabbia.
Le storie si accavallano e si attorcigliano in racconti disparati che seguono solo la logica della sopravvivenza. Ed entri in mondi di figli ammalati, matrimoni finiti, mancanza di lavoro, la ricerca di una casa, di cibo, d’idee per il domani; “ma le idee”, ti senti rispondere, “non nutrono la mia vecchia madre”. Dominati e dominanti a loro volta, nei modi di compiere accerchiamenti, sistemare tranelli, preparare imboscate, ma pronti anche ad un pieno sorriso quando scopri i loro trucchi. Rhum per stordire, son per dimenticare; nella musica cubana regna la tristezza ed un sinuoso romanticismo.
Nell’aria un profumo penetrante di sudore. Un misto di aromi floreali non ben riconoscibili. Un profumo che lega – unisce – intrappola. A volte lambisce le narici in velocità - altre volte si fissa nell’aria calda che respiri. L’invisibile filo profumato annoda e concatena situazioni diverse – grovigliosamente a volte - getta la memoria olfattiva in crisi. Quel profumo racchiude tutti gli sguardi - i corpi - e la comica realtà della vita - così semplice e così complicata nel suo procedere. L’aroma intenso dei Caraibi si appiccica addosso. La Casa della Trova è un locale dove è possibile ascoltare la musica dal vivo, si può ballare ed è impossibile non bere la serie di pozioni alcoliche e birre locali. L’ingresso costa un dollaro e pochi cubani possono permettersi di entrare, tutto si paga in dollari e solo chi commercia, traffica o lavora per gli stranieri ha l’opportunità di averne in tasca. Le persone sulla porta di ingresso, militarizzata alla meglio da due guardie in divisa, guardano tristemente chi balla; non possono entrare e accennano passi di danza resa ovvia e scontata da turisti che provano ad imitare corpi flessuosi…che non gli apparteranno mai. Che destino! Si può nascere al di qua, oppure al di là di quella porta della Casa della trova di Trinidad. Per un attimo diventa il riferimento di tutto. Per gioco posiziono quella porta al centro del mondo ed i significati di sorrisi e pianti sono delimitati da quelle assi verticali tinteggiate di blu. Quella barriera definisce il dentro e il fuori, la possibilità o l’impossibilità di stare comodamente seduti a teorizzare del mondo con un margarita ghiacciato in mano. Insieme al vetro del bicchiere mi ritrovo a stringere un sentimento simile alla rabbia.
Il ventilatore della stanza smuove aria calda. Vortica un pò di sollievo nel braciere del letto. Immagino - questa parte del mondo - come il rotore del marchingegno che ruota e ruota – e non modifica mai la sua posizione nello spazio. Si energizza per un’idea di fresco e non riesce a cambiare posto in questo soffitto di legno.
…partenza alle dieci, a cavallo con Admir, diretti alle cascate di Abira; la grotta ed il getto d’acqua sono incastonati nelle prime propaggini della Sierra d’Escambray. I cavalli sono mansueti e seguono i comandi alla perfezione, diligentemente cambiano il passo dal trotto al galoppo fedeli agli incitamenti. Un grosso problema è la sella dura ed il caldo. La cascata forma un piccolo lago, si nuota immersi in tinte di colore che degradano dall’azzurro intenso al bianco latte, il tutto è sovrastato da una grotta carsica scolpita da concrezioni calcaree a forma di canna, di foglia e a pettine. Admir sale sullo scivolo della cascata e si lascia trasportare dal getto con un tuffo in basso. Il ritorno attraversa le fincas: le piantagioni dove i banani appaiono come soldati di un esercito immobile, appostato di fronte ad un nemico inesistente. Al Ranchero Central incontriamo frotte di turisti a bordo di enormi camion, divorano la visita ed il pasto internazionalizzato in un battere d’occhio. Il rientro a Trinidad è calmo e rilassato, a tratti lanciamo i cavalli al galoppo e la mente ritorna ai cavalieri della rivoluzione nella Sierra Maestra. In realtà attraversiamo la città un pò imbarazzati, trasformati in impacciati pistoleri di Tombstone pronti ad affrontare lo sceriffo. La notte ci porta, o meglio ci trascina, sulla montagna che sovrasta Trinidad, in una grotta naturale trasformata in discoteca. Finiamo la serata in un locale, costruito nelle rovine di una vecchia casa coloniale priva di tetto, direttamente sotto una splendida notte stellata ad ascoltare musica. La musica si fissa nella mente con brani ripetuti in ogni luogo, le hit del momento…e la memoria è aiutata da birra, mojito, daiquiri e rhum.
Dos gardenias para ti
Con ellas quiero decir:
te quiero, te adoro, mi vida
ponle toda tu atencion
porque son tu corazon y el mio…
…partenza alle dieci, a cavallo con Admir, diretti alle cascate di Abira; la grotta ed il getto d’acqua sono incastonati nelle prime propaggini della Sierra d’Escambray. I cavalli sono mansueti e seguono i comandi alla perfezione, diligentemente cambiano il passo dal trotto al galoppo fedeli agli incitamenti. Un grosso problema è la sella dura ed il caldo. La cascata forma un piccolo lago, si nuota immersi in tinte di colore che degradano dall’azzurro intenso al bianco latte, il tutto è sovrastato da una grotta carsica scolpita da concrezioni calcaree a forma di canna, di foglia e a pettine. Admir sale sullo scivolo della cascata e si lascia trasportare dal getto con un tuffo in basso. Il ritorno attraversa le fincas: le piantagioni dove i banani appaiono come soldati di un esercito immobile, appostato di fronte ad un nemico inesistente. Al Ranchero Central incontriamo frotte di turisti a bordo di enormi camion, divorano la visita ed il pasto internazionalizzato in un battere d’occhio. Il rientro a Trinidad è calmo e rilassato, a tratti lanciamo i cavalli al galoppo e la mente ritorna ai cavalieri della rivoluzione nella Sierra Maestra. In realtà attraversiamo la città un pò imbarazzati, trasformati in impacciati pistoleri di Tombstone pronti ad affrontare lo sceriffo. La notte ci porta, o meglio ci trascina, sulla montagna che sovrasta Trinidad, in una grotta naturale trasformata in discoteca. Finiamo la serata in un locale, costruito nelle rovine di una vecchia casa coloniale priva di tetto, direttamente sotto una splendida notte stellata ad ascoltare musica. La musica si fissa nella mente con brani ripetuti in ogni luogo, le hit del momento…e la memoria è aiutata da birra, mojito, daiquiri e rhum.
Dos gardenias para ti
Con ellas quiero decir:
te quiero, te adoro, mi vida
ponle toda tu atencion
porque son tu corazon y el mio…
L’uragano Georges ha lasciato Haiti e si spinge pericolosamente in direzione di Cuba, il suo passaggio è previsto sopra la città di Santiago e le province centrali. La televisione aggiorna la popolazione attraverso bollettini meteorologici e consigli su come affrontare ogni tipo di emergenza. Il paese è allertato e pronto ad ogni evento: le strutture sanitarie, la viabilità ed il reperimento dei viveri sono sotto controllo. Fidel Castro parlando alla televisione rassicura il popolo: “vinceremo questo ciclone come si trattasse di un esercito nemico”. Nell’attesa dell’evoluzione meteo visitiamo la fabbrica di sigari, immergendoci in una situazione gradevole e amichevole con i lavoratori che arrotolano, bagnano e pressano le foglie di tabacco.
Cuba è sigari - rhum - dollari e memorie rivoluzionarie - duro lavoro e sogno. Il volto del Che è impresso sulle T-shirt e le massime rivoluzionarie appaiono sui muri. Camion russi - soprammobili cinesi - alberi di ibisco - richieste di monete e grande cultura. La gestione della pace e del vivere non è semplice cosa - gambe stanche ed occhi rivolti a Nord - colori accesi e cortili diroccati - palazzi coloniali e tuguri - boicottaggi e pacchi dono.
L’allarme continua, il passaggio del ciclone Georges è previsto a Trinidad nella notte. In ogni cittadina gli altoparlanti trasmettono notiziari e musica, si respira l’attesa dell’allarme generale. Aspettando il ciclone i cubani vivono un’apparente tranquillità, tra cerimonie casalinghe e bevute. La famiglia che ci ospita sembra non prestare molta attenzione alla televisione sempre accesa, nell’ingresso della casa un telefono è adibito a posto di chiamata pubblico, tra arredi e soprammobili kitsch vagano anziani paralitici.
Molte sono le piante sconosciute che in questo caldo crescono ovunque rigogliose - e pochi sono i fiori che resistono. Così la gente combatte - addossata ai muri diroccati. Infiorescenze di resistenza.
Al Colle de Coiantes la foresta caraibica sfoggia la forma migliore della sua capacità arborea: ceibe giganti, orchidee selvatiche, alberi d’ibisco, di mogano e felci enormi. Piove insistentemente. Percorriamo la strada per la torre di Inzaga, una finca dove lavoravano gli schiavi nella piantagione di canna da zucchero. La torre, alta quarantacinque metri, era usata per controllare i campi ed impedire la fuga dei lavoratori forzati. E’ possibile visitare la vecchia pressa per la spremitura della canna, qui lavoravano gli schiavi africani in turni di diciassette ore; ancora oggi lavorano in zona i discendenti di quegli schiavi. L’aria è intrisa di umido e trasporta con sé il sale delle lacrime d’altri tempi.
Cuba è sigari - rhum - dollari e memorie rivoluzionarie - duro lavoro e sogno. Il volto del Che è impresso sulle T-shirt e le massime rivoluzionarie appaiono sui muri. Camion russi - soprammobili cinesi - alberi di ibisco - richieste di monete e grande cultura. La gestione della pace e del vivere non è semplice cosa - gambe stanche ed occhi rivolti a Nord - colori accesi e cortili diroccati - palazzi coloniali e tuguri - boicottaggi e pacchi dono.
L’allarme continua, il passaggio del ciclone Georges è previsto a Trinidad nella notte. In ogni cittadina gli altoparlanti trasmettono notiziari e musica, si respira l’attesa dell’allarme generale. Aspettando il ciclone i cubani vivono un’apparente tranquillità, tra cerimonie casalinghe e bevute. La famiglia che ci ospita sembra non prestare molta attenzione alla televisione sempre accesa, nell’ingresso della casa un telefono è adibito a posto di chiamata pubblico, tra arredi e soprammobili kitsch vagano anziani paralitici.
Molte sono le piante sconosciute che in questo caldo crescono ovunque rigogliose - e pochi sono i fiori che resistono. Così la gente combatte - addossata ai muri diroccati. Infiorescenze di resistenza.
Al Colle de Coiantes la foresta caraibica sfoggia la forma migliore della sua capacità arborea: ceibe giganti, orchidee selvatiche, alberi d’ibisco, di mogano e felci enormi. Piove insistentemente. Percorriamo la strada per la torre di Inzaga, una finca dove lavoravano gli schiavi nella piantagione di canna da zucchero. La torre, alta quarantacinque metri, era usata per controllare i campi ed impedire la fuga dei lavoratori forzati. E’ possibile visitare la vecchia pressa per la spremitura della canna, qui lavoravano gli schiavi africani in turni di diciassette ore; ancora oggi lavorano in zona i discendenti di quegli schiavi. L’aria è intrisa di umido e trasporta con sé il sale delle lacrime d’altri tempi.
La notte diviene ventosa - da spinte di uragano - alla playa Ancon. Mare e pioggia si uniscono. Il vento saccheggia le gocce - le fa esplodere - le centrifuga - modifica la natura di acqua - di vento e sale. La notte a Trinidad è scura e gonfia. Nella strada litoranea fuggono tartarughe e granchi illuminati dai fari delle auto. L’intorno è fatto di buio - di notte - di nulla - e in quel vuoto risiede tutta la speranza. Non esiste un sonno profondo. Tutto è eterna attesa.
Le strade sono allagate e i mezzi pubblici non “marciano”. L’offerta di un passaggio in auto per Santiago non ci lascia indifferenti e quindi si parte tra folate di vento e pensieri adatti al tramonto: sigarette, soste, ed un mondo verde-argilla intorno. Costeggiamo fincas distrutte dal vento e case allagate dalla pioggia dove, nei cortili, nuotano bimbi ridanciani. Trinidad, Santo Spiritu, Ciego de Avila, Camaguey, Las Tunas…brevi soste in bar a pesos e rhum a buon prezzo.
Las Tunas, Holguin, Bayamo, Santiago de Cuba.
La carrettera central è un lungo nastro di cemento. Segue perfettamente la natura originaria del terreno, è arginata da campi di canna da zucchero e bananeti, mucche al pascolo, cani nervosi, persone, camion stracarichi di gente e biciclette. Una lunga ininterrotta fila di persone cammina al lato della strada riportandomi agli occhi le immagini fotografiche della marcia di liberazione. Ad oriente il verde diviene più intenso e la negritudine è quasi africana, e poi scritte e simboli della memoria: Che, Camilo Cienfuegos, José Martì, Poder popular, rumore di carretti e carrozze a cavallo. La strada punta la Sierra Maestra, completamente rannuvolata, per poi degradare verso Santiago de Cuba. Ci sistemiamo in un piano terra con saletta, in una casa mai terminata ma dignitosa, in una via che scende a precipizio verso il mare.
Il mare lontano si strugge in lucentezze d’acciaio.
I fili della linea elettrica disegnano reticolati aerei in tutta la città. Le strutture rugginose del porto in basso mi fanno sentire a casa, con l’intenso l’odore di nafta e cordami, i barriti metallici degli argani risalgono le strade.
La padrona di casa prepara la cena ed apparecchia la tavola con una candida tovaglia. Sicuramente appartiene al corredo di sposa, ricamato con cura mentre china su di una radio a valvole, ascoltava dipingere il futuro.
Sogni di cotone intrecciato. Desideri di mussola e pizzo.
C’era una persona - c’era un cane - c’era un popolo. Il sogno che riunisce tutto ora respira asfittico. Ricordi e confusione per il domani. Anarchia e memoria.
Le strade sono allagate e i mezzi pubblici non “marciano”. L’offerta di un passaggio in auto per Santiago non ci lascia indifferenti e quindi si parte tra folate di vento e pensieri adatti al tramonto: sigarette, soste, ed un mondo verde-argilla intorno. Costeggiamo fincas distrutte dal vento e case allagate dalla pioggia dove, nei cortili, nuotano bimbi ridanciani. Trinidad, Santo Spiritu, Ciego de Avila, Camaguey, Las Tunas…brevi soste in bar a pesos e rhum a buon prezzo.
Las Tunas, Holguin, Bayamo, Santiago de Cuba.
La carrettera central è un lungo nastro di cemento. Segue perfettamente la natura originaria del terreno, è arginata da campi di canna da zucchero e bananeti, mucche al pascolo, cani nervosi, persone, camion stracarichi di gente e biciclette. Una lunga ininterrotta fila di persone cammina al lato della strada riportandomi agli occhi le immagini fotografiche della marcia di liberazione. Ad oriente il verde diviene più intenso e la negritudine è quasi africana, e poi scritte e simboli della memoria: Che, Camilo Cienfuegos, José Martì, Poder popular, rumore di carretti e carrozze a cavallo. La strada punta la Sierra Maestra, completamente rannuvolata, per poi degradare verso Santiago de Cuba. Ci sistemiamo in un piano terra con saletta, in una casa mai terminata ma dignitosa, in una via che scende a precipizio verso il mare.
Il mare lontano si strugge in lucentezze d’acciaio.
I fili della linea elettrica disegnano reticolati aerei in tutta la città. Le strutture rugginose del porto in basso mi fanno sentire a casa, con l’intenso l’odore di nafta e cordami, i barriti metallici degli argani risalgono le strade.
La padrona di casa prepara la cena ed apparecchia la tavola con una candida tovaglia. Sicuramente appartiene al corredo di sposa, ricamato con cura mentre china su di una radio a valvole, ascoltava dipingere il futuro.
Sogni di cotone intrecciato. Desideri di mussola e pizzo.
C’era una persona - c’era un cane - c’era un popolo. Il sogno che riunisce tutto ora respira asfittico. Ricordi e confusione per il domani. Anarchia e memoria.
Il buio sopraggiunge, tutto si complica e si dilata, la tensione cresce nell’aria e la grande città si infiamma. Fuoco sotto la cenere; con il rumore del moto furioso del mare riemerge ogni cosa. Tutto fluisce con la musica, il ballo, e gli occhi si trasformano, le donne diventano sfacciate e gli uomini osano lo scontro, la notte si trasforma in un girone dantesco caraibico.
La notte è spintoni e smancerie - false perle e sangue. Aromi e sudore. Musica e silenzi. Rhum e puzza di piscio.
Sino a quando Fidel riuscirà a tenere unito questo popolo così alterno e profondamente diversificato. Questo mondo di bianchi e neri, poveri e ricchi, benestanti e intellettuali…grande cultura e stomaco vuoto.
Domenica mattina, la città deserta porta i segni del dopo sbornia, le strade sono preda di questuanti pronti a chiedere e offrire ogni cosa. Il primo rifugio è la casa di Diego Velazquez, un comandante della flotta di Spagna, situata nella Plaza Cespedes, l’edificio del 1500 è divenuto un museo. La sorpresa è che, all’interno, un gruppo musicale classico è impegnato a suonare la così detta pena; la musica di mezzogiorno fuoriesce disperdendosi nella città demolita da anni di abbandono. Visitiamo l’edificio in stile neo classico dove ha sede il museo Bacardì, famoso distillatore e primo sindaco di Santiago, quindi il Museo Archeologico con le mummie egiziane e cilene, e passi sotto il sole e un gelato a pesos al Coppelia locale. La caserma Moncada: assalita dall’esercito rivoluzionario nel 1953; ricordi vivi di storia, di quei cento uomini e Fidel Castro. El Morro: raggiungiamo la rocca posta sul mare, a dieci chilometri dalla città, con un lungo taxi tutto per noi.
La città oggi è meno ostile, appare laboriosa nella normale quotidianità e resa piacevole da una giornata che si presenta splendidamente illuminata dal sole. Tento di riuscire a scrollarmi di dosso le mille richieste che rimangono incollate alla memoria come ostie al palato: un sapone, un dentifricio, un peso, una casa particular, un taxi.
Umile povertà e orgoglio di stanze disadorne. Case che ancora per poco rimarranno visibili - su strade rumorose che scendono al mare.
Le strade vocianti di bimbi in divisa scolare con trottole e carretti su sfere di acciaio, si tramutano in vertiginose discese. Alla parte giovane del popolo è affidato il futuro e le speranze, mi domando se attueranno una nuova rivoluzione sociale, un cambio di ruoli e di abito. Chissà se tutto questo potrà migliorare, è una domanda alla storia, ma la storia caraibica non può, o forse non vuole, rispondere ora.
Feste di memorie rivoluzionarie si mescolano con ritmi rap e reagge. Motori scarburati mescolano il fumo agli aromi di frutta tropicale. L’amore si mescola al rhum. Il rhum si mescola al ghiaccio. Cuba si mescola in un frullatore rotto. La materia solida non si distribuisce. Assapori una frutta dolcissima e non profumata al contempo.
La notte è spintoni e smancerie - false perle e sangue. Aromi e sudore. Musica e silenzi. Rhum e puzza di piscio.
Sino a quando Fidel riuscirà a tenere unito questo popolo così alterno e profondamente diversificato. Questo mondo di bianchi e neri, poveri e ricchi, benestanti e intellettuali…grande cultura e stomaco vuoto.
Domenica mattina, la città deserta porta i segni del dopo sbornia, le strade sono preda di questuanti pronti a chiedere e offrire ogni cosa. Il primo rifugio è la casa di Diego Velazquez, un comandante della flotta di Spagna, situata nella Plaza Cespedes, l’edificio del 1500 è divenuto un museo. La sorpresa è che, all’interno, un gruppo musicale classico è impegnato a suonare la così detta pena; la musica di mezzogiorno fuoriesce disperdendosi nella città demolita da anni di abbandono. Visitiamo l’edificio in stile neo classico dove ha sede il museo Bacardì, famoso distillatore e primo sindaco di Santiago, quindi il Museo Archeologico con le mummie egiziane e cilene, e passi sotto il sole e un gelato a pesos al Coppelia locale. La caserma Moncada: assalita dall’esercito rivoluzionario nel 1953; ricordi vivi di storia, di quei cento uomini e Fidel Castro. El Morro: raggiungiamo la rocca posta sul mare, a dieci chilometri dalla città, con un lungo taxi tutto per noi.
La città oggi è meno ostile, appare laboriosa nella normale quotidianità e resa piacevole da una giornata che si presenta splendidamente illuminata dal sole. Tento di riuscire a scrollarmi di dosso le mille richieste che rimangono incollate alla memoria come ostie al palato: un sapone, un dentifricio, un peso, una casa particular, un taxi.
Umile povertà e orgoglio di stanze disadorne. Case che ancora per poco rimarranno visibili - su strade rumorose che scendono al mare.
Le strade vocianti di bimbi in divisa scolare con trottole e carretti su sfere di acciaio, si tramutano in vertiginose discese. Alla parte giovane del popolo è affidato il futuro e le speranze, mi domando se attueranno una nuova rivoluzione sociale, un cambio di ruoli e di abito. Chissà se tutto questo potrà migliorare, è una domanda alla storia, ma la storia caraibica non può, o forse non vuole, rispondere ora.
Feste di memorie rivoluzionarie si mescolano con ritmi rap e reagge. Motori scarburati mescolano il fumo agli aromi di frutta tropicale. L’amore si mescola al rhum. Il rhum si mescola al ghiaccio. Cuba si mescola in un frullatore rotto. La materia solida non si distribuisce. Assapori una frutta dolcissima e non profumata al contempo.
Provincia di Guantanamo. Baracoa. I rumori sulla strada per Moa allentano la tensione della notte. E’ divenuta strada nel suo portare incessantemente uomini e bestie da una parte all’altra di questo angolo estremo di Cuba. In realtà è più simile a un largo e polveroso sentiero che attraversa villaggi senza nome e piantagioni di palme da cocco e bananeti. Nella mia stanza si materializza l’alba. Lentamente mi accorgo che passano ombre indistinte e oscurano a tratti la lama di luce che penetra dalle imposte basculanti prive di vetri. Le ombre si allungano nella stanza, le silhouette transitano da oriente a occidente, in questo cubo di calcestruzzo. Le case sono alveari; stanze disadorne dove si stagliano improbabili poster di valli alpine con montagne innevate, in altre pareti sanguinano cuori di santi a grandezza naturale e gigantografie di Gesù con lo sguardo triste. Il lento ronzio del condizionatore russo riporta lievemente tutto in superficie. L’aria gelida scompone il sudore della notte, elimina umidi petali del corpo, uno ad uno, portandomi il risveglio. Terge la fronte calda di pensieri d’amore e di morte. Increduli ed allibiti gli occhi penetrano l’intorno e riposizionano al loro posto il poco mobilio esistente. “Que pasa” sulla strada per Moa. Penetra fumo di camion e profumo di gelsomino, ho i pensieri imbalsamati, sono racchiuso in una palla di vetro che sa di rhum e formalina. Sono incredulo, soffoco, soffro un distacco che mi porta una calda sofferenza al petto. M’immagino prendere di buona lena la strada per Moa e non ritornare indietro e sorridendo a questa idea mi chiedo se esiste davvero Moa, oppure questa stanza è la fine del mondo?
Aggiungo al mio quaderno alcune note che probabilmente non amplierò mai: Baracoa è il west americano popolato da africani in bicicletta / Mare e fiume si incontrano e si mescolano palleggiandosi le noci di cocco svuotate per i turisti / Festa di compleanno nella casa di Baracoa /Mattinata di sole e pensieri / Pranzo in spiaggia con pesce e noci di cocco / A destra del lungomare scopro un villaggio di pescatori su palafitte, raggiungibile a piedi attraversando un vecchio ponte di legno quasi distrutto / “Non si applica il socialismo con metodi capitalistici” è la frase più usata dagli intellettuali locali.
Come sempre la notte nel suo avvolgere e impadronirsi di tutto porta a strascico vesti con trine infangate. La musica e i profumi arrivano velocemente come quesiti arroganti; “domande della notte”. Richieste di buio, nel buio, per mantenere ancora il buio…e poi sguardi e sguardi in questo nero ovattato. Di sera ceniamo con William, un docente universitario; è quasi un’intervista reciproca e risponde da comunista a comunisti. La “libreta”: la tessera annonaria permette di avere due chili di riso, due uova, mezzo pollo il mese per persona e due panini al giorno. Idee e speranze si scontrano con la realtà.
Partenza all’alba. Le solite confuse informazioni, su orari e modalità di partenza dei mezzi di trasporto. Sostiamo a Guantanamo, famosa in negativo per la sua base militare americana e prendiamo un camion per Santiago; è un’avventura viaggiare su camion organizzati e modificati come autobus a causa dell’embargo. Ore ed ore di lunghe fermate, corpi pigiati, scosse improvvise e marce ingranate rumorosamente. Risaliamo verso l’Habana, trascorrendo la mattinata in ciondolamenti che regalano un sonno a episodi. Habana sarà la prossima tappa prima del volo. La mente è all’erta pensando allo strappo finale: i visi, le strade, i profumi, cerco di assaporare tutto ciò con la mente. La mente olfattiva che un giorno, all’improvviso, riporterà alla memoria un viso risvegliato da un profumo di sigaro nell’aria.
Aggiungo al mio quaderno alcune note che probabilmente non amplierò mai: Baracoa è il west americano popolato da africani in bicicletta / Mare e fiume si incontrano e si mescolano palleggiandosi le noci di cocco svuotate per i turisti / Festa di compleanno nella casa di Baracoa /Mattinata di sole e pensieri / Pranzo in spiaggia con pesce e noci di cocco / A destra del lungomare scopro un villaggio di pescatori su palafitte, raggiungibile a piedi attraversando un vecchio ponte di legno quasi distrutto / “Non si applica il socialismo con metodi capitalistici” è la frase più usata dagli intellettuali locali.
Come sempre la notte nel suo avvolgere e impadronirsi di tutto porta a strascico vesti con trine infangate. La musica e i profumi arrivano velocemente come quesiti arroganti; “domande della notte”. Richieste di buio, nel buio, per mantenere ancora il buio…e poi sguardi e sguardi in questo nero ovattato. Di sera ceniamo con William, un docente universitario; è quasi un’intervista reciproca e risponde da comunista a comunisti. La “libreta”: la tessera annonaria permette di avere due chili di riso, due uova, mezzo pollo il mese per persona e due panini al giorno. Idee e speranze si scontrano con la realtà.
Partenza all’alba. Le solite confuse informazioni, su orari e modalità di partenza dei mezzi di trasporto. Sostiamo a Guantanamo, famosa in negativo per la sua base militare americana e prendiamo un camion per Santiago; è un’avventura viaggiare su camion organizzati e modificati come autobus a causa dell’embargo. Ore ed ore di lunghe fermate, corpi pigiati, scosse improvvise e marce ingranate rumorosamente. Risaliamo verso l’Habana, trascorrendo la mattinata in ciondolamenti che regalano un sonno a episodi. Habana sarà la prossima tappa prima del volo. La mente è all’erta pensando allo strappo finale: i visi, le strade, i profumi, cerco di assaporare tutto ciò con la mente. La mente olfattiva che un giorno, all’improvviso, riporterà alla memoria un viso risvegliato da un profumo di sigaro nell’aria.
La mente del viaggiatore. Carta assorbente. Spugna.
Giunti a Santiago ritroviamo libera la nostra camera ed è come ritornare a casa. Dopo un riposo meritato ci disperdiamo nelle vie assolate, saliamo alla terrazza del Grand Hotel che domina la città. Il coraggio e la disperazione si danno appuntamento in questa piazza tutti i giorni, con la speranza di trovare i soldi per un pò di sapone, un tubetto di dentifricio. Un ragazzo mi dice che avere un paio di mutande è un lusso.
Sguardi che raccontano in silenzio il vuoto. Molto spesso narrano il coraggio e la voglia di vivere.
Visitiamo una Casa del folclore diventata una sorta di circolo culturale. Si esibisce un gruppo musicale son ed assistiamo alla presentazione del libro di uno scrittore locale. Ciondoliamo con la temperatura ferma a trentatré gradi; l’aria umida ci alimenta con ossigeno, acqua e aromi di sigari Montecristo. Furiosi scarichi di camion scarburati avvolgono il tutto con un puzzo di gomma bruciata.
In questo caldo - l’improvviso pianto di un bimbo - diviene un dolore insopportabile.
Giunti a Santiago ritroviamo libera la nostra camera ed è come ritornare a casa. Dopo un riposo meritato ci disperdiamo nelle vie assolate, saliamo alla terrazza del Grand Hotel che domina la città. Il coraggio e la disperazione si danno appuntamento in questa piazza tutti i giorni, con la speranza di trovare i soldi per un pò di sapone, un tubetto di dentifricio. Un ragazzo mi dice che avere un paio di mutande è un lusso.
Sguardi che raccontano in silenzio il vuoto. Molto spesso narrano il coraggio e la voglia di vivere.
Visitiamo una Casa del folclore diventata una sorta di circolo culturale. Si esibisce un gruppo musicale son ed assistiamo alla presentazione del libro di uno scrittore locale. Ciondoliamo con la temperatura ferma a trentatré gradi; l’aria umida ci alimenta con ossigeno, acqua e aromi di sigari Montecristo. Furiosi scarichi di camion scarburati avvolgono il tutto con un puzzo di gomma bruciata.
In questo caldo - l’improvviso pianto di un bimbo - diviene un dolore insopportabile.
Santiago – Habana. La partenza serale avviene con un Omnibus dell’Astro: sono le 19.30 di sabato. Alla stazione dei bus sono molto gentili, anche se un pò preoccupati per le condizioni del mezzo, ipotizzano undici ore di viaggio per l’Habana…in realtà saranno molte di più. La notte avvolge, notte buia e lampi di un temporale magnetico, e poi la pioggia che rinfresca e trascina via l’impasto di polvere e sudore. Le soste per i refrescos e panini a pesos riportano la realtà ad ogni parada, si materializzano gli aspetti della Cuba provinciale, più autentica e viscerale, dove lo straniero è osservato speciale. Il motore improvvisamente perde il classico ronzio malaticcio; le riparazioni approssimative non reggono che qualche chilometro, e allora altra sosta forzata e situazioni comiche: gabinetti completamente al buio, refrescos versati dentro vecchie latte di pittura, formaggi imbalsamati tra fette di pane raffermo…ma soprattutto si respira la vita.
Un pazzo urla alle stelle la storia di tutte le povertà del mondo. Cuba sospira - ma la musica deve continuare. L’arrivo in un pomeriggio di una domenica avanese.
Scoviamo una casa particular nel centro, a dire il vero un pò troppo particular: una stanza a due piani, cioè due buchi di tre metri quadrati, un labirinto di letti, sedie, cucine traboccanti di piatti sporchi con il codazzo di mosche insolenti. Ma la chicca è sicuramente la testa di un maiale macellato di recente, riposa nel pavimento della cucina con un cane che gironzola intorno. Una visione horror che spinge a una fuga strategica.
L’Habana è il suo Capitol, le vie larghe centrali, i parchi, il Floridita, la Bodeguita del medio, il malecon, il buio, i passi, il formicolare della vita.
Un pazzo urla alle stelle la storia di tutte le povertà del mondo. Cuba sospira - ma la musica deve continuare. L’arrivo in un pomeriggio di una domenica avanese.
Scoviamo una casa particular nel centro, a dire il vero un pò troppo particular: una stanza a due piani, cioè due buchi di tre metri quadrati, un labirinto di letti, sedie, cucine traboccanti di piatti sporchi con il codazzo di mosche insolenti. Ma la chicca è sicuramente la testa di un maiale macellato di recente, riposa nel pavimento della cucina con un cane che gironzola intorno. Una visione horror che spinge a una fuga strategica.
L’Habana è il suo Capitol, le vie larghe centrali, i parchi, il Floridita, la Bodeguita del medio, il malecon, il buio, i passi, il formicolare della vita.
Per dove - bella mulatta - muovi le tue gambe lunghe? Qual è il sogno e dove trovarne un segno…forse nei bagagli dei balseros?
Ricerca degli uffici aerei, per confermare il volo di ritorno e poi la visita alla Fototeca Nazionale per allacciare rapporti con i fotografi locali ed organizzare eventuali progetti di collaborazione e scambio. La città vecchia è affascinante: perle architettoniche dell’epoca coloniale, giardini e piazzette, chiese, fortificazioni e torri di guardia di fronte al malecon. Il tutto mescolato e condito di palazzi che cadono a pezzi, terrazze demolite, popolo alla finestra, popolo di piazza, popolo che frulla e si inventa mille lavori diversi.
Popolo profondamente vivo. Fulmini di carne e passioni - composti di sangue e aromi caraibici. Questo sole vede barattare il domani. Senza un principio - senza una fine.
Ricerca degli uffici aerei, per confermare il volo di ritorno e poi la visita alla Fototeca Nazionale per allacciare rapporti con i fotografi locali ed organizzare eventuali progetti di collaborazione e scambio. La città vecchia è affascinante: perle architettoniche dell’epoca coloniale, giardini e piazzette, chiese, fortificazioni e torri di guardia di fronte al malecon. Il tutto mescolato e condito di palazzi che cadono a pezzi, terrazze demolite, popolo alla finestra, popolo di piazza, popolo che frulla e si inventa mille lavori diversi.
Popolo profondamente vivo. Fulmini di carne e passioni - composti di sangue e aromi caraibici. Questo sole vede barattare il domani. Senza un principio - senza una fine.
Nel lungomare i cannoni sono disposti a riposo sulle mura delle fortificazioni, puntano la Florida privi di proiettili e soprattutto di forza esplosiva. Forse è troppo tardi, forse l’idea è troppo lontana, e rimane solo il ricordo del passato, così passato da essere remoto. Le magliette del Che restano inossidabili a svolazzare sulle bancarelle dei mercati o appese ai muri; mito incatenato, dannato in una memoria lontana.….svolazza il volto, la barba, il sigaro, il profilo importante. Il grigio è padrone di tutto, i vestiti stesi al sole sono così vecchi da confondersi con i cubi di cemento abitato, ed il mare, impegnato nelle maree, appare ignaro di tutto quello che succede in questa terra tumultuosa.
Il tempo trascorre veloce ai Caraibi. Le lancette s’inseguono più rapidamente che in altre parti del mondo, sarà causato dall’influsso delle stelle, della luna piena, di queste notti, non saprei dire. Sono certo che il tempo qui è a pieno ritmo. Ritrovare il tramonto e la notte improvvisamente sotto gli occhi, dopo aver camminato tutto il giorno, attraversando la parte vecchia della città attraverso calle senza nome. Il mattino inizia con il museo della Rivoluzione: El Che, Fidel, Cienfuegos, il Gramma, la Moncada; l’eterna storia del principio, la genesi di questa terra con foto storiche e cimeli rugginosi. Nella Piazza della Rivoluzione il viso enorme del Che guarda l’orizzonte, la statua di marmo bianco di José Marti è posta sul lato opposto vicino ad un obelisco a gradoni. La marcia continua verso la Necropolis: un enorme cimitero con mausolei e tombe monumentali. Il teatro di Cuba e il Caffè Cantante: un luogo di ritrovo e concerti a tutte le ore.
La strada ridiscende al malecon - attratta da quel mare blù cobalto in lontananza.
Il tempo trascorre veloce ai Caraibi. Le lancette s’inseguono più rapidamente che in altre parti del mondo, sarà causato dall’influsso delle stelle, della luna piena, di queste notti, non saprei dire. Sono certo che il tempo qui è a pieno ritmo. Ritrovare il tramonto e la notte improvvisamente sotto gli occhi, dopo aver camminato tutto il giorno, attraversando la parte vecchia della città attraverso calle senza nome. Il mattino inizia con il museo della Rivoluzione: El Che, Fidel, Cienfuegos, il Gramma, la Moncada; l’eterna storia del principio, la genesi di questa terra con foto storiche e cimeli rugginosi. Nella Piazza della Rivoluzione il viso enorme del Che guarda l’orizzonte, la statua di marmo bianco di José Marti è posta sul lato opposto vicino ad un obelisco a gradoni. La marcia continua verso la Necropolis: un enorme cimitero con mausolei e tombe monumentali. Il teatro di Cuba e il Caffè Cantante: un luogo di ritrovo e concerti a tutte le ore.
La strada ridiscende al malecon - attratta da quel mare blù cobalto in lontananza.
Camera d’albergo. Memorie di Mister Rhum. Gli scuri alla finestra lasciano passare la luce e i rumori della calle. Il chiarore indugia ancora un poco, intimidito dalle brezze notturne del mare. I rumori esterni irrompono sfacciati sotto forma di scampanellii, martellate, corse d’auto, passi veloci di bambini e sirene in lontananza. La grancassa batte e ribatte, congas amplificati e pianti riportano alla superficie della coscienza il ricordo di dove sono. Il rumore mi penetra, mi fa stirare il corpo, ricerco un equilibrio stabile sulle gambe avvicinandomi alla finestra, sono provato nel risveglio come Gregorio Samsa. Il sole in pochi minuti ha centuplicato l’intensità del suo calore. Socchiudo gli scuri basculanti e tutto è lì, pronto ad accogliermi nuovamente con lusinghe e richieste. Un mondo che attende lo stravolgimento del tutto e la sua ricomposizione perfetta; il ripetersi all’infinito di una meccanica quotidiana. Resto muto e consapevole che la tristezza non dorme mai. Un cocktail che non puoi bere al Floridita e neppure alla Bodeguita. L’ingrediente base è rhum e lacrime. E in questa confusione esistono ancora credenze ancestrali, messaggi di santeria, superstizioni e tradizioni legate al mare oppure all’influsso della luna. Una donna racconta: ”Sono figlia del mare, il mio destino dice fortuna in amore e sfortuna in salute, chissà!? Mi vuoi amare ?! Domani potrebbe essere tutto finito”.
Le inferriate non celano il mondo interno di questa città tutta al sole. Spalancata alla vista palese, al dominio pubblico: la piazza, la strada, una finestra sempre aperta verso il mondo. Ricordi di case dignitose e palazzi coloniali trasformati in quartieri di disagio e degrado. Dissesto, rotture, fratture. Arresti improvvisi di un epoca collosa e parzialmente vivibile nel buio eterno. Notti di sedie inclinate addossate a muri scrostati. Dondolii reali, catatonie senza tregua e musica.
A tratti si vedono bagliori nella notte eterna - stelle soffocate da un cielo nuvoloso - orbite d’occhi spalancati – ammiccamenti – follie - risate e parole a vuoto.
Le inferriate non celano il mondo interno di questa città tutta al sole. Spalancata alla vista palese, al dominio pubblico: la piazza, la strada, una finestra sempre aperta verso il mondo. Ricordi di case dignitose e palazzi coloniali trasformati in quartieri di disagio e degrado. Dissesto, rotture, fratture. Arresti improvvisi di un epoca collosa e parzialmente vivibile nel buio eterno. Notti di sedie inclinate addossate a muri scrostati. Dondolii reali, catatonie senza tregua e musica.
A tratti si vedono bagliori nella notte eterna - stelle soffocate da un cielo nuvoloso - orbite d’occhi spalancati – ammiccamenti – follie - risate e parole a vuoto.
Una donna mi chiede qualche pesos per il latte in polvere del figlio, con un fare decoroso e sincero. Sicuramente è vita; una vita profondamente ed interamente vissuta in ogni secondo. Attraverso ogni singolo attimo la sofferenza mantiene vivo il sogno. Salvador Allende diceva: vale la pena morire per le cose senza le quali non vale la pena vivere.
Aeroporto di pianti e saluti, di promesse, di sogni, partenze per luoghi ignoti conosciuti attraverso le lettere di parenti e amici. Quanto portiamo con noi? Quanto lasciamo in un viaggio? Notti di immagini veloci, ombre incerte a contrastare i fari delle auto, passi e ombre di gambe lunghe, movimenti sinuosi e movenze animali. Il rientro, simile ad un sogno, ti coinvolge contro la tua stessa volontà in un playback velocissimo. Il nastro, impressionato più dalle sensazioni che da immagini precise, ritorna a ritirarsi riavvolgendosi su se stesso. Il ritorno è un bagaglio pesante di sonni agitati. Lentamente lievita intorno un mondo conosciuto, quasi per magia ritrovi la strada di casa e odori famigliari. L’arrivo a Milano è umido e freddo. Lentamente si compongono immagini velocissime, fotogrammi sfocati oppure visti in controluce: transitano visi, ombre, palazzi, moti del mare, bambini sdruciti, jineteras, buscapan, cavalli e biciclette, il lento rifluire di odori e sensazioni, un riepilogo, una Babele di ricordi. Vagabondare con la mente all’indietro, pensando alle cose viste e quelle sperate, una retrospettiva di vita di questo flash cubano, fatto di cocco e pesce mangiato in spiaggia, di ricerca storica e di tant’altro ancora. Un’autostrada mentale dove veloci auto lasciano a malapena un’immagine di loro, forse il colore, un numero della targa. Un fluire rapido d’immagini non a fuoco.
Aeroporto di pianti e saluti, di promesse, di sogni, partenze per luoghi ignoti conosciuti attraverso le lettere di parenti e amici. Quanto portiamo con noi? Quanto lasciamo in un viaggio? Notti di immagini veloci, ombre incerte a contrastare i fari delle auto, passi e ombre di gambe lunghe, movimenti sinuosi e movenze animali. Il rientro, simile ad un sogno, ti coinvolge contro la tua stessa volontà in un playback velocissimo. Il nastro, impressionato più dalle sensazioni che da immagini precise, ritorna a ritirarsi riavvolgendosi su se stesso. Il ritorno è un bagaglio pesante di sonni agitati. Lentamente lievita intorno un mondo conosciuto, quasi per magia ritrovi la strada di casa e odori famigliari. L’arrivo a Milano è umido e freddo. Lentamente si compongono immagini velocissime, fotogrammi sfocati oppure visti in controluce: transitano visi, ombre, palazzi, moti del mare, bambini sdruciti, jineteras, buscapan, cavalli e biciclette, il lento rifluire di odori e sensazioni, un riepilogo, una Babele di ricordi. Vagabondare con la mente all’indietro, pensando alle cose viste e quelle sperate, una retrospettiva di vita di questo flash cubano, fatto di cocco e pesce mangiato in spiaggia, di ricerca storica e di tant’altro ancora. Un’autostrada mentale dove veloci auto lasciano a malapena un’immagine di loro, forse il colore, un numero della targa. Un fluire rapido d’immagini non a fuoco.
- Next stop Voghera - dice l’altoparlante.
Improvvisamente mi viene in mente una battuta, cara ai cubani, ascoltata più volte in viaggio: “Quando Colombo arrivò a Cuba, si guardò intorno e chiese una birra Mayabe ”.
E giù risate per sdrammatizzare ogni cosa.
Improvvisamente mi viene in mente una battuta, cara ai cubani, ascoltata più volte in viaggio: “Quando Colombo arrivò a Cuba, si guardò intorno e chiese una birra Mayabe ”.
E giù risate per sdrammatizzare ogni cosa.
…credevi che Cuba ti avrebbe preso allo stomaco,
alla testa o all’inguine,
e invece ti ha colpito al cuore.
D.Manera (A labbra nude)
alla testa o all’inguine,
e invece ti ha colpito al cuore.
D.Manera (A labbra nude)