Gli uomini trascinano le ombre intirizzite tra gli archi e i lampioni nella piazza dell’Unità d’Italia di Trieste. L’alba sopraggiunge.
Le colline scoscendono al mare, e il mare in silenzio penetra in profondità. Procedevano incolonnati in una “Carovana della Pace” e spingendo i furgoni in avaria, si dirigevano verso il confine sloveno, attraverso la tetra terra di nessuno.
Forse era solo un’idea ma nell’aria si respirava un profumo diverso, di tensione.
Il sole tramutò in foschia, quindi in pioggia e arcobaleno. Il “percorso” riprendeva forma e non per un luogo preciso; in Slovenia, Bosnia e Croazia, l’odio aveva vinto sulla ragione e distrutto anni di tolleranza. Lui provava un lieve senso di colpa; forse era mosso semplicemente dall’istinto e dal desiderio di un eterno nomadismo, in un mondo formato da pezzi disordinati d’anime diverse che protendevano le mani l’un l’altro, ma non per stringersi nel saluto fraterno. Si ritrovò a pensare quando avrebbe rivisto semplici accenni di sorrisi nelle bocche chiuse a trattenere la rabbia.
Ovattati dai vetri appannati, attraversano boschi e superano i passi di montagna per poi ridiscendere nella direzione di Ryeka. Fuori città avviene la consegna di una parte dei medicinali destinati a Sarajevo, quindi ripartono per il sud seguendo la strada costiera a picco sul mare, diretti nei campi profughi ospitati negli alberghi e presso i campeggi della costa.
L’uomo ricordava un viaggio di gioventù, quando era quasi un obbligo visitare la zingaresca Jugoslavia: cevapcici, raznjici, i laghi di Plitvice, Dubrovnik, Mostar e Sarajevo - altri tempi.
In un bar di Senj avviene l’incontro con un camionista italiano appena giunto da Mostar che, per l’immaginario collettivo, era l’assurdo simbolo della guerra - la città sacrificale.
A Mostar non si spara da due giorni – ripeteva l’autista – se fate presto potete farcela. Il gruppo rivoluziona i progetti iniziali decidendo di portare il carico di medicine direttamente nel cuore di quello sfacelo. Il rischio è alto, ma la forte volontà allontana ogni ragionamento razionale.
I ponti sulla costa sono stati minati. Impiegano dieci ore, un tempo lunghissimo, di code chilometriche agli imbarchi dei traghetti improvvisati. La strada si trasforma in una striscia grigia, punteggiata dai camion carichi d’aiuti per le diverse zone di guerra. Grossi cartelli con il simbolo della croce rossa sono utilizzati per riuscire a passare attraverso i posti di blocco presidiati da nervosi soldati armati.
Alla periferia di Zara la parola “guerra” prende consistenza. Le prime case distrutte: fori di pallottole e schegge di granata, non una persona per strada, l’atmosfera è decisamente opprimente. I posti di blocco si susseguono uno dopo l’altro e uno qualsiasi di questi potrebbe diventare il termine del viaggio, per il momento il lasciapassare artigianale assolve lo scopo: due linee di pennarello rosso intersecate in una croce.
A Spalato trovano ospitalità per la notte nella Cattedrale di Petra. Le immagini sacre e i sacchi a pelo, sistemati nella sacrestia, gli riportano alla mente le messe beat degli anni settanta.
Le code sono interminabili nelle vicinanze dei ponti bombardati. Il silenzio vince ogni battuta di spirito e le memorie di ciascuno restano congelate nell’attesa. Sopra la città di Mostar si avvertono spari in lontananza. Lentamente entrano in città e chiedono informazioni per la vecchia scuola, che funge da centro di raccolta dei medicinali, trasformata nella sede del Centro Profughi. Attraversano le strade devastate. La città è mutilata, interi palazzi bruciati e distrutti.
Con i responsabili del centro di raccolta organizzano le modalità di distribuzione per ogni entità. E’ un momento difficile. Contornati da bambini tristi e curiosi scaricano il camion e nello stesso tempo annusano l’aria che sa di fumo, di mafia, di dubbi e deboli certezze. Il tempo di permanenza in città non può essere prolungato per molto tempo, da un momento all’altro tutto può ricominciare.
Vecchia città di Mostar. Un bimbo impazzito prende a calci la città di sabbia, costruita in riva al fiume. Furioso scalcia – urla - stringe i denti, come gli costasse fatica quel moto di rabbia. Prende un carboncino da terra e lentamente disegna sul viso tratti guerrieri. Alza fiero lo sguardo e piange.
Il paesaggio intorno è fuoriuscito da una tasca rovesciata: macerie, rovine e resti carbonizzati. In alto, sul mondo devastato, a monito resta il ponte antico. Un urlo. Un pianto. Soltanto il ponte resta in piedi; sarà minato e abbattuto dopo poco tempo.
Non si è salvata la Moschea e neppure la Basilica. Vicino alle case ancora in piedi la vita continua e dall’interno dei bar improvvisati escono musica araba e soldati ubriachi. Le armi sono ostentatamente esibite dagli uomini in mimetica che gironzolano sfaccendati. I giovani “Rambo” imberbi controllano i documenti: Slavo ha diciannove anni, un padre serbo, una madre croata e il mitragliatore russo.
La costa croata si avvicina dentellata da piccole isole e promontori. Sono le sette del mattino e il sole è decisamente caldo; il ponte del traghetto luccica dei restauri recenti apportati con la lana di vetro spennellata per nascondere le bozze dei secoli. Su di una panca, imbottita dal sacco a pelo, lui fuma e scrive mentre Spalato ingigantisce di fronte.
L’uomo partecipa a una spedizione ridotta, destinata ai campi profughi dell’isola di Korcula gestiti dalla Croce Rossa Croata. I campi sono riservati ai serbo-croati e seicento mussulmani sono accolti in altri attendamenti sulla costa. In riva al mare, increspato dalle brezze fresche, l’odore della guerra non si sente.
La vita nel campo di Korcula procede come se la guerra fosse lontanissima. La maggioranza dei profughi sono donne e bambini; i pochi vecchi ciondolano fumando, altri restano fermi ad osservare il vuoto. Il livello di depressione è alto e tangibile: post trauma stress, pontifica la scienza.
L’orso di pezza diventa il gioco della giornata e i bambini si lasciano andare a una circospetta confidenza. Tentano di fargli capire da dove vengono scavando strade immaginarie sulla sabbia, nella fantasiosa carta geografica tradotta a gesti. Gli occhi riportano immagini impresse con il fuoco. Nelle cortine di fumo hanno visto. Altri hanno immaginato di vedere cose terribili nel buio. Le notti trascorse nelle terre sconvolte hanno seccato le labbra, la saliva e le parole. I giochi d’infanzia negati si sono ridotti a corse in sordina.
Sarajevo è coperta di neve. Le gocce d’acqua congelate in stalattiti lattiginose: chiese, moschee e cumuli di neve solidificata sporca di cenere e fango. L’uomo è ospite di una famiglia mussulmana: padre, madre e due figli. La stanza da letto che gli offrono è quella che non hanno utilizzato durante i quattro anni di guerra, perché esposta alla linea di fuoco serba. I fogli di plastica sostituiscono i vetri distrutti dai colpi dell’artiglieria; lui dalla finestra osserva la neve e gli uomini alleati in geometrie di follia - trincee di fango – labirinti.
Seduti attorno al tavolo discutono di speranze, richiamando alla mente il terrore che si è impadronito di tutto e tutti negli ultimi quattro anni. Si rinnovano i racconti di una città ridotta ai minimi termini, stremata nel rigido inverno bosniaco.
Per strada le persone avanzano lentamente ripiegate dal vento gelido del monte Igman. Hamo gli dice: - Prima della guerra amavo la montagna, adesso odio tutto ciò che è più alto di una collina, dall’alto di quel monte veniva la morte e gli spari dei cecchini, le granate, e le pallottole impazzite rimbalzavano ovunque.
Il direttore dell’ospedale gli racconta com’è stato possibile continuare a curare e operare i feriti nonostante la mancanza di luce, d’acqua e gas. Nell’ospedale non c’è più un vetro intatto, e attraverso la plastica i tramonti sono sempre rossi. I carrozzieri della città costruiscono protesi nella penombra.
Le parole non riescono a salire l’inciampo della bocca. Navigava silenzioso in attesa dell’alba - naufrago sospeso nel distacco. Si rese conto di quanto lascerà indietro per un po’ di tempo. Non provava dolore. Era l’amour che gli tornava alla mente: il foulard color arancio in contrasto con il cielo plumbeo alle sue spalle.
Nel bar della nave, diretta a Split, si ritrovò a leggere “Il paese delle ultime” cose di Paul Auster. Un aperitivo triste e amaro, dove le città distrutte e i popoli dispersi lo cullavano su di un mare sospiroso nella notte.
Lo sbarco. I controlli. Il solito film già visto, messo in atto da scorbutici doganieri che sembravano cercare nei suoi bagagli la mappa dell’Isola del tesoro. Ma perché cercare tra le calze – si chiedeva.
Lasciava alle sue spalle la costa, abbandonava il mare seguendo la strada che saliva le montagne puntando decisamente la Bosnia, in direzione di Travnik.
Trova una sistemazione nel quartiere popolare di Kalibunar in una casa che non ha più nulla delle caratteristiche tipiche dei ricoveri umani: i vetri inesistenti, la luce elettrica va’ e viene, i tubi dell’acqua sono congelati e la stufa a legna bosniaca con il carattere zingaresco è in vena di sorprese affumicanti.
L’ambiente intorno è caratterizzato dai cortili infangati, palazzi operai squadrati e severi, carcasse di automobili e cumuli di immondizia. Le piccole baracche di legno, improvvisato decentramento di spacci alimentari, sono distribuite intorno al quartiere e vendono un po’ di quel poco che hanno. Nelle viuzze i bambini spaccano la legna e si rincorrono scivolando sul ghiaccio come ubriachi di rakija. Gli slittini improvvisati sfrecciano raschiando l’asfalto della strada. La coltre di neve attutisce le voci dei passanti e le trasforma in pigolii di uccelli infreddoliti.
Nevica nel cuore della notte.
E’ il primo giorno di Ramadan e dalla moschea il piccolo corteo esce lentamente sotto la pioggia. La sua anima è allerta e ricerca immagini nuove; si sentiva un cacciatore disarmato che insegue la preda.
I rumori esterni sono ovattati dalla neve caduta durante la notte, il bianco totale nasconde le cataste di legna, i buchi delle granate e le strade sconnesse. Le persone che osserva dalla finestra lentamente tracciano percorsi sempre più larghi nell’oceano bianco, alla ricerca di rimasugli di rami e tronchi.
Dentro casa si veste di tutto punto per fronteggiare il freddo, non riesce ad apprezzare la differenza tra il dentro e il fuori. Il pappagallo reclama il pasto strillando e lui chino sulla radio cerca di afferrare qualche parola da un’emittente italiana che si dissolve in scariche elettriche per poi tacere definitivamente.
La strada per Sarajevo è delimitata dai campi innevati, punteggiati di persone, dove le anime disperse da un creatore frettoloso si muovono per le campagne cercando legna o foglie di cavoli congelati. Scavano cumuli di neve e fango al ciglio della strada che porta in città. I fantasmi sono smossi dallo spostamento d’aria dei camion militari che sfrecciano veloci. Ombre indistinte in un pezzo d’artico alla deriva.
Si ritrova a percorrere lo stessa tragitto di tanti anni prima, reso diverso e triste da quello che lo circonda. Le case distrutte dalle granate sono intatte nei muri ma completamente bruciate all’interno, la Biblioteca Nazionale è uno scheletro che fatica a vincere la forza di gravità. Paesaggi convulsi nella legge della sopravvivenza.
Incontra il responsabile del Centro Anziani e visita le mense popolari, discutendo con gli operatori dei bisogni e delle emergenze. In ogni incontro prende appunti e compila una relazione da presentare a Sarajevo, nella sede dell’agenzia delle Nazioni Unite che segue il progetto di ricostruzione.
Nel pomeriggio sale il monte Vlasic: la prima linea tra le forze serbe e mussulmane. I paesi sul monte non esistono più, restano solo rovine, campi minati e neve. Prima della guerra era un luogo di villeggiatura, attrezzato con impianti sciistici – gli dice Ado. Le nuvole portate dal gelido vento si arruffano sull’altipiano, la sua mente è ovattata dal bianco impalpabile. Ritornando in città si accorse che iniziava ad osservare con il terzo occhio tutto quello che lo circondava. Dove dannazione si era nascosta la felicità?! – si chiedeva a denti stretti.
Pensava alla solitudine dell’uomo, la solitudine d’ogni singolo individuo di quella terra, quando la battaglia non dava tregua nelle vie della città e neppure dentro casa, quando non esistevano luoghi di pace. Valutava la tristezza, la tragedia di chi, rimasto solo, continuava a spingere il carro tra la neve e le buche delle granate, a chi ferito non aveva nessuno al capezzale. Considerava l’afflizione che fa perdere le forze e la voglia di continuare a vivere. La sorda solitudine che allontana la voglia di accendere la stufa e si porta via speranza e dignità.
Le sfavorevoli sintonie lo perseguitavano. Reclinato sulla radio come nell’attesa di un bollettino di guerra, muoveva la ricerca delle stazioni captando, per brevi attimi, dialoghi in italiano. In quei momenti la voce trasportava calore, avvicinava il mondo lontano, era un bisogno fisico nelle serate di completa solitudine. La Bosnia lo faceva sentire solo. Sarà l’odore di distruzione che ancora avvolgeva ogni angolo della città, come se l’eco di quattro anni di guerra fosse ancora intorno – e aleggia la solita domanda cui nessuno sa dare risposta: Perché tutto questo?
L’alloggio dista un chilometro dal centro cittadino e ogni giorno scende in città a piedi, mescolandosi ai viandanti dei villaggi intorno. Piegati dal vento vanno e vengono, figure indistinte spruzzate di neve finissima alzata dai camion sulla strada. Ovunque cataste di legna, ma quella secca è quasi un lusso.
Fuori delle porte ammassi di scarpe e ciabatte. Nelle case si cammina scalzi sopra tappeti e moquette millenarie. Ma tutto quello non era dolore. Il vero dolore è perdersi ad osservare gli sguardi che celano tristi memorie. La stufa di casa assesta la temperatura interna intorno ai cinque gradi, non lievita di un grado in tutta la giornata. Ma anche quello non era dolore. Aveva finito la scorta di tabacco e fumava sigarette americane o forti sigarette bosniache. Ma anche questo non era dolore. Pensava di aver riposto il dolore molto in profondità, non provava neppure lontanamente ad attribuirgli un nome, imparava a vivere senza gioia né dolore.
Esce per non essere solo. Una volta fuori casa si accorge d’essere nessuno. Passeggia nella parte vecchia della città come un essere invisibile. Il forte, la moschea, il fiume. Gli stagni della pesca alla trota sono completamente congelati e la galaverna ha immobilizzato magicamente foglie ed alberi.
Ritorna a casa annientato da quella che sicuramente si è trasformata in influenza. S’incammina alla capanna di Gesù bambino, senza comete né Re Magi, ma una sorpresa lo attende. La vicina di casa, una signora anziana sordomuta, ha acceso la stufa; non è sua abitudine ma pensa subito ad un miracolo. La febbre lo rintrona. Risvegliandosi dal sonno agitato si accorge di aver scritto: - Porterò le mie ossa nella terra natia - combatterò contro i furiosi venti che si oppongono al mio cammino. Contrasterò le maree che rivoluzionano i moti antichissimi del mare. Riporterò le mie ossa a casa. E spero di non farlo come il Capitano di Withman!
Rileggendo sorride.
Giorni d’usati riti e ritmi ripetitivi, vita fatta di pastine liofilizzate e la carne secca era un lusso. Piove, l’ambiente è costantemente umido e nevoso, e la temperatura esterna sale a zero gradi. La sera prima con grande stupore aveva visto Uccellacci e Uccellini di Pier Paolo Pasolini a Tele Travnik, con i sottotitoli in serbo–croato, ma nel momento in cui Totò e Davoli errando incontrano Luna, l’emittente ha pensato bene di abbandonarlo regalandogli quel fenomeno detto “neve“; ironia della sorte. Ha dormito sopra il divano in cucina, per non sprecare il caldo emanato dalla stufa. Nel sogno Senàd gli diceva: - Dijeliti. Ostati. Letjeti. Citav susjedan. Citav dalek Partire. Rimanere. Volare. Tutto vicino. Tutto lontano.
Senàd è un mutilato di guerra e ha imparato l’italiano nell’ospedale di Brescia dove è stato in cura; ha una protesi alla gamba, amputata completamente in seguito alle ferite riportate nello scoppio di una granata. Senàd ha perso un braccio e una gamba ma la sua forza di spirito gli fa dimenticare ben presto le mutilazioni. Lui è il traduttore e futuro amico.
Le giornate rimbalzano veloci tra incontri ufficiali e il taglio della legna, libri letti e trascrizioni d’appunti di lavoro. La casa si trasforma in un porto di mare dove approdano le sfortune del mondo. In altri momenti è una landa desolata e solitaria dove solo l’orologio a muro, rumorosissimo, rompe il silenzio, nemmeno di notte dà tregua e duetta folli melodie con i rubinetti che è impossibile chetare totalmente. Quell’avventura di viaggiatore parziale gli creava sensazioni differenti: solitudine a volte, ritmi lavorativi e pura sopravvivenza.
La sordomuta vicina–fuochista entra in casa e mette in funzione la lavatrice, una delle poche del palazzo, accende la tv e segue distrattamente i campionati di pattinaggio artistico. Con innumerevoli movimenti del capo e pochi suoni gutturali comprensibili si lamenta del tempo e della salute, poi scompare lasciandogli la televisione mal sintonizzata e lui scopre quanta compagnia può dare il nuovo rumore di sottofondo.
Trascorre la serata in famiglia da Vesna, con i figli e la nipotina: sarma e agnello, baklava e grappa croata. Alla pace di quel momento non c’era altro da aggiungere e come tutti aspettava il Bajram, la fine del digiuno.
Le ombre intabarrate vanno e vengono dalle lontane periferie. Avrebbe voluto essere un poeta di strada e alleviare un poco la via crucis di quella gente. Desiderava trasformarsi in un suonatore di fisarmonica e accompagnare quelle vite alla partenza e al loro ritorno.
Tuffi repentini in storie lette a perdifiato dopo giornate trascorse a parlare, ascoltando voci diverse: l’italiano stentato, l’inglese, il bosniaco. Confessava e se stesso che immergersi in incontri più o meno ufficiali e subito dopo ritornare nel completo anonimato, era squilibrante e si accorgeva di vivere più vite nello stesso momento. Ricordava chi era veramente solo quando si vedeva riflesso in un vetro a specchio, e in quel momento si accorgeva di avere fame, sonno o freddo.
Andava alla ricerca dei locali più vecchi, anonimi a volte, dove i ritmi rappeggianti della musica non erano ancora entrati. Per staccare un momento dal lavoro si ferma in un bar della Bosanska per un caffè alla turca - Jedan bosanka kava, molim - e guarda il mondo esterno; nella strada osserva il procedere di una folla funerea che vaga.
La radio trasmette il radio giornale mentre lui apre una scatola di sardine croate sopra un ex specchiera che funge da tavolo. Le pagine dei resoconti delle giornate sono appuntati ovunque; annotazioni di telefonate, liste della spesa, e tanti foglietti su cui scrive: ricordati di ricordare.
La casa è carica di rumori notturni, palpitazioni e spari, cigolii e colpi di granate. Si esprime in quel modo. Gli racconta che le tende di stoffa pesante servivano per l’oscuramento. I tappeti male in arnese parlano di passi scalzi - di scarpe abbandonate sulla soglia. Sussurrano di tacchi infangati e prostrate preghiere, cerimonie casalinghe e orazioni in sordina.
A casa di Senàd s’immerge nella realtà famigliare calda e affettuosa. La mamma anziana di Alma racconta i viaggi di gioventù: Trst, Venezia, Istanbul, e ancora le s’illuminano gli occhi ricordando le piazze e le strade, soprattutto ricorda con piacere la spensieratezza dei tempi della pace. Con molta naturalezza Senàd si infila la protesi alla gamba ed escono da casa, chiacchierano ridendo sonoramente dei guai della vita, diretti a un incontro con il responsabile degli Invalidi Civili. Il caffè alla turca e i biscotti d’osso gli hanno lasciato un buon gusto in bocca che passerà presto.
Insieme al direttore della scuola di musica, dopo aver parlato delle emergenze dell’Istituto, si ritrova a discorrere di Vivaldi, Bach, Berlioz e naturalmente di Giuseppe Verdi. Piccole mani - sopra i tasti di un lontano pianoforte - rendono i raggi del sole più caldi.
Nel pomeriggio sale lentamente le colline, e attraversato un gruppi di case fatiscenti si ritrova a una curva “sacra”. La strada separa il cimitero ortodosso da quello mussulmano, entrambi nel raggio di cinquanta metri, solo una piccola carrareccia di montagna li divide. Il cimitero ortodosso è recintato mentre in quello mussulmano le galline si rincorrono e beccano insetti sulle lapidi inclinate. La neve si scioglie al sole: passi nel fango, animali da cortile, tetti di metallo e gli echi continui in lontananza delle mine esplose per bonificare le campagne.
Il panorama è totalmente cambiato, la neve si è disciolta e Sarajevo con il sole è una nuova città. Nella parte vecchia del centro l’uomo è alla ricerca di un artigiano che intaglia maschere utilizzando le canne di fiume: indicazione che ha avuto per caso in un bar di Travnik. In Bosnia dicono: - Se hai bisogno di qualche cosa entra in un bar, siediti e parla a voce alta, prima o poi qualcuno ti aiuta.
Sull’autobus di una compagnia croata, che transita nei comuni herzeg-croati, rivive il ritorno a Travnik come un ritorno a casa: la Medresa, la scuola coranica, i minareti e il castello; dal minareto della moschea illuminata corre e tuona la preghiera serale.
I cavoli ingialliti spuntano da terra con le foglie ubriache dopo il disgelo. L’erba è sdraiata nel fango, pettinata con le astratte scriminature del congelato riposo. I vetri delle case protetti con nastro adesivo e plastica colorata, mutano i palazzi in pampani verticali – un gioco per acrobati.
Tra il flusso di camion e gente, come una visione, il carro di legno con le ruote d’automobile sale lentamente; arranca le piccole strade che portano ai villaggi. Il carro è trainato da uno stanco ronzino, con gli zoccoli protetti dai ferri ramponati percorre la strada coperta di ghiaccio. Il carro trasporta una famiglia mussulmana. I corpi sono travagliati dall’incessante gelido vento che taglia la valle. Una perfetta linea d’ombra avanza, una linea netta che decisamente sancisce due stagioni. La famiglia seduta nel pianale del carro traballante procede dall’inverno alla primavera. Per un attimo si ritrova a pensare che potrebbe essere una famiglia di angeli. Angeli laceri in viaggio chissà per dove con le ali nascoste dalle divise mimetiche sdrucite; chissà se gli angeli attendono solo il momento giusto per compiere un miracolo.
Il cielo è scuro e annuncia la tempesta. Piccoli spilli di grandine discendono in vortice dalle nuvole basse. Lui fissava i corpi allacciati dei pattinatori sul ghiaccio. L’unione, la sincronia dei movimenti; anime in pieno accordo. Sincrono e asincrono, nemici e alleati. Disunione. Distacco. Allontanamento. Stringere la mano nel saluto con un caldo trasporto d’affetto, è ancora un miraggio nel mare di tristezza intorno. Vedeva e non vedeva. Tirava avanti. Rimaneva in vita. Il suo era un tuffo nella realtà con metà del corpo, il resto lo lasciava saldo sulla riva.
Malediva la notte e benediva il Gin. Trascorre ore ed ore della notte sveglio. E la mente instancabile trasmigra di valle in valle, di costa in costa; circumnaviga rotondi pensieri per poi ritrovarsi all’idea di partenza. In quel modo passano le ore, tra un tirare di coperta e un arriccio al cuscino, guardava il buio, oppure rimaneva con gli occhi chiusi per continuare il viaggio immaginario. Viveva rapide visioni e luccichii, sorvolava e scivolava attraverso ricordi e desideri. Diventavano allucinazioni le immagini perfette dei ricordi estivi, tanto precise che al mattino si ritrova abbronzato e la pelle con le tracce di sale profumava d’erbe mediterranee.
Ritornato alla realtà si accorse che fuori continuava a nevicare: una donna anziana spinge il carretto e il rumore di vetri infranti incide la candida coltre spessa, lasciando effimeri intagli.
Domenica delle palme: nella chiesa cattolica i fedeli portano rami di abete e mazzi di fiori sbiaditi che prendono il ruolo della classica palma pasquale; la benedizione avviene all’esterno, in un silenzio irreale. Un gruppo di soldati danesi controlla le strade con i mitra spianati. Terminata la funzione la gente si disperde lentamente. I mazzi verdi e le timide corolle in fiore sono un messaggio di normalità nonostante i blindati schierati a protezione.
Durante la festa del secondo Bajram, detto il Bajram del dono, si cucina l’agnello alla brace e i bambini ne portano una parte ai vicini di casa più poveri. E’ un’antica tradizione, ma quel giorno la festa aveva l’amaro in bocca; le strade sono deserte, tutto è lento e irreale, intorpidito, triste. Un sorriso amaro. Alle tombe sparse in città i parenti recano in dono pane e fiori. Le famiglie si siedono sulla pietra sepolcrale e con il palmo delle mani rivolto al cielo pronunciano ringraziamenti, suppliche e preghiere.
Al mercato di Travnik, tra il fango e le mercanzie varie formicolano uomini e donne. Le povere cose giacciono sopra banchi di assi inchiodate alla meglio, i legni consunti formano pianali e tettoie del tutto inutili contro la pioggia a stravento. Le impronte dei passi nelle pozzanghere di neve disciolta, disegnano linee e cerchi, rombi e intagli sagomati dai tacchi di scarpe sfondate. Passi veloci in un ballo di umidi allacciamenti casuali, urti e scarti improvvisi. Le persone provenienti dai villaggi intorno trasportano sopra i carri trainati dai cavalli montagne di legna. Un ragazzo vende la vecchia lavatrice, altri smerciano bottiglie di plastica con il latte appena munto.
La sede locale della Caritas, di fronte al piazzale, distribuisce i pacchi d’aiuti umanitari; scatole di cartone fradicio passano di mano in mano.
Mercato da definirsi quasi d’Oriente se non fosse per la completa mancanza di esotici profumi, di certo un mercato balcanico: donne mussulmane con i larghi pantaloni colorati, figure tzigane, barbe, baffi e nere giacche di pelle che hanno visto tempi gloriosi. Aria zingaresca, visi che hanno visto da poco la guerra e che sicuramente avrebbero tante altre guerre da raccontare.
Questa terra ha visto eserciti turchi, austriaci, francesi, tedeschi, italiani e poi croati e serbi. Quali pensieri possono rilassare l’atmosfera - si chiede.
Il mercato all’aperto è situato vicino ad un antico palazzo e un’ala è occupata dalla Casa dei Rifugiati. Le finestre con i vetri rotti dalle esplosioni e dalle fucilate, sono stati riparati utilizzando i ritagli di plastica che porta la scritta dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. I tubi di scarico delle stufe fuoriescono dalle finestre con lievi accenni di fumo, visi di anziani sbirciano l’esterno con domande inespresse sulle labbra; loro sono i meno fortunati, privati di casa e di terra dove andare. Lui prova una rabbia interna, rabbia perché è questo il risultato della guerra: muti spettatori - vite in attesa di chissà che cosa. E’ sconvolgente vedere quanto le tragedie, alla lunga, sono accettate e intorno alla sofferenza si sopravvive, si vive, si arricchiscono le grandi famiglie e i ladri di vari livelli. Non esistono eroi ma solo vinti: il migliore amico saltato in aria su di una mina, il vicino di casa colpito da una granata, storie di sangue e armi, ma soprattutto di lacrime, rabbia e paura, nessuno racconta quanti avversari ha ucciso. E’ passato solo un anno dalla firma degli accordi di Dayton e la speranza è che, il più velocemente possibile, tutto possa riprendere una posizione eretta e ricominciare una nuova vita, ma la consapevolezza della difficile strada è nota a tutti. - Qualcuno sostiene che l’Europa vuole anche i bosniaci, per farne che cosa - gli domandano.
I cimiteri mussulmani sorgono ovunque, vicino al castello turco e nei giardini della città; vita e morte in una convivenza silenziosa. Le tombe portano date recenti, ricordano l’assedio e l’isolamento della città che ha combattuto serbi e croati. Le tombe sono poste in mezzo alle lapidi antiche. La neve si scioglie e le ferite di questa terra divengono sempre più visibili. In quel disgelo lui resta ad osservare, giorno dopo giorno, il lievitare delle verità.
Con Senàd e famiglia si reca a Turbe, prima linea dell’esercito bosniaco. Le case appaiono completamente distrutte; nella linea di fuoco sorgevano tre fabbriche che hanno ripreso un minimo di produzione da poco tempo. Le mine antiuomo sono ancora moltissime, con difficoltà tentano di bonificare il terreno e negli ultimi tempi gli ordigni hanno causato cinque vittime e venticinque feriti. E’ una visione terribile, le case colpite sono la maggioranza.
Senàd gli racconta che durante la guerra gli uomini sono rimasti in paese e solo per questa resistenza qualche cosa si è salvato dalla distruzione totale. Le donne e i bambini portati in salvo a Travnik, rifugiati nelle cantine al riparo dalle granate.
Con immenso orgoglio gli mostrano la loro casa. Un aborto grigio ricavato dietro la casa dei genitori anziani, una vera casa delle campagne bosniache: bassa con assiti di legno nella facciata tamponata con il fango e intonacata alla peggio. Le porte e le finestre minuscole, per non disperdere il calore. Le nebbie montane permettono la visibilità per trenta metri, il resto del panorama è sprofondato in un mare di latte sospeso a mezz’aria.
Ombre di camion, persone e carri trainati da cavalli. La neve è scomparsa e l’umido insopportabile gli riporta la mancanza dell’aria che sa di salsedine. Nella landa non esiste l’idea del mare, non c’è oceano in cui tuffarsi e fuggire. Il luogo è un imbuto tra il monte Vlasic e le colline intorno, una sacca con scritte in arabo e foto di Tito, cartelli pubblicitari della Seven-up e i palazzi dei Visir, caseggiati austroungarici e videoteche, bar rumorosi, moschee litaniche, chiese cattoliche e pani del ramadan.
I nomi delle vie sono cambiati, ma servirà a poco; la Marsala Tita è la Bosanska e le vie partigiane sono state dedicate ai martiri mussulmani.
Le erbe miracolose esposte sopra un muretto della Bosanska e decantate da uomini e donne delle campagne, provengono da Guca Gora, Dolac, Han Bila, Mehurici: paesi fantasma sparsi in un corpo di terra martoriato, che da poco tempo ha disperso l’odore della cenere. Purtroppo nei cuori e nelle chiocciole uditive rimangono frammenti di spari e discorsi paurosi. Quello che pesa di più è la memoria di chi è assente e assente resterà per sempre.
Dopo la nottata di vento e pioggia il mattino si presenta imbiancato di neve; neve fresca e vento. I rumori sono ovattati da invisibili silenziatori - immagini di un film muto. Tossicchiano piano anche i cani, sempre rumorosi a bestemmiare guaiti al cielo. Chissà quando si scioglierà la neve che copre i solchi di terra - fenditure arate e seminate nell’attesa di nuovi raccolti. Chissà quante ferite sanguineranno ancora al sole della Primavera.
- Gli insetti cominciano a farsi vedere, ma gli angeli no! Dove sono gli angeli?
Le colline scoscendono al mare, e il mare in silenzio penetra in profondità. Procedevano incolonnati in una “Carovana della Pace” e spingendo i furgoni in avaria, si dirigevano verso il confine sloveno, attraverso la tetra terra di nessuno.
Forse era solo un’idea ma nell’aria si respirava un profumo diverso, di tensione.
Il sole tramutò in foschia, quindi in pioggia e arcobaleno. Il “percorso” riprendeva forma e non per un luogo preciso; in Slovenia, Bosnia e Croazia, l’odio aveva vinto sulla ragione e distrutto anni di tolleranza. Lui provava un lieve senso di colpa; forse era mosso semplicemente dall’istinto e dal desiderio di un eterno nomadismo, in un mondo formato da pezzi disordinati d’anime diverse che protendevano le mani l’un l’altro, ma non per stringersi nel saluto fraterno. Si ritrovò a pensare quando avrebbe rivisto semplici accenni di sorrisi nelle bocche chiuse a trattenere la rabbia.
Ovattati dai vetri appannati, attraversano boschi e superano i passi di montagna per poi ridiscendere nella direzione di Ryeka. Fuori città avviene la consegna di una parte dei medicinali destinati a Sarajevo, quindi ripartono per il sud seguendo la strada costiera a picco sul mare, diretti nei campi profughi ospitati negli alberghi e presso i campeggi della costa.
L’uomo ricordava un viaggio di gioventù, quando era quasi un obbligo visitare la zingaresca Jugoslavia: cevapcici, raznjici, i laghi di Plitvice, Dubrovnik, Mostar e Sarajevo - altri tempi.
In un bar di Senj avviene l’incontro con un camionista italiano appena giunto da Mostar che, per l’immaginario collettivo, era l’assurdo simbolo della guerra - la città sacrificale.
A Mostar non si spara da due giorni – ripeteva l’autista – se fate presto potete farcela. Il gruppo rivoluziona i progetti iniziali decidendo di portare il carico di medicine direttamente nel cuore di quello sfacelo. Il rischio è alto, ma la forte volontà allontana ogni ragionamento razionale.
I ponti sulla costa sono stati minati. Impiegano dieci ore, un tempo lunghissimo, di code chilometriche agli imbarchi dei traghetti improvvisati. La strada si trasforma in una striscia grigia, punteggiata dai camion carichi d’aiuti per le diverse zone di guerra. Grossi cartelli con il simbolo della croce rossa sono utilizzati per riuscire a passare attraverso i posti di blocco presidiati da nervosi soldati armati.
Alla periferia di Zara la parola “guerra” prende consistenza. Le prime case distrutte: fori di pallottole e schegge di granata, non una persona per strada, l’atmosfera è decisamente opprimente. I posti di blocco si susseguono uno dopo l’altro e uno qualsiasi di questi potrebbe diventare il termine del viaggio, per il momento il lasciapassare artigianale assolve lo scopo: due linee di pennarello rosso intersecate in una croce.
A Spalato trovano ospitalità per la notte nella Cattedrale di Petra. Le immagini sacre e i sacchi a pelo, sistemati nella sacrestia, gli riportano alla mente le messe beat degli anni settanta.
Le code sono interminabili nelle vicinanze dei ponti bombardati. Il silenzio vince ogni battuta di spirito e le memorie di ciascuno restano congelate nell’attesa. Sopra la città di Mostar si avvertono spari in lontananza. Lentamente entrano in città e chiedono informazioni per la vecchia scuola, che funge da centro di raccolta dei medicinali, trasformata nella sede del Centro Profughi. Attraversano le strade devastate. La città è mutilata, interi palazzi bruciati e distrutti.
Con i responsabili del centro di raccolta organizzano le modalità di distribuzione per ogni entità. E’ un momento difficile. Contornati da bambini tristi e curiosi scaricano il camion e nello stesso tempo annusano l’aria che sa di fumo, di mafia, di dubbi e deboli certezze. Il tempo di permanenza in città non può essere prolungato per molto tempo, da un momento all’altro tutto può ricominciare.
Vecchia città di Mostar. Un bimbo impazzito prende a calci la città di sabbia, costruita in riva al fiume. Furioso scalcia – urla - stringe i denti, come gli costasse fatica quel moto di rabbia. Prende un carboncino da terra e lentamente disegna sul viso tratti guerrieri. Alza fiero lo sguardo e piange.
Il paesaggio intorno è fuoriuscito da una tasca rovesciata: macerie, rovine e resti carbonizzati. In alto, sul mondo devastato, a monito resta il ponte antico. Un urlo. Un pianto. Soltanto il ponte resta in piedi; sarà minato e abbattuto dopo poco tempo.
Non si è salvata la Moschea e neppure la Basilica. Vicino alle case ancora in piedi la vita continua e dall’interno dei bar improvvisati escono musica araba e soldati ubriachi. Le armi sono ostentatamente esibite dagli uomini in mimetica che gironzolano sfaccendati. I giovani “Rambo” imberbi controllano i documenti: Slavo ha diciannove anni, un padre serbo, una madre croata e il mitragliatore russo.
La costa croata si avvicina dentellata da piccole isole e promontori. Sono le sette del mattino e il sole è decisamente caldo; il ponte del traghetto luccica dei restauri recenti apportati con la lana di vetro spennellata per nascondere le bozze dei secoli. Su di una panca, imbottita dal sacco a pelo, lui fuma e scrive mentre Spalato ingigantisce di fronte.
L’uomo partecipa a una spedizione ridotta, destinata ai campi profughi dell’isola di Korcula gestiti dalla Croce Rossa Croata. I campi sono riservati ai serbo-croati e seicento mussulmani sono accolti in altri attendamenti sulla costa. In riva al mare, increspato dalle brezze fresche, l’odore della guerra non si sente.
La vita nel campo di Korcula procede come se la guerra fosse lontanissima. La maggioranza dei profughi sono donne e bambini; i pochi vecchi ciondolano fumando, altri restano fermi ad osservare il vuoto. Il livello di depressione è alto e tangibile: post trauma stress, pontifica la scienza.
L’orso di pezza diventa il gioco della giornata e i bambini si lasciano andare a una circospetta confidenza. Tentano di fargli capire da dove vengono scavando strade immaginarie sulla sabbia, nella fantasiosa carta geografica tradotta a gesti. Gli occhi riportano immagini impresse con il fuoco. Nelle cortine di fumo hanno visto. Altri hanno immaginato di vedere cose terribili nel buio. Le notti trascorse nelle terre sconvolte hanno seccato le labbra, la saliva e le parole. I giochi d’infanzia negati si sono ridotti a corse in sordina.
Sarajevo è coperta di neve. Le gocce d’acqua congelate in stalattiti lattiginose: chiese, moschee e cumuli di neve solidificata sporca di cenere e fango. L’uomo è ospite di una famiglia mussulmana: padre, madre e due figli. La stanza da letto che gli offrono è quella che non hanno utilizzato durante i quattro anni di guerra, perché esposta alla linea di fuoco serba. I fogli di plastica sostituiscono i vetri distrutti dai colpi dell’artiglieria; lui dalla finestra osserva la neve e gli uomini alleati in geometrie di follia - trincee di fango – labirinti.
Seduti attorno al tavolo discutono di speranze, richiamando alla mente il terrore che si è impadronito di tutto e tutti negli ultimi quattro anni. Si rinnovano i racconti di una città ridotta ai minimi termini, stremata nel rigido inverno bosniaco.
Per strada le persone avanzano lentamente ripiegate dal vento gelido del monte Igman. Hamo gli dice: - Prima della guerra amavo la montagna, adesso odio tutto ciò che è più alto di una collina, dall’alto di quel monte veniva la morte e gli spari dei cecchini, le granate, e le pallottole impazzite rimbalzavano ovunque.
Il direttore dell’ospedale gli racconta com’è stato possibile continuare a curare e operare i feriti nonostante la mancanza di luce, d’acqua e gas. Nell’ospedale non c’è più un vetro intatto, e attraverso la plastica i tramonti sono sempre rossi. I carrozzieri della città costruiscono protesi nella penombra.
Le parole non riescono a salire l’inciampo della bocca. Navigava silenzioso in attesa dell’alba - naufrago sospeso nel distacco. Si rese conto di quanto lascerà indietro per un po’ di tempo. Non provava dolore. Era l’amour che gli tornava alla mente: il foulard color arancio in contrasto con il cielo plumbeo alle sue spalle.
Nel bar della nave, diretta a Split, si ritrovò a leggere “Il paese delle ultime” cose di Paul Auster. Un aperitivo triste e amaro, dove le città distrutte e i popoli dispersi lo cullavano su di un mare sospiroso nella notte.
Lo sbarco. I controlli. Il solito film già visto, messo in atto da scorbutici doganieri che sembravano cercare nei suoi bagagli la mappa dell’Isola del tesoro. Ma perché cercare tra le calze – si chiedeva.
Lasciava alle sue spalle la costa, abbandonava il mare seguendo la strada che saliva le montagne puntando decisamente la Bosnia, in direzione di Travnik.
Trova una sistemazione nel quartiere popolare di Kalibunar in una casa che non ha più nulla delle caratteristiche tipiche dei ricoveri umani: i vetri inesistenti, la luce elettrica va’ e viene, i tubi dell’acqua sono congelati e la stufa a legna bosniaca con il carattere zingaresco è in vena di sorprese affumicanti.
L’ambiente intorno è caratterizzato dai cortili infangati, palazzi operai squadrati e severi, carcasse di automobili e cumuli di immondizia. Le piccole baracche di legno, improvvisato decentramento di spacci alimentari, sono distribuite intorno al quartiere e vendono un po’ di quel poco che hanno. Nelle viuzze i bambini spaccano la legna e si rincorrono scivolando sul ghiaccio come ubriachi di rakija. Gli slittini improvvisati sfrecciano raschiando l’asfalto della strada. La coltre di neve attutisce le voci dei passanti e le trasforma in pigolii di uccelli infreddoliti.
Nevica nel cuore della notte.
E’ il primo giorno di Ramadan e dalla moschea il piccolo corteo esce lentamente sotto la pioggia. La sua anima è allerta e ricerca immagini nuove; si sentiva un cacciatore disarmato che insegue la preda.
I rumori esterni sono ovattati dalla neve caduta durante la notte, il bianco totale nasconde le cataste di legna, i buchi delle granate e le strade sconnesse. Le persone che osserva dalla finestra lentamente tracciano percorsi sempre più larghi nell’oceano bianco, alla ricerca di rimasugli di rami e tronchi.
Dentro casa si veste di tutto punto per fronteggiare il freddo, non riesce ad apprezzare la differenza tra il dentro e il fuori. Il pappagallo reclama il pasto strillando e lui chino sulla radio cerca di afferrare qualche parola da un’emittente italiana che si dissolve in scariche elettriche per poi tacere definitivamente.
La strada per Sarajevo è delimitata dai campi innevati, punteggiati di persone, dove le anime disperse da un creatore frettoloso si muovono per le campagne cercando legna o foglie di cavoli congelati. Scavano cumuli di neve e fango al ciglio della strada che porta in città. I fantasmi sono smossi dallo spostamento d’aria dei camion militari che sfrecciano veloci. Ombre indistinte in un pezzo d’artico alla deriva.
Si ritrova a percorrere lo stessa tragitto di tanti anni prima, reso diverso e triste da quello che lo circonda. Le case distrutte dalle granate sono intatte nei muri ma completamente bruciate all’interno, la Biblioteca Nazionale è uno scheletro che fatica a vincere la forza di gravità. Paesaggi convulsi nella legge della sopravvivenza.
Incontra il responsabile del Centro Anziani e visita le mense popolari, discutendo con gli operatori dei bisogni e delle emergenze. In ogni incontro prende appunti e compila una relazione da presentare a Sarajevo, nella sede dell’agenzia delle Nazioni Unite che segue il progetto di ricostruzione.
Nel pomeriggio sale il monte Vlasic: la prima linea tra le forze serbe e mussulmane. I paesi sul monte non esistono più, restano solo rovine, campi minati e neve. Prima della guerra era un luogo di villeggiatura, attrezzato con impianti sciistici – gli dice Ado. Le nuvole portate dal gelido vento si arruffano sull’altipiano, la sua mente è ovattata dal bianco impalpabile. Ritornando in città si accorse che iniziava ad osservare con il terzo occhio tutto quello che lo circondava. Dove dannazione si era nascosta la felicità?! – si chiedeva a denti stretti.
Pensava alla solitudine dell’uomo, la solitudine d’ogni singolo individuo di quella terra, quando la battaglia non dava tregua nelle vie della città e neppure dentro casa, quando non esistevano luoghi di pace. Valutava la tristezza, la tragedia di chi, rimasto solo, continuava a spingere il carro tra la neve e le buche delle granate, a chi ferito non aveva nessuno al capezzale. Considerava l’afflizione che fa perdere le forze e la voglia di continuare a vivere. La sorda solitudine che allontana la voglia di accendere la stufa e si porta via speranza e dignità.
Le sfavorevoli sintonie lo perseguitavano. Reclinato sulla radio come nell’attesa di un bollettino di guerra, muoveva la ricerca delle stazioni captando, per brevi attimi, dialoghi in italiano. In quei momenti la voce trasportava calore, avvicinava il mondo lontano, era un bisogno fisico nelle serate di completa solitudine. La Bosnia lo faceva sentire solo. Sarà l’odore di distruzione che ancora avvolgeva ogni angolo della città, come se l’eco di quattro anni di guerra fosse ancora intorno – e aleggia la solita domanda cui nessuno sa dare risposta: Perché tutto questo?
L’alloggio dista un chilometro dal centro cittadino e ogni giorno scende in città a piedi, mescolandosi ai viandanti dei villaggi intorno. Piegati dal vento vanno e vengono, figure indistinte spruzzate di neve finissima alzata dai camion sulla strada. Ovunque cataste di legna, ma quella secca è quasi un lusso.
Fuori delle porte ammassi di scarpe e ciabatte. Nelle case si cammina scalzi sopra tappeti e moquette millenarie. Ma tutto quello non era dolore. Il vero dolore è perdersi ad osservare gli sguardi che celano tristi memorie. La stufa di casa assesta la temperatura interna intorno ai cinque gradi, non lievita di un grado in tutta la giornata. Ma anche quello non era dolore. Aveva finito la scorta di tabacco e fumava sigarette americane o forti sigarette bosniache. Ma anche questo non era dolore. Pensava di aver riposto il dolore molto in profondità, non provava neppure lontanamente ad attribuirgli un nome, imparava a vivere senza gioia né dolore.
Esce per non essere solo. Una volta fuori casa si accorge d’essere nessuno. Passeggia nella parte vecchia della città come un essere invisibile. Il forte, la moschea, il fiume. Gli stagni della pesca alla trota sono completamente congelati e la galaverna ha immobilizzato magicamente foglie ed alberi.
Ritorna a casa annientato da quella che sicuramente si è trasformata in influenza. S’incammina alla capanna di Gesù bambino, senza comete né Re Magi, ma una sorpresa lo attende. La vicina di casa, una signora anziana sordomuta, ha acceso la stufa; non è sua abitudine ma pensa subito ad un miracolo. La febbre lo rintrona. Risvegliandosi dal sonno agitato si accorge di aver scritto: - Porterò le mie ossa nella terra natia - combatterò contro i furiosi venti che si oppongono al mio cammino. Contrasterò le maree che rivoluzionano i moti antichissimi del mare. Riporterò le mie ossa a casa. E spero di non farlo come il Capitano di Withman!
Rileggendo sorride.
Giorni d’usati riti e ritmi ripetitivi, vita fatta di pastine liofilizzate e la carne secca era un lusso. Piove, l’ambiente è costantemente umido e nevoso, e la temperatura esterna sale a zero gradi. La sera prima con grande stupore aveva visto Uccellacci e Uccellini di Pier Paolo Pasolini a Tele Travnik, con i sottotitoli in serbo–croato, ma nel momento in cui Totò e Davoli errando incontrano Luna, l’emittente ha pensato bene di abbandonarlo regalandogli quel fenomeno detto “neve“; ironia della sorte. Ha dormito sopra il divano in cucina, per non sprecare il caldo emanato dalla stufa. Nel sogno Senàd gli diceva: - Dijeliti. Ostati. Letjeti. Citav susjedan. Citav dalek Partire. Rimanere. Volare. Tutto vicino. Tutto lontano.
Senàd è un mutilato di guerra e ha imparato l’italiano nell’ospedale di Brescia dove è stato in cura; ha una protesi alla gamba, amputata completamente in seguito alle ferite riportate nello scoppio di una granata. Senàd ha perso un braccio e una gamba ma la sua forza di spirito gli fa dimenticare ben presto le mutilazioni. Lui è il traduttore e futuro amico.
Le giornate rimbalzano veloci tra incontri ufficiali e il taglio della legna, libri letti e trascrizioni d’appunti di lavoro. La casa si trasforma in un porto di mare dove approdano le sfortune del mondo. In altri momenti è una landa desolata e solitaria dove solo l’orologio a muro, rumorosissimo, rompe il silenzio, nemmeno di notte dà tregua e duetta folli melodie con i rubinetti che è impossibile chetare totalmente. Quell’avventura di viaggiatore parziale gli creava sensazioni differenti: solitudine a volte, ritmi lavorativi e pura sopravvivenza.
La sordomuta vicina–fuochista entra in casa e mette in funzione la lavatrice, una delle poche del palazzo, accende la tv e segue distrattamente i campionati di pattinaggio artistico. Con innumerevoli movimenti del capo e pochi suoni gutturali comprensibili si lamenta del tempo e della salute, poi scompare lasciandogli la televisione mal sintonizzata e lui scopre quanta compagnia può dare il nuovo rumore di sottofondo.
Trascorre la serata in famiglia da Vesna, con i figli e la nipotina: sarma e agnello, baklava e grappa croata. Alla pace di quel momento non c’era altro da aggiungere e come tutti aspettava il Bajram, la fine del digiuno.
Le ombre intabarrate vanno e vengono dalle lontane periferie. Avrebbe voluto essere un poeta di strada e alleviare un poco la via crucis di quella gente. Desiderava trasformarsi in un suonatore di fisarmonica e accompagnare quelle vite alla partenza e al loro ritorno.
Tuffi repentini in storie lette a perdifiato dopo giornate trascorse a parlare, ascoltando voci diverse: l’italiano stentato, l’inglese, il bosniaco. Confessava e se stesso che immergersi in incontri più o meno ufficiali e subito dopo ritornare nel completo anonimato, era squilibrante e si accorgeva di vivere più vite nello stesso momento. Ricordava chi era veramente solo quando si vedeva riflesso in un vetro a specchio, e in quel momento si accorgeva di avere fame, sonno o freddo.
Andava alla ricerca dei locali più vecchi, anonimi a volte, dove i ritmi rappeggianti della musica non erano ancora entrati. Per staccare un momento dal lavoro si ferma in un bar della Bosanska per un caffè alla turca - Jedan bosanka kava, molim - e guarda il mondo esterno; nella strada osserva il procedere di una folla funerea che vaga.
La radio trasmette il radio giornale mentre lui apre una scatola di sardine croate sopra un ex specchiera che funge da tavolo. Le pagine dei resoconti delle giornate sono appuntati ovunque; annotazioni di telefonate, liste della spesa, e tanti foglietti su cui scrive: ricordati di ricordare.
La casa è carica di rumori notturni, palpitazioni e spari, cigolii e colpi di granate. Si esprime in quel modo. Gli racconta che le tende di stoffa pesante servivano per l’oscuramento. I tappeti male in arnese parlano di passi scalzi - di scarpe abbandonate sulla soglia. Sussurrano di tacchi infangati e prostrate preghiere, cerimonie casalinghe e orazioni in sordina.
A casa di Senàd s’immerge nella realtà famigliare calda e affettuosa. La mamma anziana di Alma racconta i viaggi di gioventù: Trst, Venezia, Istanbul, e ancora le s’illuminano gli occhi ricordando le piazze e le strade, soprattutto ricorda con piacere la spensieratezza dei tempi della pace. Con molta naturalezza Senàd si infila la protesi alla gamba ed escono da casa, chiacchierano ridendo sonoramente dei guai della vita, diretti a un incontro con il responsabile degli Invalidi Civili. Il caffè alla turca e i biscotti d’osso gli hanno lasciato un buon gusto in bocca che passerà presto.
Insieme al direttore della scuola di musica, dopo aver parlato delle emergenze dell’Istituto, si ritrova a discorrere di Vivaldi, Bach, Berlioz e naturalmente di Giuseppe Verdi. Piccole mani - sopra i tasti di un lontano pianoforte - rendono i raggi del sole più caldi.
Nel pomeriggio sale lentamente le colline, e attraversato un gruppi di case fatiscenti si ritrova a una curva “sacra”. La strada separa il cimitero ortodosso da quello mussulmano, entrambi nel raggio di cinquanta metri, solo una piccola carrareccia di montagna li divide. Il cimitero ortodosso è recintato mentre in quello mussulmano le galline si rincorrono e beccano insetti sulle lapidi inclinate. La neve si scioglie al sole: passi nel fango, animali da cortile, tetti di metallo e gli echi continui in lontananza delle mine esplose per bonificare le campagne.
Il panorama è totalmente cambiato, la neve si è disciolta e Sarajevo con il sole è una nuova città. Nella parte vecchia del centro l’uomo è alla ricerca di un artigiano che intaglia maschere utilizzando le canne di fiume: indicazione che ha avuto per caso in un bar di Travnik. In Bosnia dicono: - Se hai bisogno di qualche cosa entra in un bar, siediti e parla a voce alta, prima o poi qualcuno ti aiuta.
Sull’autobus di una compagnia croata, che transita nei comuni herzeg-croati, rivive il ritorno a Travnik come un ritorno a casa: la Medresa, la scuola coranica, i minareti e il castello; dal minareto della moschea illuminata corre e tuona la preghiera serale.
I cavoli ingialliti spuntano da terra con le foglie ubriache dopo il disgelo. L’erba è sdraiata nel fango, pettinata con le astratte scriminature del congelato riposo. I vetri delle case protetti con nastro adesivo e plastica colorata, mutano i palazzi in pampani verticali – un gioco per acrobati.
Tra il flusso di camion e gente, come una visione, il carro di legno con le ruote d’automobile sale lentamente; arranca le piccole strade che portano ai villaggi. Il carro è trainato da uno stanco ronzino, con gli zoccoli protetti dai ferri ramponati percorre la strada coperta di ghiaccio. Il carro trasporta una famiglia mussulmana. I corpi sono travagliati dall’incessante gelido vento che taglia la valle. Una perfetta linea d’ombra avanza, una linea netta che decisamente sancisce due stagioni. La famiglia seduta nel pianale del carro traballante procede dall’inverno alla primavera. Per un attimo si ritrova a pensare che potrebbe essere una famiglia di angeli. Angeli laceri in viaggio chissà per dove con le ali nascoste dalle divise mimetiche sdrucite; chissà se gli angeli attendono solo il momento giusto per compiere un miracolo.
Il cielo è scuro e annuncia la tempesta. Piccoli spilli di grandine discendono in vortice dalle nuvole basse. Lui fissava i corpi allacciati dei pattinatori sul ghiaccio. L’unione, la sincronia dei movimenti; anime in pieno accordo. Sincrono e asincrono, nemici e alleati. Disunione. Distacco. Allontanamento. Stringere la mano nel saluto con un caldo trasporto d’affetto, è ancora un miraggio nel mare di tristezza intorno. Vedeva e non vedeva. Tirava avanti. Rimaneva in vita. Il suo era un tuffo nella realtà con metà del corpo, il resto lo lasciava saldo sulla riva.
Malediva la notte e benediva il Gin. Trascorre ore ed ore della notte sveglio. E la mente instancabile trasmigra di valle in valle, di costa in costa; circumnaviga rotondi pensieri per poi ritrovarsi all’idea di partenza. In quel modo passano le ore, tra un tirare di coperta e un arriccio al cuscino, guardava il buio, oppure rimaneva con gli occhi chiusi per continuare il viaggio immaginario. Viveva rapide visioni e luccichii, sorvolava e scivolava attraverso ricordi e desideri. Diventavano allucinazioni le immagini perfette dei ricordi estivi, tanto precise che al mattino si ritrova abbronzato e la pelle con le tracce di sale profumava d’erbe mediterranee.
Ritornato alla realtà si accorse che fuori continuava a nevicare: una donna anziana spinge il carretto e il rumore di vetri infranti incide la candida coltre spessa, lasciando effimeri intagli.
Domenica delle palme: nella chiesa cattolica i fedeli portano rami di abete e mazzi di fiori sbiaditi che prendono il ruolo della classica palma pasquale; la benedizione avviene all’esterno, in un silenzio irreale. Un gruppo di soldati danesi controlla le strade con i mitra spianati. Terminata la funzione la gente si disperde lentamente. I mazzi verdi e le timide corolle in fiore sono un messaggio di normalità nonostante i blindati schierati a protezione.
Durante la festa del secondo Bajram, detto il Bajram del dono, si cucina l’agnello alla brace e i bambini ne portano una parte ai vicini di casa più poveri. E’ un’antica tradizione, ma quel giorno la festa aveva l’amaro in bocca; le strade sono deserte, tutto è lento e irreale, intorpidito, triste. Un sorriso amaro. Alle tombe sparse in città i parenti recano in dono pane e fiori. Le famiglie si siedono sulla pietra sepolcrale e con il palmo delle mani rivolto al cielo pronunciano ringraziamenti, suppliche e preghiere.
Al mercato di Travnik, tra il fango e le mercanzie varie formicolano uomini e donne. Le povere cose giacciono sopra banchi di assi inchiodate alla meglio, i legni consunti formano pianali e tettoie del tutto inutili contro la pioggia a stravento. Le impronte dei passi nelle pozzanghere di neve disciolta, disegnano linee e cerchi, rombi e intagli sagomati dai tacchi di scarpe sfondate. Passi veloci in un ballo di umidi allacciamenti casuali, urti e scarti improvvisi. Le persone provenienti dai villaggi intorno trasportano sopra i carri trainati dai cavalli montagne di legna. Un ragazzo vende la vecchia lavatrice, altri smerciano bottiglie di plastica con il latte appena munto.
La sede locale della Caritas, di fronte al piazzale, distribuisce i pacchi d’aiuti umanitari; scatole di cartone fradicio passano di mano in mano.
Mercato da definirsi quasi d’Oriente se non fosse per la completa mancanza di esotici profumi, di certo un mercato balcanico: donne mussulmane con i larghi pantaloni colorati, figure tzigane, barbe, baffi e nere giacche di pelle che hanno visto tempi gloriosi. Aria zingaresca, visi che hanno visto da poco la guerra e che sicuramente avrebbero tante altre guerre da raccontare.
Questa terra ha visto eserciti turchi, austriaci, francesi, tedeschi, italiani e poi croati e serbi. Quali pensieri possono rilassare l’atmosfera - si chiede.
Il mercato all’aperto è situato vicino ad un antico palazzo e un’ala è occupata dalla Casa dei Rifugiati. Le finestre con i vetri rotti dalle esplosioni e dalle fucilate, sono stati riparati utilizzando i ritagli di plastica che porta la scritta dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. I tubi di scarico delle stufe fuoriescono dalle finestre con lievi accenni di fumo, visi di anziani sbirciano l’esterno con domande inespresse sulle labbra; loro sono i meno fortunati, privati di casa e di terra dove andare. Lui prova una rabbia interna, rabbia perché è questo il risultato della guerra: muti spettatori - vite in attesa di chissà che cosa. E’ sconvolgente vedere quanto le tragedie, alla lunga, sono accettate e intorno alla sofferenza si sopravvive, si vive, si arricchiscono le grandi famiglie e i ladri di vari livelli. Non esistono eroi ma solo vinti: il migliore amico saltato in aria su di una mina, il vicino di casa colpito da una granata, storie di sangue e armi, ma soprattutto di lacrime, rabbia e paura, nessuno racconta quanti avversari ha ucciso. E’ passato solo un anno dalla firma degli accordi di Dayton e la speranza è che, il più velocemente possibile, tutto possa riprendere una posizione eretta e ricominciare una nuova vita, ma la consapevolezza della difficile strada è nota a tutti. - Qualcuno sostiene che l’Europa vuole anche i bosniaci, per farne che cosa - gli domandano.
I cimiteri mussulmani sorgono ovunque, vicino al castello turco e nei giardini della città; vita e morte in una convivenza silenziosa. Le tombe portano date recenti, ricordano l’assedio e l’isolamento della città che ha combattuto serbi e croati. Le tombe sono poste in mezzo alle lapidi antiche. La neve si scioglie e le ferite di questa terra divengono sempre più visibili. In quel disgelo lui resta ad osservare, giorno dopo giorno, il lievitare delle verità.
Con Senàd e famiglia si reca a Turbe, prima linea dell’esercito bosniaco. Le case appaiono completamente distrutte; nella linea di fuoco sorgevano tre fabbriche che hanno ripreso un minimo di produzione da poco tempo. Le mine antiuomo sono ancora moltissime, con difficoltà tentano di bonificare il terreno e negli ultimi tempi gli ordigni hanno causato cinque vittime e venticinque feriti. E’ una visione terribile, le case colpite sono la maggioranza.
Senàd gli racconta che durante la guerra gli uomini sono rimasti in paese e solo per questa resistenza qualche cosa si è salvato dalla distruzione totale. Le donne e i bambini portati in salvo a Travnik, rifugiati nelle cantine al riparo dalle granate.
Con immenso orgoglio gli mostrano la loro casa. Un aborto grigio ricavato dietro la casa dei genitori anziani, una vera casa delle campagne bosniache: bassa con assiti di legno nella facciata tamponata con il fango e intonacata alla peggio. Le porte e le finestre minuscole, per non disperdere il calore. Le nebbie montane permettono la visibilità per trenta metri, il resto del panorama è sprofondato in un mare di latte sospeso a mezz’aria.
Ombre di camion, persone e carri trainati da cavalli. La neve è scomparsa e l’umido insopportabile gli riporta la mancanza dell’aria che sa di salsedine. Nella landa non esiste l’idea del mare, non c’è oceano in cui tuffarsi e fuggire. Il luogo è un imbuto tra il monte Vlasic e le colline intorno, una sacca con scritte in arabo e foto di Tito, cartelli pubblicitari della Seven-up e i palazzi dei Visir, caseggiati austroungarici e videoteche, bar rumorosi, moschee litaniche, chiese cattoliche e pani del ramadan.
I nomi delle vie sono cambiati, ma servirà a poco; la Marsala Tita è la Bosanska e le vie partigiane sono state dedicate ai martiri mussulmani.
Le erbe miracolose esposte sopra un muretto della Bosanska e decantate da uomini e donne delle campagne, provengono da Guca Gora, Dolac, Han Bila, Mehurici: paesi fantasma sparsi in un corpo di terra martoriato, che da poco tempo ha disperso l’odore della cenere. Purtroppo nei cuori e nelle chiocciole uditive rimangono frammenti di spari e discorsi paurosi. Quello che pesa di più è la memoria di chi è assente e assente resterà per sempre.
Dopo la nottata di vento e pioggia il mattino si presenta imbiancato di neve; neve fresca e vento. I rumori sono ovattati da invisibili silenziatori - immagini di un film muto. Tossicchiano piano anche i cani, sempre rumorosi a bestemmiare guaiti al cielo. Chissà quando si scioglierà la neve che copre i solchi di terra - fenditure arate e seminate nell’attesa di nuovi raccolti. Chissà quante ferite sanguineranno ancora al sole della Primavera.
- Gli insetti cominciano a farsi vedere, ma gli angeli no! Dove sono gli angeli?