Un creatore fantasioso prese un pugno di terra
bilanciandosi sulle gambe
gettò nel mare lontano quella polvere di isole
mescolò fuoco e lava
fiori profumati e piccoli draghi.
E il tutto divenne costellazione di scogli
e miraggi ad attrarre i naviganti.
bilanciandosi sulle gambe
gettò nel mare lontano quella polvere di isole
mescolò fuoco e lava
fiori profumati e piccoli draghi.
E il tutto divenne costellazione di scogli
e miraggi ad attrarre i naviganti.
A Giava è mezzogiorno e dalla moschea di Bogor corrono le preghiere, rimbalzano da un minareto ad un altro, un continuum d’echi e orazioni, un rimpasto di voci che paiono rimproverare, ammonire, in questa terra di mezzo dove s’intrecciano foresta tropicale e periferie africane.
I cinquanta chilometri che separano Djakarta da Bogor, sono quanto di più sommariamente abbozzato si possa pensare: viadotti interminabili, autostrade, ponti ed incroci trafficati. Una mostra di grattacieli sgraziati, un terribile odore di aria inquinata; la caligine forma una cappa plumbea, immobile, un grigiore che diluisce il verde circostante in una tonalità gommosa e irreale. Ai lati della superstrada osservo baracche isolate e piccoli insediamenti, i contadini sono seduti a terra vicino alle case di legno e di altri materiali recuperati dalla vicina discarica, dove ancora qualcuno scava. Intorno ai villaggi inventati, l’eterno rumore di auto e camion che sfrecciano, l’eterno strascico di fumo nero. Le colline disboscate, aprono varchi tra piantagioni e risaie allagate, le grosse ferite di terra rossastra violentata per secoli agonizzano franando. Le metropoli d’Asia sembrano vivere attratte dallo stesso metronomo accelerato, vivono l’ansia di ciò che devono dimostrare, dimenticando quello che sono state per centinaia d’anni. Piccoli spiragli di memorie storiche faticano ad aprirsi, il passato glorioso è negato al mio sguardo.
…esistono speranze in queste periferie di rifugiati e oppressi?
Bogor. Nel primo pomeriggio visitiamo il Giardino Botanico: il più grande e completo dell’Asia, segnala il depliant.
La notte precipita sulla terra alle diciannove in punto ed improvvisamente intorno è buio pesto. Piove e fa caldo, la notte è cullata dai canti della moschea, l’aria si riempie di voci d’oriente, profumi di cibi piccanti e aromi di kretek, le sigarette ai chiodi di garofano. I pipistrelli della frutta, pteropi, sono appesi ai rami spogli di alberi altissimi come neri baccelli accartocciati.
Il buio respira di un battere d’ali di uccelli lontani. Tremori d’insetti notturni ronzano comunicati radio mal sintonizzati. La notte trascina con sé l’abbraccio del torpore, finalmente un po’ di riposo. Alle quattro del mattino un brusio di preghiere colma la città. Al risveglio, un semplice caffè seduti fuori dalla stanza, nello spazio comune del terrazzo, dove su tavoli sbrecciati riposano termos d’acqua sempre calda e bicchieri opachi.
Partenza all’alba per visitare il parco di Cisaura e Puncak: un passo situato a trenta chilometri da Bogor, famoso per la coltivazione del tè. Il viaggio, nonostante la difficoltà di reperire mezzi di trasporto e le scarse informazioni, appare semplice e naturale. Velocemente ci mescoliamo in nuovi ritmi e modi di vita.
Cisaura. Il parco racchiude una parte della foresta e il fiume torrentizio forma un corollario di cascate, nascoste dalla rigogliosa vegetazione.
Il sentiero che porta alla sommità è provante per il caldo umido e ammoscia le gambe. Il luogo è rilassante, in contrasto con le strade trafficate dei paesi in basso nella valle: scorci di verde con piccoli laghi, morbidi sentieri di muschio, alberi e farfalle grandi come il palmo di una mano.
Ritornando al paese di Cisaura attraversiamo piccoli insediamenti umani, case di contadini e verdissime risaie.
Un mondo che respira completamente i ritmi della campagna, di semine e raccolti, di gesti meticolosi e millenari. La visione bucolica è spazzata via dalle moto fumanti che percorrono le strade sterrate appena fuori il paese, le motociclette sono utilizzate come taxi per i villaggi della valle.
Il pranzo è tutto un programma di gesti e sorrisi, quasi una “danza della fame”, rivolti alla famiglia che gestisce una piccola baracca lungo la strada. I piatti sbeccati accolgono in bella mostra pietanze misteriose che trovano un nome, nella nostra memoria, solo per merito delle papille gustative dopo le infruttuose traduzioni gestuali.
Frittelle di pesce e verdure, involtini di foglie di banano ripiene di riso, sesamo e banane in crosta, una crosta indecifrabile a dire il vero. La famiglia che vive nella baracca-ristorante è più imbarazzata di noi, tentiamo una comunicazione attraverso larghi sorrisi diretti al figlio più piccolo, con altrettanto imbarazzo scrivono il conto che si rivela una cifra ridicola.
Mi porto dietro l’impaccio di sentirmi fuori luogo, con le mie scarpe pulite e le suole anatomiche…
Con un piccolo mezzo pubblico saliamo le colline che arrancano per il valico di Puncak, attraversando coltivazioni di tè rigate dai piccoli sentieri della raccolta, punteggiati di cappelli larghissimi di paglia delle raccoglitrici chine al lavoro. Il panorama è reso irreale dalla continua presenza di baracche-ristoranti, baracche-vivai di bonsai e baracche-baracche. Le costruzioni approssimative sorgono sulla strada, non appena un tornante lo permette e alcune sono costruite con la tecnica delle palafitte. La nebbia collinare si confonde con i fuochi accesi per cucinare, la strada risuona dell’eterna melodia scarburata di auto che salgono o scendono il passo di Puncak. Promossi da noi stessi, sul campo, ricercatori di vecchie strade in disuso, decidiamo di ritornare a piedi, scoprendo che in realtà esisteva, come logico che fosse, una vecchia strada lastricata in uso prima dell’avvento del motore a scoppio. Portiamo un po’ di dubbio a tutti gli abitanti delle piccole case che incontriamo nella discesa, regaliamo deboli sorrisi e riceviamo sguardi curiosi e allibiti.
La notte risplende di stelle - risuona di salmi e cantilene melodiche. La notte si fa ipnotica. Una voce recita nel buio - e nel buio sale una frana di nenie in risposta. Preghiere - karaoke e ritmi house. Un fritto misto musicale.
Visitiamo le botteghe artigiane di Bogor: i costruttori di gong e di marionette per il teatro giavanese. Nelle piantagioni di tè, incontriamo le donne che raccolgono le foglie di diverse taglie e nei diversi periodi di crescita, in seguito verranno utilizzate per il confezionamento delle volgari bustine da esportazione. Interessante è la zona araba di Bogor che si sviluppa vicino al fiume, risolvendosi in strette viuzze e piccoli mercati, con botteghe di lattonieri che costruiscono decori e absidi di alluminio destinati ai luoghi di culto. Sostiamo per il pranzo lungo la strada; siamo invasi da un ovattamento causato dal rollio e dal beccheggio continuo dell’auto che inebetisce ed imprigiona, in uno stordimento continuo e non riposante. D’incanto, si fa per dire, arriviamo a Garut, un centro agricolo vicino alla città industriale di Bandung. Il piccolo paese è sovrastato dal Gunung Guntur, il vulcano che ha reso fertile tutta la zona; le acque calde sono incanalate e utilizzate come acqua termale e le case circondate da piscine e canali formano un irreale paese sull’acqua.
Nella stanza della pensione la grossa vasca è sempre alimentata con l’acqua tiepida, ed immersi completamente cancelliamo via la polvere e i dolori al coccige.
Spiedini di carne con il sottofondo musicale del karaoke; cantare è un vero divertimento per gli indonesiani e le nostre espressioni stupite, aumentano la loro ilarità.
Garut. All’alba attraversiamo ponti ed argini del villaggio ancora addormentato. Le case di legno sono palafittate sopra i terrazzamenti, stile risaie, circondati dall’acqua calda del vulcano e hanno i bagni esterni costruiti con canne di bambù. La quotidianità si svolge danzando da un argine all’altro, i bambini appaiono divertiti da queste pratiche, gli adulti, più seri, percorrono i piccoli argini e minuscoli ponti per recarsi al lavoro.
Il vulcano incombe con i declivi solcati dal ricordo di antiche eruzioni.
Visitiamo la fabbrica della seta nel villaggio vicino. I responsabili, delle varie fasi della produzione, spiegano i momenti della lavorazione: dall’allevamento del baco alle stoffe ricamate. Decine di donne siedono agli arcolai ricavati da vecchi cerchioni di bicicletta e lavorano nel buio quasi completo. Le macchine per la tessitura sono complicatissimi marchingegni di legno, i telai sono opere d’arte.
Donne - poco più che bambine - lavorano con il volto velato. Ricamano le stoffe con preghiere e sudore. Nella risaia si respira il ritmo di decine di uomini e donne che vivono lavorando queste terre allagate, raccogliendo e sgranando le pianticine di riso. Il clima propizio e la buona terra, permettono in queste zone due raccolti all’anno ed il riso è l’unico sostentamento per tutte le famiglie impegnate. Devo vincere l’iniziale difficoltà di fotografare. Penetrando di più nella comunità mi lascio andare, aiutato dal ritmo rilassato che si respira, le persone lavorano sotto il sole a picco e vedendoci non perdono il sorriso, i loro “hallo” di saluto non cessano un istante. Le donne al lavoro, raccolgono il riso con una meticolosità e pazienza che gli uomini, ci dicono, non riescono ad avere.
Le donne chine reggono il mondo…
Risalendo le colline, tra i campi coltivati, attraversiamo un minuscolo villaggio dove bambini piccolissimi e galline si disputano, nell’aia, lo spazio di gioco e di crescita sfuggendosi a vicenda. La nostra curiosità molto discreta, a dire il vero, sembra accolta con altrettanto interesse ed io continuo a sorridere e scattare fotografie: inquadro sorrisi e bimbi in calzoncini stracciati, anziani in posa e piedi scalzi. Osservo visi orientali di diverse origini, penso al popolo unito da Sukarno e diviso da convenienze coloniali ed ora da interessi di mercato. Terre di esodi forzati, di uomini affamati ed armati per colonizzare le sperdute isole dell’arcipelago. Questi luoghi racchiudono realtà primordiali e sogni di megalopoli, modernizzazione e sopravvivenza.
Saliamo il Gunung Papandayan, uno tra i vulcani più attivi di Giava. La caldera presenta una moltitudine di bocche sulfuree da cui si alzano vapori caldissimi che impediscono la visibilità intorno. Un giallo inferno dantesco di soffioni e fanghi ribollenti; dalla fenditura centrale del terreno fuoriesce il sordo mugugno cardiaco del vulcano in perenne bollore. La salita non presenta difficoltà ma l’odore di zolfo è insopportabile.
Kampung Naga, ventisei chilometri da Garut. Una vera sorpresa: il villaggio costituisce una sorta di museo vivente, dall’architettura alla vita tradizionale sundanese. Naga, dragone, questo è il significato del nome, è un villaggio preistorico ancora vivo e vissuto, un insediamento umano fuori dal tempo. Per raggiungerlo bisogna scendere una scalinata di trecentosessantadue gradini, arrivare al fiume e seguire un sentiero che punta direttamente l’agglomerato di capanne di legno con il tetto di paglia. L’abitato sorge con le case sopraelevate dal suolo, l’ingegno architettonico ha reso possibile l’utilizzo di canali e dei piccoli torrenti, che scorrono sotto le capanne formando piccole anse, dove vengono allevate le trote.
- Non esiste elettricità, si cucina con fuochi a legna e si vive di riso, questo è quanto basta – così dice l’anziana signora.
La giornata termina a Pangandaran, in riva al mare; arrivando di notte percepiamo pochissimo della fisionomia di questa città. Un ottima cena a base di pesce ristora mente e corpo.
La notte è dilatata dai versi degli animali della foresta e scricchiolii degli assiti di legno della nostra stanza.
Alba di Pangandaran. La jungla si sveglia lentamente.
La notte riesce ad essere umida e pungente, in contrasto con il sole che in poche ore ustiona ogni cosa. Le libellule scaldano le ali con piccoli accenni di volo, rasentano la casa di bambù, una casa di foglie intrecciate, con le pareti sottili di canne ed assi quasi mai unite ad incastro, ma collegate tra loro con fibre vegetali.
Foreste violate per anni; le multinazionali del legname e l’agricoltura nomade hanno tolto all’isola l’aspetto originario. Sono sopravvissute felci giganti e palme di ogni tipo e genere. Salendo oltre i mille metri si incontrano foreste di pini e, a tratti, piccoli appezzamenti di terreno coltivati a cavolo e pomodoro. Queste sono le coltivazioni nascoste e appartengono ai senza terra, la parte povera della popolazione, che fatica in montagna per poi vendere i prodotti ai mercati dei villaggi.
La terra è fertile e scura di materiale vulcanico. Una terra di energia nascosta. Un isola di fuoco assopito.
La lunga spiaggia, di sabbia nera, è striata di mille colori delle barche tirate a secco e centinaia di gusci dipinti issano, alle alte prore, aste con bandiere svolazzanti. Lungo la spiaggia si affittano camere d’aria di auto e camion, i bagnanti indonesiani ridono rumorosamente, immersi nelle acque e protetti da quelle nere ciambelle. Il mare è eternamente agitato, alcuni barconi fanno la spola diretti ad una baia tranquilla, riparata dalle onde, nel promontorio che accoglie il Parco Nazionale. Camminiamo lentamente sulla battigia, parliamo delle fasi della vita e di genitori che invecchiano. Intorno a noi continua incessante il ridanciano rincorrersi di gitanti domenicali. Il rumore sordo delle onde è costante: monotoni cilindri rotolanti di spuma, giungono alla riva smorzati, ostacolati dalla barriera corallina.
Seguendo il sentiero, che porta alla spiaggia bianca, incontriamo decine di scimmie curiose che scorrazzano tra la folla e il mare, vivono in un habitat di foresta e scogliere, nutrite da offerte di bimbi invadenti e molluschi distratti. La baia è un luogo irreale, le persone restano vestite, sedute nel bagnasciuga oppure camminano sopra la barriera corallina, lasciata libera dalla bassa marea: gitanti mussulmani, induisti, buddisti, donne con ampi veli a nascondere il viso, javanesi con larghissimi pantaloni da mare…e noi due, bersaglio di eterni saluti e occhiate curiose. Inoltrandoci nel parco, restiamo ben presto muti; passeggiamo in una fitta boscaglia che produce rumori intraducibili…respiri d’alberi. All’improvviso, un varano di un metro e mezzo, fugge spaventato dal rumore dei nostri passi, è una sorpresa, una visione quasi preistorica; un animale di quella taglia è molto raro in questo parco, abitato prevalentemente da cervi, banteng (bue selvatico) e gibboni. I sentieri minori non sono indicati e a dire il vero la segnaletica è criticabile anche nei più frequentati. Camminando incontriamo intere famiglie che si sgolano per salutarci e per capire da quale parte del mondo siamo usciti, dimostrando la nota curiosità indonesiana.
La parte vecchia del villaggio è la più interessante: il porto, le case basse, i piccoli incroci affollati di mercanti. Al mattino i pescatori portano il pesce al mercato locale dove si batte all’asta la vendita del pescato, poco lontano i piccoli ristoranti si sono organizzati molto bene: si può scegliere il pesce che, cotto con carbone di bambù, viene servito alla buona maniera nei locali sul lungomare. Nella lunghissima spiaggia, posta ad est del paese, senza sosta si salpano reti lunghissime. Una catena umana, formata prevalentemente da donne, si da il cambio alla testa della corda e trascina la rete a terra servendosi di un’imbracatura di corda legata in vita. Le donne indossano cappelli di paglia a cono e abiti pesanti per proteggersi dal sole fortissimo e dalla salsedine.
Volti di cuoio e sorrisi d’avorio.
Intorno ai luoghi di pesca a strascico si formano improvvisati mercati, ma a dire il vero noto più meduse che altro. Seguo con speranza le procedure di recupero, quanta è la fatica e scarso il risultato, qui il lavoro è duro e i sindacati inesistenti. La strada del porto è un continuo via vai: risciò dipinti con disegni mitologici ed altri ancora con i simboli del ventesimo secolo. Un insieme, un unione di epoche antiche e moderne, un pedalare continuo, tra il suono del gamelan e i fuoristrada giapponesi.
Giava - dura e severa nel far sopravvivere. Nelle brezze costanti si alzano in volo aquiloni colorati – portano in alto la sfida e il desiderio di libertà legati assieme.
Oggi le nuvole proteggono dal sole cocente.
Affittiamo due biciclette arrugginite e litigando con sellini semovibili e catene riparate alla meno peggio, partiamo diretti ai villaggi intorno a Pangandaran. Sopra sentieri sabbiosi, saggiamo la completa immersione nell’ambiente circostante, cogliamo ritmi di vita, a volte molto privati: il bagno dei bimbi al pozzo, le anziane donne intente a riannodare i capelli in lunghe trecce, sedute nell’aia delle capanne. Piccoli negozi, case in costruzione, la battitura del riso, uomini e donne al lavoro nei campi e noi spettatori cigolanti, silhouette accompagnate sempre dall’eterno hallo, hallo, hallo…ripetuto all’infinito. Ritmi naturali, rallentati, lontani da quel senso di città che a Giava significa sovrappopolazione, un’isola dove le case unite le une alle altre formano una sola città interminabile.
Nel cielo la luna piena è frastagliata da uno stormo di pipistrelli della frutta, è irreale osservare quelle ali appuntite che sfiorano gli aquiloni alzati in volo; il tramonto è disegnato da inseguimenti involontari, da nuvole basse ed una musica dolcissima.
Una tazza di tè verde nel terrazzo di Pangandaran. Tè verde e suoni della foresta. Il vecchio mondo è lontano. La mente è cullata da un orchestra gamelan.
Un tuffo ristoratore nel fiume del Green Canyon. Risaliamo il fiume, con una barca a bilanciere, sino ad arrivare al canyon e di seguito ad una caverna naturale da cui nasce il fiume che ha scanalato la via attraversando la foresta. Nuotare tra le rocce levigate è come essere immersi al fianco di enormi ippopotami.
Ritornando verso il mare ci incamminiamo nella jungla, contornati da enormi alberi: le palme da costruzione, gli alberi di tek le cui foglie vengono utilizzate per le tinture, e arbusti che hanno un legno speciale per la costruzione delle marionette wayang.
Partenza per Yogyakarta, tempo previsto dieci ore: bus – ferry – bus.
L’alba si annuncia con il sole rosso fuoco, il disco sale lento tra le palme e una nebbia sottile lievita dalle risaie. Arrivati al porto di Kalipukang saliamo sul traghetto, navigando nell’ampia laguna di Segara Anakan toccherà terra a Cilacap. La vecchia nave è affollata di lavoratori, di donne con i cesti ricolmi di viveri: tofu, germogli di soia, il tempè, una torta di fagioli di soia fermentati, e frittelle misteriose che sfameranno i naviganti. Cibi offerti con tale grazia e insistenza che è impossibile rifiutare.
La navigazione è piacevole e attraversando la via acquatica sostiamo in piccoli villaggi e presso capanne isolate, lambiamo canoe di pescatori e uccelli in volo. Intorno a noi, il verde intrico della foresta, è un labirinto senza capo né coda. Il continuo andirivieni, di barche e canoe di legno increspa le acque, segna il ciclo continuo, il trascorrere del tempo. La vita scivola via con ritmi antichi in questo mare interno. A Cilacap prendiamo un bus per Yogya; ore ed ore di improvvise sbandate e fulminee frenate, su di una strada eternamente percorsa da migliaia di mezzi di trasporto. Dopo una sosta, per un pasto frugale, eccoci nel caos di Yogya. Il traffico e l’odore dello smog contrastano con i ritmi di vita, tutto sommato tranquilli, ritmi vivaci e placidi al contempo, le strade producono un persistente sottofondo rumoroso e fremono dei passaggi rombanti di moto e cigolii dei becak, i risciò a tre ruote.
Terra seviziata. Terra di meraviglia. Terra di sudore. Terra di terra e riso. Terra di piatti di banano. Terra di gamelan e rutti. Terra colorata. Terra d’oriente. Terra tecnologica. Terra che sogna e piange.
Yogyakarta, chiamata confidenzialmente Yogya, è il cuore culturale dell’isola; racchiusa tra il vulcano Merapi e l’Oceano Indiano. La città ha un lento risveglio, ma quando è desta diventa in un attimo un vero caos, vita e traffico pulsano trascinandoti senza tregua. La presenza del turismo di massa ha reso pressanti le richieste delle persone, offrono sempre qualche cosa: un passaggio in becak, un ristorante, negozi di batik. Turismo spesso folle e chiassoso, non zittisce neppure ascoltando la dolce musica delle orchestre gamelan, la musica ipnotica e melodiosa che ogni giorno risuona nel kraton della città, il palazzo del sultano, dove attualmente vive una parte della famiglia. All’interno del palazzo, alcuni padiglioni sono dedicati alla storia degli antenati dell’odierno sultano, è possibile osservare gli abiti di corte che ancora oggi vengono indossati durante le grandi cerimonie, ed ancora fotografie ingiallite e disparati oggetti di uso comune. Un edificio secondario racchiude le simbologie ed effigi, delle tre religioni originarie di Giava: l’Induismo, l’Islamismo e il Buddismo. Religioni che si sono integrate e a tratti mescolate insieme. Ogni giorno alle dieci di mattina si tiene un concerto di musica e danze tratte dal balletto del Ramayana. La maggioranza degli orchestrali sono donne, vestite completamente di nero, suonano percussioni, gong e xilofoni. Ascoltando la musica mi torna alla mente Steve Reich, i suoi studi sulla musica di Giava e Bali: il continuum, l’ostinato, l’ipnotico suono che sembra non avere mai fine.
Ritmo. Un fluire continuo e ondeggiante - sale da luoghi sconosciuti. Ritorna a posarsi al principio della trama musicale - come a rincorrersi - quasi a sognare una vita senza fine - un desiderio di immortalità.
Nei piccoli sentieri di ghiaia scorre quieta la vita degli addetti al palazzo, gli uomini vestono l’abito di corte giavanese e portano, nelle pieghe della stoffa avvoltolata in vita, il kriss, il pugnale a forma di serpente. Attorno alla Malioboro, la caotica strada principale, sopravvivono piccoli quartieri che hanno mantenuto ritmi e odori della campagna, come per un miracolo. L’Indonesia nasconde, dietro finte pareti, storie gloriose e paure ancestrali. Perdurano al tempo i tentativi di resistenza; una debole barriera, una piccola trincea, un’ultima difesa…ma che cosa sarà domani?
Mercato di animali. Uccelli tremanti – impauriti - pazzi. Pitoni – aquile - scimmie – animali strappati dalle isole d’origine restano muti e affranti in un angolo delle gabbie. Scorpioni e manguste del Sulawesi - ricordano misteri tropicali e notti rumorose di jungla.
Un improvviso rombo fortissimo. Un aeroplano in atterraggio nel vicino aeroporto. Questo rumore e gli occhi di un enorme iguana relegato in una fossa, traducono l’idea di questo paese: iguana – scimmie in gabbia – rumore di aereo in atterraggio – suoni di gamelan – motori rombanti – sorrisi discreti – facili ironie.
Siamo diretti a Borobudur per visitare uno dei più importanti siti archeologici e storici del buddismo nel Sud Est Asiatico.
Alle quattro del mattino la città si presenta con un aspetto diverso, regna la calma totale, sono molte le famiglie che dormono in strada, non solo per povertà. Osserviamo crocchi di amici con la chitarra e venditori mattinieri che approntano mercati improvvisati. I ciclisti di becak dormono sdraiati sotto le loro carrozzine e noi nel buio quasi totale ci incamminiamo alla ricerca di un autobus per Borobudur. Il lento dondolio del pullman termina in un villaggio che si è svegliato da poco. Dalle campagne circostanti arriva una fila interminabile di donne, portano cesti di verdura e piramidi di frutta in equilibrio sul capo, allestiscono un mercato sulla strada ed aprono i piccoli warung, le bancarelle/ristoranti. Il vulcano Merapi si staglia all’orizzonte, sarà visibile per poco tempo, la foschia ben presto si alza dalle risaie e nasconde il panorama. Il complesso religioso, da lontano, non è di facile lettura, rimane nascosto dagli alberi e appare come un unico enorme stupa di pietra, innalzato da più di milleduecento anni. Il tempio si erge da un basamento compatto di duecento metri quadrati, si innalza con sei terrazze circolari sino alla sommità svolgendosi in un percorso di cinque chilometri. Oltrepassiamo porte scolpite; le pareti portano incise le storie della religione buddista/tantrica, sino ad arrivare alla sommità dove, racchiusi all’interno di stupa di pietra traforata, osserviamo le sculture dei Buddha. La forma della costruzione simboleggia la strada che l’uomo percorre dal basamento, il karma, sino a raggiungere il nirvana, e la sommità rappresenta la quiete assoluta. L’uomo transita nelle fasi della vita terrena, raffigurata nelle varie terrazze da episodi di vita quotidiana.
La luce diventa abbagliante in un attimo, il sole si innalza velocemente, non lascia scampo…ed io soffro la vendetta di Montezuma, delirio dei viaggiatori.
Partenza da Yogya per Surakarta, detta Solo.
Dalla stazione, quasi impeccabile, prendiamo il treno diretti alla “Città Reale di Solo”, decretata capitale nel 1745 da Pakubuwono II che affermava fosse il “luogo stabilito da Allah”. Re e sultani si sono alternati sino ad oggi nella gestione politica e sociale della città, lasciando segni inconfondibili nei due Kraton ed in molti edifici pubblici, utilizzati nel tempo dai colonizzatori olandesi. Visitiamo il Kraton Surakarta che presenta le stesse caratteristiche architettoniche del palazzo imperiale di Yogya: si entra attraversando il parco, in indonesiano “alun-alun”, utilizzato per incontri ufficiali, ma anche per partite di football e dove si svolgono le lezioni di ginnastica. Ci intratteniamo con la guida interna del palazzo conversando di storia antica e di questioni politiche recenti. L’avvicendamento alla presidenza del governo dovrebbe spettare a Megawati Sukarnoputri, nipote di Sukarno, una donna del movimento democratico uscita vittoriosa dalle ultime elezioni. Il paese è rappresentato da una maggioranza di militari che studiano strategie di rimpasti politici, e per paura di perdere il loro potere illimitato ritardano la nomina del nuovo presidente. In Indonesia le classi più povere raggiungono il novantadue per cento della popolazione - incalza il nostro interlocutore - e l’aria di tensione e di rivolta è palpabile anche per noi - la situazione se non cambia farà divampare un fuoco inarrestabile - osserva tristemente.
Attualmente le rivolte sono organizzate solo a Timor e nel nord di Sumatra. Riscontro che ogni qual volta si parla con la gente, emerge una sorta di intolleranza nei riguardi della comunità cinese, una comunità ben organizzata specialmente nelle attività commerciali. La triste guerra tra poveri.
Siamo alloggiati in una pensione che ha un grande patio con specchi e porcellane cinesi, soprammobili olandesi e pitture giapponesi. Quasi una mostra perenne di tutte le fasi storiche del paese. In ordine di tempo gli olandesi hanno lasciato l’Indonesia per ultimi, dopo giapponesi e inglesi. La Repubblica Indonesiana nasce nel 1949.
In viaggio leggo “Impero dell’est” di Norman Lewis, ritrovo nella vita di ogni giorno le cose descritte e rimango tristemente colpito dalla realtà vissuta in questa vasta terra di isole. La sfrontatezza occidentale, religiosa e industriale, ha dato il colpo di grazia ed in alcuni casi ideato a tavolino, la distruzione ambientale e sociale di molte isole. Certo è che la classe governativa non è mai stata all’altezza delle complessità di questo paese, formato da semi culturali decisamente variegati, quando non estranei del tutto. La parola integrazione è del tutto smarrita, il ritmo d’unione di popoli diversi tra loro, dalla lingua alle tradizioni, è stato accelerato sino a causare veri e propri stermini di massa, soprattutto tra le popolazioni animiste dell’arcipelago, che conta 13.000 isole nel suo complesso. Culture distrutte completamente, in territori isolati, per permettere l’estrazione del rame, oppure per interrompere riti e tradizioni antichissime. Isole in cui convivono uomini con l’astuccio penico e magliette americane, dove gli sciamani vengono allontanati dalle comunità, per inserire al loro posto cristo o allah. Pozioni magiche e coca cola, migrazioni forzate per colonizzare altre isole sperdute, villaggi distrutti per costruire aeroporti o club turistici. ...anche questo è Indonesia.
In una corriera affollatissima ci dirigiamo a Pacitan. L’ambiente intorno a noi cambia lentamente, oltrepassiamo le risaie inoltrandoci in una terra secca e povera di vegetazione, per poi dirigerci verso le verdi colline in lontananza. Giunti a Pacitan ci sistemiamo in un bungalow vicino al mare, la spiaggia è una bianca mezzaluna affollata di turisti domenicali e surfisti australiani.
La marea sale lentamente, percorriamo un sentiero che porta ad una piccola cala con barche coloratissime tirate a secco.
L’orizzonte è arginato da una barriera corallina, formata da alti scogli tormentati e ricoperti di vegetazione acquatica, le barche hanno un solo bilanciere laterale e sono costruite “di pezzo”, interamente scavate in tronchi d’albero. I pescatori utilizzano rulli di legno per varare le imbarcazioni nella pesca serale e il buio è trafitto sommariamente da lampare lontane. Il vento trasporta il profumo del mare e l’intenso odore di pesce essiccato, il paese è un tremore di luci in lontananza.
Lo sguardo è rivolto al mare che ribolle costantemente e ripete da secoli lo stesso racconto intraducibile…
In bicicletta visitiamo i villaggi della costa. Trasportiamo, nella scia della nostra pedalata, lo stupore che suscitiamo alle famiglie dei pescatori appena svegli, stupore che si manifesta attraverso grandi sguardi e saluti squillanti. Non riusciamo a trovare una banca abilitata al cambio dei travellers cheque , in compenso ci imbattiamo in uno splendido mercato ortofrutticolo dove sfoghiamo i nostri desideri alimentari: angurie, ananas, banane ed un frutto misterioso a forma di stella. Pranziamo in spiaggia accompagnati dal sonoro del mare inquieto.
Si respira il mare - il silenzio ed un senso d’ignoto…
Frammenti di radici d’albero, levigati dal mare e cullati dalle maree, sembrano femori, tibie, vertebre spolpate di un animale che non riposa neppure nella morte, completamente in balia dall’eterno movimento. Il rotolio delle onde sconquassano il cadavere. In lontananza le risaie si trasformano in un verde brillante, le palme smosse dal vento appaiono di un lucido bagnato. Le ombre si allungano dilatate dal canto di miriadi d’uccelli marini.
Anticipiamo l’alba dirigendoci di buon ora al terminal dei bus. Saliamo la valle su di un trabiccolo poco sicuro. La natura glaciale dell’ambiente si presenta in modo palese e un fiume cristallino discende le montagne. Il fiume è la fonte principale di lavoro per i villaggi che incontriamo, l’economia è favorita dalla vendita di pietre di fiume, sabbia e ciottoli da costruzione, oltre allo sfruttamento delle acque per le risaie, la pesca e l’igiene personale. Impieghiamo quattro ore per percorrere i settantatré chilometri di strada che ci separa da Ponorogo; pensare che non è la meta finale della giornata ci crea un po’ di sconforto. A Ponorogo nessuno parla inglese, adottiamo il tipico linguaggio gestuale internazionale e riceviamo un premio, il secondo delirio a quattro ruote che prosegue per Blitar. Dopo otto ore di montagne russe eccoci in città. Arriviamo al nuovo terminal dei bus, lontano dal centro città, ci viene offerto un passaggio su due ojek, in pratica due motorini/taxi. Indossiamo caschi preistorici e con gli zaini appesi alla schiena sfrecciamo nel traffico, e approdiamo in un albergo pretestuoso popolato da miriadi di zanzare. La sosta è di breve durata, non ancora paghi del lungo peregrinare, ripartiamo diretti ai templi induisti di Panataran. L’ultima fatica del giorno è premiata: il sito è raccolto all’interno di un piccolo parco ed è possibile godere la vista della tipica architettura e scultura detta “Javanese orientale”. Questa terra, nell’antichità, ha fatto parte dell’impero di Majapahit, ed il luogo religioso è un riferimento importante per datare e comprendere la vita dell’epoca; le diverse costruzioni, soprattutto il Tempio Datato, sono l’espressione più alta della fusione artistico/religiosa con l’arte balinese. Il calare del sole ci spinge al rientro in città, il ritorno è un immersione completa nell’aria resa arancione dal tramonto.
Il timido sorriso di un ragazzino islamico, con il tipico copricapo colorato, riporta alla mente il pensiero delle scarse opportunità dei giovani indonesiani e più in generale di questa parte del mondo.
La lunga giornata volge al termine, dodici ore di spostamenti in un giorno possono bastare. Viaggiare al di fuori delle rotte più battute diventa un impresa difficoltosa.
Gli aquiloni in volo nel cielo di Panataran - vibrano nell’aria - accompagnati da un sibilo di vento. Vorticando risuonano di un dolce mantra… preghiere d’aria.
A Blitar si trova la tomba di Sukarno, il “Padre della patria”, ed ora penso a quanto è lontano quell’uomo, quando sosteneva che le grandi potenze interessate a sfruttare l’Indonesia, sarebbero state un grave pericolo per il mondo intero. E’ importante il documento presentato da Sukarno nel 1958 ad un incontro internazionale dei paesi non allineati, una denuncia contro la proliferazione nucleare e in particolare modo contro gli esperimenti nucleari condotti in terre coloniali:
-“Come uomo, come padre, come Asiatico ed essere umano fatto ad immagine di Dio, sono atterrito di fronte al cinismo di quanti possiedono armi atomiche. Essi parlano di salvare il loro tipo di civiltà, nondimeno la loro politica è basata sulla determinazione di distruggere, se lo ritengono necessario, quella civiltà. La natura di una guerra nucleare fa sì che in un conflitto del genere non vi sarebbe posto per la neutralità. Vi siete arrogati il potere che di diritto spetta all’Onnipossente… noi asiatici guardiamo a voi non come a salvatori delle civiltà o a precursori del futuro; guardiamo a voi come ad agenti della morte…i principi della legge morale ci spingono a protestare, non possiamo imporre la pace, ma chiediamo il diritto di essere ascoltati. La vostra guida morale ha significato per noi in un primo tempo il colonialismo ed ora la bancarotta filosofica, morale, politica e sociale di una corsa agli armamenti nucleari.
Voi dell’Occidente state provocando nell’umanità sempre e nuove fratture; state anche perdendo la battaglia per conquistarvi i cuori e le menti degli uomini”-. (A. Sukarno 1958)
Ripensando a quelle parole, non passano certo inosservate le complicazioni derivate dai lasciti del colonialismo. Un’eredità che ha creato uno sfilacciamento sociale palpabile, creando classi arricchite da traffici illeciti. Penso che l’occidente, se non inverte la direzione, manderà a fondo uomini, templi e corone di fiori.
Treno: Blitar – Malang…un muto osservare dal finestrino opaco. Il mondo transita. Respirando aromi d’oriente e polvere, sono attratto dal magnetico sibilo del treno che si annuncia… Arriviamo a Malang in tre: io, Luly e la sua febbre. Dalle moschee s’alzano canti. Luly è sprofondata in un mondo febbricitante e lontano, speriamo sia un normale raffreddamento.
La città, abbracciata al fiume, vince le profonde gole con ponti di ferro e cemento, le moschee e le chiese chiamano al raccoglimento con suoni prolungati di voci e campane. La piazza principale è resa viva dal traffico e dalle sfilate marziali degli studenti. Gli edifici coloniali olandesi si stagliano con il loro biancore e il Pasar Kebalen, cuore del centro città, di notte si trasforma in un vivacissimo mercato. Il Toko Oen, antico ristorante olandese super elitario, è meta di turisti e mendicanti. Traffico e storpi, caldo e mani tese…
In mezzo a tutto questo, il suono di un pianoforte contrasta e sorprende, non stride, rende il tutto più umano. Chopin ammorbidisce la confusione, trasforma il caos in un lento e riflessivo momento. Come riusciremo, a fermare questa macchina imprigionata nella folle velocità della caduta?
Parco Nazionale del Gunung Bromo – Tengeer – Semeru.
Il vulcano Bromo, è la cima più famosa di tutto il rilievo ed è venerato dagli induisti; una volta all’anno si svolge la festa del Kasada e una processione di fedeli, raggiunge il cratere per gettare all’interno offerte propiziatorie. Il Parco Nazionale di Tengger è un’enorme caldera di dieci chilometri di diametro; al suo interno il Bromo spicca fumante, è raggiungibile attraversando il mare di sabbia ed una breve salita. La sveglia è alle due del mattino. Partiamo per il Bromo, percorrendo la via Tosari, viaggiamo dal buio pesto ai primi chiarori dell’alba. La luce si riflette sopra i versanti tormentati dei vulcani, tra la sabbia finissima e i soffi di vapori bollenti. Saliamo diretti alla caldera. Rimaniamo silenziosi, stupiti dall’ambiente infernale e magnetico. Un mondo di tenebre sulfuree e di calore. La sabbia degrada impalpabile, trasporta a valle la terra rigogliosa ed epiche storie. Racconti di magia. Meraviglie e mostri fantastici discendono dal ravaneto e danno voce ai vecchi intorno al fuoco.
Partenza notturna per Bali, la terra del vulcano Gunug Anung che significa “Ombelico del Mondo”. La notte scivola tra cambi di bus e la lunga attesa della nave. Il ferry ci traghetta nella terra notturna di Bali, siamo diretti a Denpasar e Ubud. Arriviamo sotto la pioggia, con un timido sole che rischiara e risalta le prime differenze leggibili. Giava è lontana, si respira un’aria diversa. Intorno scorgiamo templi e edifici sacri posti direttamente all’interno delle case. In poco tempo emerge l’aspetto induista dell’isola: offerte di fiori e riso, statue coperte con stoffe colorate, gli usci delle case hanno a terra vassoi di palma con fiori e incenso. In bicicletta saliamo le colline di Ubud e raggiungiamo un villaggio. Incontriamo un gruppo di donne intente a preparare addobbi votivi, utilizzati nelle cerimonie e nelle offerte serali. Costruiscono grandi cavalli di legno e paglia che saranno bruciati durante la cremazione dei defunti: questa potrebbe avvenire anche molti anni dopo la morte, la famiglia praticherà la cerimonia quando avrà denaro a sufficienza e solo allora disseppellirà il corpo.
Domenica mattina.
La temperatura è alta nonostante la pioggia insistente. Ogni mattina piove un poco; una pioggia sottile rende lucide le foglie di banani e palme, ingrigisce, ancora di più, i portali dei templi costruiti con pietra lavica e scolpiti di motivi religiosi. Spiritualità; ecco che cosa contraddistingue maggiormente i balinesi dai giavanesi. La cura dei particolari minimi, la cultura dei segni, dei simboli, di complicati dialoghi che corrono dai petali dei fiori ai legni scolpiti. Un poetico fraseggio silenzioso composto di palme intrecciate e ceri accesi, xilofoni percossi, strumenti a vento, incensi profumatissimi e fiori di frangipani, così candidi e carnosi. La terra è come se vestisse un completo verde, è il colore sempre presente dalle piantagioni di tè alle risaie. Il verde è percorso da acque incanalate con precisione millimetrica per allagare i terrazzamenti. Acqua che scorre e lava ogni cosa, acqua gettata con energia nei mandi, le vasche da bagno delle case, oppure acqua cosparsa sopra il capo dei suonatori di gamelan durante le cerimonie, e ancora acqua dei piccoli fiumi che accolgono remissivi le abitudini quotidiane.
Stoffe al vento. Nei campi al tramonto - urla e inseguimenti e battiti di mani - allontanano gli uccelli che scendono a rapinare i raccolti. I bambini rincorrono i corvi sfacciati. Le isolate imprecazioni si mescolano in una nenia che ogni tramonto accompagna le oche al recinto.
Ubud. Danza Legong nel palazzo di Ubud: vortici di abiti colorati e mani sinuose. I sarong di seta svolazzano tra i ghigni dei draghi scolpiti, le donne indossano abiti traforati e gli uomini portano copricapi legati alla fronte.
Nel buio - le note inseguono la notte.
Chiediamo il permesso di assistere alla cerimonia del raccolto, che si tiene nella periferia del paese, presso il tempio Pura Dalem Kutum.
Il cielo grigio appare come vestito di velluto, le palme che seguono la strada verso il Pura Dalem sono ornate a festa, i rami intrecciati si muovono al debole vento. Il palazzo principale, così come tutta l’area intorno, è di una bellezza intrigante: cortei di uomini e donne vestite a festa, macchie di colore smorzato solo dal grigio del cielo. Abiti gialli, bianchi, rosa, e poi fiori e offerte portate al tempio dentro cestini di foglie, animali, incensi, scampanellii che regolano le funzioni sacre. Il suono prolungato dei sonagli religiosi si unisce alle orchestre gamelan e al fruscio di danze legong, formano un sottile filo musicale che riannoda il tutto. Per assistere alla cerimonia indossiamo un pareo sopra i nostri abiti, e devo dire che la tolleranza nei nostri confronti è esemplare. Vinco ogni indugio e fotografo quella magia. Il palazzo è formato da un grande Bale Banjar, un luogo di incontro pubblico costruito di legno, in pratica è un enorme gazebo dove si prega e si suona, si balla oppure semplicemente ci si incontra.
Intorno al bersò sorge il palazzo delle cerimonie, costruito di pietre laviche e contornato dall’aling/aling, un muro di protezione usato anche nelle case private. L’aling/aling è una parete posta all’entrata di una casa balinese; poiché i demoni possono muoversi solo in linea retta impedisce loro di entrare dalla porta principale. L’ingresso al palazzo, dove è in corso la benedizione di uomini e animali, è protetta da due statue hindù dall’aspetto feroce chiamate Raska; i tetti dei piccoli e grandi santuari sono di stile Meru, cioè tetti di materiale vegetale sovrapposti uno all’altro a formare una curiosa copertura piramidale. Intorno a noi centinaia di balinesi continuano a fluire all’interno dei santuari. Ci ripariamo dalla pioggia vicino ad un gruppo di donne e bambini, gli abiti traforati di stoffa gialla e rosa compiono il miracolo di trasportarci in un mondo fiabesco. Queste persone passano la vita a coltivare i campi, e oggi, trasformate per magia in creature principesche, spargono sensualità palpabile dalle loro mani callose. La pioggia non interrompe l’arrivo dei dignitari, scendono da grosse auto accompagnati da inservienti con ombrelli e seguiti da uno stuolo di portatori d’offerte. Anche il potere è rappresentato.
Due galli stanno combattendo dentro un cerchio ondeggiante di uomini che li incitano, le loro zampe portano legate sottilissime lame ricurve. Alzo gli occhi e poco lontano un monaco, seduto nel suo scranno sopraelevato, benedice un maialino da latte. Gli indonesiani seguono la festa seduti sui talloni, donne sedute a terra accostano al petto bimbi in fasce, cani gironzolano alla ricerca dei loro padroni e di offerte alimentari incustodite.
Piedi e zampe e terra. Una terra che vibra di calpestii danzanti. Un rumore di sonagli legati alle caviglie e la terra risuona di racconti ondeggianti - rappresentazioni di gesta eroiche - antiche storie d’amore e di battaglie.
La festa sembra non finire mai, i piccoli martelli percuotono le barre di metallo, i musicisti instancabili ribadiscono all’infinito i loro fraseggi musicali, traducono la ciclicità della vita nel ripetersi uguale delle note.
Fumo d’incenso e petali di fiori. Coccarde di stoffa e diademi d’oro. Seta - batik ed intrecci d’argento.
Alla sera, nel cielo, s’alzano animali fantastici di plastica e carta. La foresta delle scimmie risuona di memorie non ancora raccontate, e i cantori kechak completano la magia notturna. Tutto questo popola di sogni la mia notte. Le fughe oniriche si alternano alle rimozioni continue di riecheggiamenti infantili, tutto questo è sospinto dalla terra magnetica alla mia memoria. Durante la notte, per tutte le notti, una mano misteriosa ha posato offerte e incensi fuori dalla nostra stanza.
A Bali è d’obbligo fuggire le strade rombanti, cercare non molto lontano da negozi per solo turisti quelle storie fatte di piccole cose, di verità profonde raccontate dai ricordi di questa Terra di Re. Luoghi che hanno visto passare generazioni di principi indiani e dignitari mussulmani, colonizzatori olandesi e truppe giapponesi. Terra che ha sognato il comunismo, una sorta di marxismo asiatico difficile da attuare, e che ora vive all’ombra del Grande Capitale e delle multinazionali del legname. Terra viva, nel profondo delle campagne, tra i terrazzamenti coltivati a riso. Terra legata indissolubilmente ai riti antichi.
Tampaksiring.
Visitiamo il complesso religioso che sorge sul fiume tra le risaie: una roccia enorme scavata e scolpita con nicchie e grotte ricavate in profondità. Nell’ampia gola risaliamo il fiume, per entrare nei templi è d’obbligo indossare una cintura colorata annodata in vita. I templi sono molto poveri ma aggraziati e ricercati nei particolari. Ritornando in paese sostiamo al Monastero dell’Elefante, e seguiamo una processione scendere al fiume. Vicino alla riva si denudano immergendosi nelle acque che sgorgano dal monte. Gli uomini restano in disparte dalle donne, nudi con una tranquillità che zittisce il nostro muto inseguimento curioso. Respiriamo un’armonia che ci fa sentire superflui in quell’attimo così privato, in quei modi così antichi.
Partenza da Ubud per Singaraja.
Riprendiamo la strada accidentata che sale al passo di Kintamani, da qui è possibile godere una vista superba sui vulcani ed il lago Batur. Giunti a Singaraja scendiamo solo noi due, il bus continua la sua corsa diretto a Lovina, la Rimini locale. Vedendo la città abbiamo un attimo di sconforto. La depressione regna sovrana. Per non far crescere muschio sotto i nostri piedi, cerchiamo una pensione dove depositare gli zaini e subito ripartiamo per i famosi templi di Sagsit. Con dei bemo locali, piccoli camioncini, arriviamo al Pura Beji, un tempio dedicato agli spiriti che proteggono le risaie. Il palazzo non tradisce le aspettative: riccamente scolpito reca, ancora leggibili, mascheroni colorati. Una donna ci benedice, prima di entrare, cospargendoci il capo d’acqua aromatizzata con fiori di frangipani. Il caldo è opprimente e tutta la zona è una piana assolata e riarsa. Attraverso i sentieri giungiamo al Pura Dalem, un altro tempio ben conservato che porta incisi pannelli votivi con scene di raccolto e figure erotiche. Intorno a noi i campi gialli contrastano con il verde delle palme, e i rilievi montuosi, in lontananza, fremono d’aria calda e nel cielo si stagliano nuvole bianchissime.
Alba. Improvvisi spiragli di luce penetrano dai fori del muro nella stanza. Una stanza sperduta, in un mondo perduto di una terra perduta. Uno spiraglio che desta senza dolore, una luce che riporta alla mente: il nome della città, della nazione, dell’albergo, tugurio, buco, losmen, recinto di famiglia. Alba che trascina i rumori quotidiani. Campanelle diverse percosse da venditori in strada che muovono carretti, trasportano fritti impiastricciati d'olio e sconosciute bevande colorate. Riconosco questi suoni del mondo: il carillon del gelataio, le percussioni di legno che preannunciano il pollo fritto, le melopee, più o meno armoniose, delle venditrici di frutta. Un sottofondo di scioglilingua intraducibili, seguono sempre gli stessi tracciati, le stesse strade, gli stessi hallo!
Identiche storie di luoghi e persone diverse. Un unico risveglio per tutto il mondo.
A Lovina i bambini vendono, sulla spiaggia, collane di conchiglie costruite da loro, poco lontano i loro padri offrono funghi allucinogeni, un tempo usati solo come mediatori religiosi.
Hassan Halib raccoglie dal fuoco, di canne di fiume, piccoli ritagli di carta annerita osserva la grafia minuta e composta di ogni singolo frammento. Depone i frammenti anneriti sulla sabbia, uno appresso all’altro e quasi per incanto scopre parole a lui note. Le dispone di sua fantasia ricercando un senso che le possa unire. Per ultima lascia una parola che da tanti anni non pronuncia.
I cinquanta chilometri che separano Djakarta da Bogor, sono quanto di più sommariamente abbozzato si possa pensare: viadotti interminabili, autostrade, ponti ed incroci trafficati. Una mostra di grattacieli sgraziati, un terribile odore di aria inquinata; la caligine forma una cappa plumbea, immobile, un grigiore che diluisce il verde circostante in una tonalità gommosa e irreale. Ai lati della superstrada osservo baracche isolate e piccoli insediamenti, i contadini sono seduti a terra vicino alle case di legno e di altri materiali recuperati dalla vicina discarica, dove ancora qualcuno scava. Intorno ai villaggi inventati, l’eterno rumore di auto e camion che sfrecciano, l’eterno strascico di fumo nero. Le colline disboscate, aprono varchi tra piantagioni e risaie allagate, le grosse ferite di terra rossastra violentata per secoli agonizzano franando. Le metropoli d’Asia sembrano vivere attratte dallo stesso metronomo accelerato, vivono l’ansia di ciò che devono dimostrare, dimenticando quello che sono state per centinaia d’anni. Piccoli spiragli di memorie storiche faticano ad aprirsi, il passato glorioso è negato al mio sguardo.
…esistono speranze in queste periferie di rifugiati e oppressi?
Bogor. Nel primo pomeriggio visitiamo il Giardino Botanico: il più grande e completo dell’Asia, segnala il depliant.
La notte precipita sulla terra alle diciannove in punto ed improvvisamente intorno è buio pesto. Piove e fa caldo, la notte è cullata dai canti della moschea, l’aria si riempie di voci d’oriente, profumi di cibi piccanti e aromi di kretek, le sigarette ai chiodi di garofano. I pipistrelli della frutta, pteropi, sono appesi ai rami spogli di alberi altissimi come neri baccelli accartocciati.
Il buio respira di un battere d’ali di uccelli lontani. Tremori d’insetti notturni ronzano comunicati radio mal sintonizzati. La notte trascina con sé l’abbraccio del torpore, finalmente un po’ di riposo. Alle quattro del mattino un brusio di preghiere colma la città. Al risveglio, un semplice caffè seduti fuori dalla stanza, nello spazio comune del terrazzo, dove su tavoli sbrecciati riposano termos d’acqua sempre calda e bicchieri opachi.
Partenza all’alba per visitare il parco di Cisaura e Puncak: un passo situato a trenta chilometri da Bogor, famoso per la coltivazione del tè. Il viaggio, nonostante la difficoltà di reperire mezzi di trasporto e le scarse informazioni, appare semplice e naturale. Velocemente ci mescoliamo in nuovi ritmi e modi di vita.
Cisaura. Il parco racchiude una parte della foresta e il fiume torrentizio forma un corollario di cascate, nascoste dalla rigogliosa vegetazione.
Il sentiero che porta alla sommità è provante per il caldo umido e ammoscia le gambe. Il luogo è rilassante, in contrasto con le strade trafficate dei paesi in basso nella valle: scorci di verde con piccoli laghi, morbidi sentieri di muschio, alberi e farfalle grandi come il palmo di una mano.
Ritornando al paese di Cisaura attraversiamo piccoli insediamenti umani, case di contadini e verdissime risaie.
Un mondo che respira completamente i ritmi della campagna, di semine e raccolti, di gesti meticolosi e millenari. La visione bucolica è spazzata via dalle moto fumanti che percorrono le strade sterrate appena fuori il paese, le motociclette sono utilizzate come taxi per i villaggi della valle.
Il pranzo è tutto un programma di gesti e sorrisi, quasi una “danza della fame”, rivolti alla famiglia che gestisce una piccola baracca lungo la strada. I piatti sbeccati accolgono in bella mostra pietanze misteriose che trovano un nome, nella nostra memoria, solo per merito delle papille gustative dopo le infruttuose traduzioni gestuali.
Frittelle di pesce e verdure, involtini di foglie di banano ripiene di riso, sesamo e banane in crosta, una crosta indecifrabile a dire il vero. La famiglia che vive nella baracca-ristorante è più imbarazzata di noi, tentiamo una comunicazione attraverso larghi sorrisi diretti al figlio più piccolo, con altrettanto imbarazzo scrivono il conto che si rivela una cifra ridicola.
Mi porto dietro l’impaccio di sentirmi fuori luogo, con le mie scarpe pulite e le suole anatomiche…
Con un piccolo mezzo pubblico saliamo le colline che arrancano per il valico di Puncak, attraversando coltivazioni di tè rigate dai piccoli sentieri della raccolta, punteggiati di cappelli larghissimi di paglia delle raccoglitrici chine al lavoro. Il panorama è reso irreale dalla continua presenza di baracche-ristoranti, baracche-vivai di bonsai e baracche-baracche. Le costruzioni approssimative sorgono sulla strada, non appena un tornante lo permette e alcune sono costruite con la tecnica delle palafitte. La nebbia collinare si confonde con i fuochi accesi per cucinare, la strada risuona dell’eterna melodia scarburata di auto che salgono o scendono il passo di Puncak. Promossi da noi stessi, sul campo, ricercatori di vecchie strade in disuso, decidiamo di ritornare a piedi, scoprendo che in realtà esisteva, come logico che fosse, una vecchia strada lastricata in uso prima dell’avvento del motore a scoppio. Portiamo un po’ di dubbio a tutti gli abitanti delle piccole case che incontriamo nella discesa, regaliamo deboli sorrisi e riceviamo sguardi curiosi e allibiti.
La notte risplende di stelle - risuona di salmi e cantilene melodiche. La notte si fa ipnotica. Una voce recita nel buio - e nel buio sale una frana di nenie in risposta. Preghiere - karaoke e ritmi house. Un fritto misto musicale.
Visitiamo le botteghe artigiane di Bogor: i costruttori di gong e di marionette per il teatro giavanese. Nelle piantagioni di tè, incontriamo le donne che raccolgono le foglie di diverse taglie e nei diversi periodi di crescita, in seguito verranno utilizzate per il confezionamento delle volgari bustine da esportazione. Interessante è la zona araba di Bogor che si sviluppa vicino al fiume, risolvendosi in strette viuzze e piccoli mercati, con botteghe di lattonieri che costruiscono decori e absidi di alluminio destinati ai luoghi di culto. Sostiamo per il pranzo lungo la strada; siamo invasi da un ovattamento causato dal rollio e dal beccheggio continuo dell’auto che inebetisce ed imprigiona, in uno stordimento continuo e non riposante. D’incanto, si fa per dire, arriviamo a Garut, un centro agricolo vicino alla città industriale di Bandung. Il piccolo paese è sovrastato dal Gunung Guntur, il vulcano che ha reso fertile tutta la zona; le acque calde sono incanalate e utilizzate come acqua termale e le case circondate da piscine e canali formano un irreale paese sull’acqua.
Nella stanza della pensione la grossa vasca è sempre alimentata con l’acqua tiepida, ed immersi completamente cancelliamo via la polvere e i dolori al coccige.
Spiedini di carne con il sottofondo musicale del karaoke; cantare è un vero divertimento per gli indonesiani e le nostre espressioni stupite, aumentano la loro ilarità.
Garut. All’alba attraversiamo ponti ed argini del villaggio ancora addormentato. Le case di legno sono palafittate sopra i terrazzamenti, stile risaie, circondati dall’acqua calda del vulcano e hanno i bagni esterni costruiti con canne di bambù. La quotidianità si svolge danzando da un argine all’altro, i bambini appaiono divertiti da queste pratiche, gli adulti, più seri, percorrono i piccoli argini e minuscoli ponti per recarsi al lavoro.
Il vulcano incombe con i declivi solcati dal ricordo di antiche eruzioni.
Visitiamo la fabbrica della seta nel villaggio vicino. I responsabili, delle varie fasi della produzione, spiegano i momenti della lavorazione: dall’allevamento del baco alle stoffe ricamate. Decine di donne siedono agli arcolai ricavati da vecchi cerchioni di bicicletta e lavorano nel buio quasi completo. Le macchine per la tessitura sono complicatissimi marchingegni di legno, i telai sono opere d’arte.
Donne - poco più che bambine - lavorano con il volto velato. Ricamano le stoffe con preghiere e sudore. Nella risaia si respira il ritmo di decine di uomini e donne che vivono lavorando queste terre allagate, raccogliendo e sgranando le pianticine di riso. Il clima propizio e la buona terra, permettono in queste zone due raccolti all’anno ed il riso è l’unico sostentamento per tutte le famiglie impegnate. Devo vincere l’iniziale difficoltà di fotografare. Penetrando di più nella comunità mi lascio andare, aiutato dal ritmo rilassato che si respira, le persone lavorano sotto il sole a picco e vedendoci non perdono il sorriso, i loro “hallo” di saluto non cessano un istante. Le donne al lavoro, raccolgono il riso con una meticolosità e pazienza che gli uomini, ci dicono, non riescono ad avere.
Le donne chine reggono il mondo…
Risalendo le colline, tra i campi coltivati, attraversiamo un minuscolo villaggio dove bambini piccolissimi e galline si disputano, nell’aia, lo spazio di gioco e di crescita sfuggendosi a vicenda. La nostra curiosità molto discreta, a dire il vero, sembra accolta con altrettanto interesse ed io continuo a sorridere e scattare fotografie: inquadro sorrisi e bimbi in calzoncini stracciati, anziani in posa e piedi scalzi. Osservo visi orientali di diverse origini, penso al popolo unito da Sukarno e diviso da convenienze coloniali ed ora da interessi di mercato. Terre di esodi forzati, di uomini affamati ed armati per colonizzare le sperdute isole dell’arcipelago. Questi luoghi racchiudono realtà primordiali e sogni di megalopoli, modernizzazione e sopravvivenza.
Saliamo il Gunung Papandayan, uno tra i vulcani più attivi di Giava. La caldera presenta una moltitudine di bocche sulfuree da cui si alzano vapori caldissimi che impediscono la visibilità intorno. Un giallo inferno dantesco di soffioni e fanghi ribollenti; dalla fenditura centrale del terreno fuoriesce il sordo mugugno cardiaco del vulcano in perenne bollore. La salita non presenta difficoltà ma l’odore di zolfo è insopportabile.
Kampung Naga, ventisei chilometri da Garut. Una vera sorpresa: il villaggio costituisce una sorta di museo vivente, dall’architettura alla vita tradizionale sundanese. Naga, dragone, questo è il significato del nome, è un villaggio preistorico ancora vivo e vissuto, un insediamento umano fuori dal tempo. Per raggiungerlo bisogna scendere una scalinata di trecentosessantadue gradini, arrivare al fiume e seguire un sentiero che punta direttamente l’agglomerato di capanne di legno con il tetto di paglia. L’abitato sorge con le case sopraelevate dal suolo, l’ingegno architettonico ha reso possibile l’utilizzo di canali e dei piccoli torrenti, che scorrono sotto le capanne formando piccole anse, dove vengono allevate le trote.
- Non esiste elettricità, si cucina con fuochi a legna e si vive di riso, questo è quanto basta – così dice l’anziana signora.
La giornata termina a Pangandaran, in riva al mare; arrivando di notte percepiamo pochissimo della fisionomia di questa città. Un ottima cena a base di pesce ristora mente e corpo.
La notte è dilatata dai versi degli animali della foresta e scricchiolii degli assiti di legno della nostra stanza.
Alba di Pangandaran. La jungla si sveglia lentamente.
La notte riesce ad essere umida e pungente, in contrasto con il sole che in poche ore ustiona ogni cosa. Le libellule scaldano le ali con piccoli accenni di volo, rasentano la casa di bambù, una casa di foglie intrecciate, con le pareti sottili di canne ed assi quasi mai unite ad incastro, ma collegate tra loro con fibre vegetali.
Foreste violate per anni; le multinazionali del legname e l’agricoltura nomade hanno tolto all’isola l’aspetto originario. Sono sopravvissute felci giganti e palme di ogni tipo e genere. Salendo oltre i mille metri si incontrano foreste di pini e, a tratti, piccoli appezzamenti di terreno coltivati a cavolo e pomodoro. Queste sono le coltivazioni nascoste e appartengono ai senza terra, la parte povera della popolazione, che fatica in montagna per poi vendere i prodotti ai mercati dei villaggi.
La terra è fertile e scura di materiale vulcanico. Una terra di energia nascosta. Un isola di fuoco assopito.
La lunga spiaggia, di sabbia nera, è striata di mille colori delle barche tirate a secco e centinaia di gusci dipinti issano, alle alte prore, aste con bandiere svolazzanti. Lungo la spiaggia si affittano camere d’aria di auto e camion, i bagnanti indonesiani ridono rumorosamente, immersi nelle acque e protetti da quelle nere ciambelle. Il mare è eternamente agitato, alcuni barconi fanno la spola diretti ad una baia tranquilla, riparata dalle onde, nel promontorio che accoglie il Parco Nazionale. Camminiamo lentamente sulla battigia, parliamo delle fasi della vita e di genitori che invecchiano. Intorno a noi continua incessante il ridanciano rincorrersi di gitanti domenicali. Il rumore sordo delle onde è costante: monotoni cilindri rotolanti di spuma, giungono alla riva smorzati, ostacolati dalla barriera corallina.
Seguendo il sentiero, che porta alla spiaggia bianca, incontriamo decine di scimmie curiose che scorrazzano tra la folla e il mare, vivono in un habitat di foresta e scogliere, nutrite da offerte di bimbi invadenti e molluschi distratti. La baia è un luogo irreale, le persone restano vestite, sedute nel bagnasciuga oppure camminano sopra la barriera corallina, lasciata libera dalla bassa marea: gitanti mussulmani, induisti, buddisti, donne con ampi veli a nascondere il viso, javanesi con larghissimi pantaloni da mare…e noi due, bersaglio di eterni saluti e occhiate curiose. Inoltrandoci nel parco, restiamo ben presto muti; passeggiamo in una fitta boscaglia che produce rumori intraducibili…respiri d’alberi. All’improvviso, un varano di un metro e mezzo, fugge spaventato dal rumore dei nostri passi, è una sorpresa, una visione quasi preistorica; un animale di quella taglia è molto raro in questo parco, abitato prevalentemente da cervi, banteng (bue selvatico) e gibboni. I sentieri minori non sono indicati e a dire il vero la segnaletica è criticabile anche nei più frequentati. Camminando incontriamo intere famiglie che si sgolano per salutarci e per capire da quale parte del mondo siamo usciti, dimostrando la nota curiosità indonesiana.
La parte vecchia del villaggio è la più interessante: il porto, le case basse, i piccoli incroci affollati di mercanti. Al mattino i pescatori portano il pesce al mercato locale dove si batte all’asta la vendita del pescato, poco lontano i piccoli ristoranti si sono organizzati molto bene: si può scegliere il pesce che, cotto con carbone di bambù, viene servito alla buona maniera nei locali sul lungomare. Nella lunghissima spiaggia, posta ad est del paese, senza sosta si salpano reti lunghissime. Una catena umana, formata prevalentemente da donne, si da il cambio alla testa della corda e trascina la rete a terra servendosi di un’imbracatura di corda legata in vita. Le donne indossano cappelli di paglia a cono e abiti pesanti per proteggersi dal sole fortissimo e dalla salsedine.
Volti di cuoio e sorrisi d’avorio.
Intorno ai luoghi di pesca a strascico si formano improvvisati mercati, ma a dire il vero noto più meduse che altro. Seguo con speranza le procedure di recupero, quanta è la fatica e scarso il risultato, qui il lavoro è duro e i sindacati inesistenti. La strada del porto è un continuo via vai: risciò dipinti con disegni mitologici ed altri ancora con i simboli del ventesimo secolo. Un insieme, un unione di epoche antiche e moderne, un pedalare continuo, tra il suono del gamelan e i fuoristrada giapponesi.
Giava - dura e severa nel far sopravvivere. Nelle brezze costanti si alzano in volo aquiloni colorati – portano in alto la sfida e il desiderio di libertà legati assieme.
Oggi le nuvole proteggono dal sole cocente.
Affittiamo due biciclette arrugginite e litigando con sellini semovibili e catene riparate alla meno peggio, partiamo diretti ai villaggi intorno a Pangandaran. Sopra sentieri sabbiosi, saggiamo la completa immersione nell’ambiente circostante, cogliamo ritmi di vita, a volte molto privati: il bagno dei bimbi al pozzo, le anziane donne intente a riannodare i capelli in lunghe trecce, sedute nell’aia delle capanne. Piccoli negozi, case in costruzione, la battitura del riso, uomini e donne al lavoro nei campi e noi spettatori cigolanti, silhouette accompagnate sempre dall’eterno hallo, hallo, hallo…ripetuto all’infinito. Ritmi naturali, rallentati, lontani da quel senso di città che a Giava significa sovrappopolazione, un’isola dove le case unite le une alle altre formano una sola città interminabile.
Nel cielo la luna piena è frastagliata da uno stormo di pipistrelli della frutta, è irreale osservare quelle ali appuntite che sfiorano gli aquiloni alzati in volo; il tramonto è disegnato da inseguimenti involontari, da nuvole basse ed una musica dolcissima.
Una tazza di tè verde nel terrazzo di Pangandaran. Tè verde e suoni della foresta. Il vecchio mondo è lontano. La mente è cullata da un orchestra gamelan.
Un tuffo ristoratore nel fiume del Green Canyon. Risaliamo il fiume, con una barca a bilanciere, sino ad arrivare al canyon e di seguito ad una caverna naturale da cui nasce il fiume che ha scanalato la via attraversando la foresta. Nuotare tra le rocce levigate è come essere immersi al fianco di enormi ippopotami.
Ritornando verso il mare ci incamminiamo nella jungla, contornati da enormi alberi: le palme da costruzione, gli alberi di tek le cui foglie vengono utilizzate per le tinture, e arbusti che hanno un legno speciale per la costruzione delle marionette wayang.
Partenza per Yogyakarta, tempo previsto dieci ore: bus – ferry – bus.
L’alba si annuncia con il sole rosso fuoco, il disco sale lento tra le palme e una nebbia sottile lievita dalle risaie. Arrivati al porto di Kalipukang saliamo sul traghetto, navigando nell’ampia laguna di Segara Anakan toccherà terra a Cilacap. La vecchia nave è affollata di lavoratori, di donne con i cesti ricolmi di viveri: tofu, germogli di soia, il tempè, una torta di fagioli di soia fermentati, e frittelle misteriose che sfameranno i naviganti. Cibi offerti con tale grazia e insistenza che è impossibile rifiutare.
La navigazione è piacevole e attraversando la via acquatica sostiamo in piccoli villaggi e presso capanne isolate, lambiamo canoe di pescatori e uccelli in volo. Intorno a noi, il verde intrico della foresta, è un labirinto senza capo né coda. Il continuo andirivieni, di barche e canoe di legno increspa le acque, segna il ciclo continuo, il trascorrere del tempo. La vita scivola via con ritmi antichi in questo mare interno. A Cilacap prendiamo un bus per Yogya; ore ed ore di improvvise sbandate e fulminee frenate, su di una strada eternamente percorsa da migliaia di mezzi di trasporto. Dopo una sosta, per un pasto frugale, eccoci nel caos di Yogya. Il traffico e l’odore dello smog contrastano con i ritmi di vita, tutto sommato tranquilli, ritmi vivaci e placidi al contempo, le strade producono un persistente sottofondo rumoroso e fremono dei passaggi rombanti di moto e cigolii dei becak, i risciò a tre ruote.
Terra seviziata. Terra di meraviglia. Terra di sudore. Terra di terra e riso. Terra di piatti di banano. Terra di gamelan e rutti. Terra colorata. Terra d’oriente. Terra tecnologica. Terra che sogna e piange.
Yogyakarta, chiamata confidenzialmente Yogya, è il cuore culturale dell’isola; racchiusa tra il vulcano Merapi e l’Oceano Indiano. La città ha un lento risveglio, ma quando è desta diventa in un attimo un vero caos, vita e traffico pulsano trascinandoti senza tregua. La presenza del turismo di massa ha reso pressanti le richieste delle persone, offrono sempre qualche cosa: un passaggio in becak, un ristorante, negozi di batik. Turismo spesso folle e chiassoso, non zittisce neppure ascoltando la dolce musica delle orchestre gamelan, la musica ipnotica e melodiosa che ogni giorno risuona nel kraton della città, il palazzo del sultano, dove attualmente vive una parte della famiglia. All’interno del palazzo, alcuni padiglioni sono dedicati alla storia degli antenati dell’odierno sultano, è possibile osservare gli abiti di corte che ancora oggi vengono indossati durante le grandi cerimonie, ed ancora fotografie ingiallite e disparati oggetti di uso comune. Un edificio secondario racchiude le simbologie ed effigi, delle tre religioni originarie di Giava: l’Induismo, l’Islamismo e il Buddismo. Religioni che si sono integrate e a tratti mescolate insieme. Ogni giorno alle dieci di mattina si tiene un concerto di musica e danze tratte dal balletto del Ramayana. La maggioranza degli orchestrali sono donne, vestite completamente di nero, suonano percussioni, gong e xilofoni. Ascoltando la musica mi torna alla mente Steve Reich, i suoi studi sulla musica di Giava e Bali: il continuum, l’ostinato, l’ipnotico suono che sembra non avere mai fine.
Ritmo. Un fluire continuo e ondeggiante - sale da luoghi sconosciuti. Ritorna a posarsi al principio della trama musicale - come a rincorrersi - quasi a sognare una vita senza fine - un desiderio di immortalità.
Nei piccoli sentieri di ghiaia scorre quieta la vita degli addetti al palazzo, gli uomini vestono l’abito di corte giavanese e portano, nelle pieghe della stoffa avvoltolata in vita, il kriss, il pugnale a forma di serpente. Attorno alla Malioboro, la caotica strada principale, sopravvivono piccoli quartieri che hanno mantenuto ritmi e odori della campagna, come per un miracolo. L’Indonesia nasconde, dietro finte pareti, storie gloriose e paure ancestrali. Perdurano al tempo i tentativi di resistenza; una debole barriera, una piccola trincea, un’ultima difesa…ma che cosa sarà domani?
Mercato di animali. Uccelli tremanti – impauriti - pazzi. Pitoni – aquile - scimmie – animali strappati dalle isole d’origine restano muti e affranti in un angolo delle gabbie. Scorpioni e manguste del Sulawesi - ricordano misteri tropicali e notti rumorose di jungla.
Un improvviso rombo fortissimo. Un aeroplano in atterraggio nel vicino aeroporto. Questo rumore e gli occhi di un enorme iguana relegato in una fossa, traducono l’idea di questo paese: iguana – scimmie in gabbia – rumore di aereo in atterraggio – suoni di gamelan – motori rombanti – sorrisi discreti – facili ironie.
Siamo diretti a Borobudur per visitare uno dei più importanti siti archeologici e storici del buddismo nel Sud Est Asiatico.
Alle quattro del mattino la città si presenta con un aspetto diverso, regna la calma totale, sono molte le famiglie che dormono in strada, non solo per povertà. Osserviamo crocchi di amici con la chitarra e venditori mattinieri che approntano mercati improvvisati. I ciclisti di becak dormono sdraiati sotto le loro carrozzine e noi nel buio quasi totale ci incamminiamo alla ricerca di un autobus per Borobudur. Il lento dondolio del pullman termina in un villaggio che si è svegliato da poco. Dalle campagne circostanti arriva una fila interminabile di donne, portano cesti di verdura e piramidi di frutta in equilibrio sul capo, allestiscono un mercato sulla strada ed aprono i piccoli warung, le bancarelle/ristoranti. Il vulcano Merapi si staglia all’orizzonte, sarà visibile per poco tempo, la foschia ben presto si alza dalle risaie e nasconde il panorama. Il complesso religioso, da lontano, non è di facile lettura, rimane nascosto dagli alberi e appare come un unico enorme stupa di pietra, innalzato da più di milleduecento anni. Il tempio si erge da un basamento compatto di duecento metri quadrati, si innalza con sei terrazze circolari sino alla sommità svolgendosi in un percorso di cinque chilometri. Oltrepassiamo porte scolpite; le pareti portano incise le storie della religione buddista/tantrica, sino ad arrivare alla sommità dove, racchiusi all’interno di stupa di pietra traforata, osserviamo le sculture dei Buddha. La forma della costruzione simboleggia la strada che l’uomo percorre dal basamento, il karma, sino a raggiungere il nirvana, e la sommità rappresenta la quiete assoluta. L’uomo transita nelle fasi della vita terrena, raffigurata nelle varie terrazze da episodi di vita quotidiana.
La luce diventa abbagliante in un attimo, il sole si innalza velocemente, non lascia scampo…ed io soffro la vendetta di Montezuma, delirio dei viaggiatori.
Partenza da Yogya per Surakarta, detta Solo.
Dalla stazione, quasi impeccabile, prendiamo il treno diretti alla “Città Reale di Solo”, decretata capitale nel 1745 da Pakubuwono II che affermava fosse il “luogo stabilito da Allah”. Re e sultani si sono alternati sino ad oggi nella gestione politica e sociale della città, lasciando segni inconfondibili nei due Kraton ed in molti edifici pubblici, utilizzati nel tempo dai colonizzatori olandesi. Visitiamo il Kraton Surakarta che presenta le stesse caratteristiche architettoniche del palazzo imperiale di Yogya: si entra attraversando il parco, in indonesiano “alun-alun”, utilizzato per incontri ufficiali, ma anche per partite di football e dove si svolgono le lezioni di ginnastica. Ci intratteniamo con la guida interna del palazzo conversando di storia antica e di questioni politiche recenti. L’avvicendamento alla presidenza del governo dovrebbe spettare a Megawati Sukarnoputri, nipote di Sukarno, una donna del movimento democratico uscita vittoriosa dalle ultime elezioni. Il paese è rappresentato da una maggioranza di militari che studiano strategie di rimpasti politici, e per paura di perdere il loro potere illimitato ritardano la nomina del nuovo presidente. In Indonesia le classi più povere raggiungono il novantadue per cento della popolazione - incalza il nostro interlocutore - e l’aria di tensione e di rivolta è palpabile anche per noi - la situazione se non cambia farà divampare un fuoco inarrestabile - osserva tristemente.
Attualmente le rivolte sono organizzate solo a Timor e nel nord di Sumatra. Riscontro che ogni qual volta si parla con la gente, emerge una sorta di intolleranza nei riguardi della comunità cinese, una comunità ben organizzata specialmente nelle attività commerciali. La triste guerra tra poveri.
Siamo alloggiati in una pensione che ha un grande patio con specchi e porcellane cinesi, soprammobili olandesi e pitture giapponesi. Quasi una mostra perenne di tutte le fasi storiche del paese. In ordine di tempo gli olandesi hanno lasciato l’Indonesia per ultimi, dopo giapponesi e inglesi. La Repubblica Indonesiana nasce nel 1949.
In viaggio leggo “Impero dell’est” di Norman Lewis, ritrovo nella vita di ogni giorno le cose descritte e rimango tristemente colpito dalla realtà vissuta in questa vasta terra di isole. La sfrontatezza occidentale, religiosa e industriale, ha dato il colpo di grazia ed in alcuni casi ideato a tavolino, la distruzione ambientale e sociale di molte isole. Certo è che la classe governativa non è mai stata all’altezza delle complessità di questo paese, formato da semi culturali decisamente variegati, quando non estranei del tutto. La parola integrazione è del tutto smarrita, il ritmo d’unione di popoli diversi tra loro, dalla lingua alle tradizioni, è stato accelerato sino a causare veri e propri stermini di massa, soprattutto tra le popolazioni animiste dell’arcipelago, che conta 13.000 isole nel suo complesso. Culture distrutte completamente, in territori isolati, per permettere l’estrazione del rame, oppure per interrompere riti e tradizioni antichissime. Isole in cui convivono uomini con l’astuccio penico e magliette americane, dove gli sciamani vengono allontanati dalle comunità, per inserire al loro posto cristo o allah. Pozioni magiche e coca cola, migrazioni forzate per colonizzare altre isole sperdute, villaggi distrutti per costruire aeroporti o club turistici. ...anche questo è Indonesia.
In una corriera affollatissima ci dirigiamo a Pacitan. L’ambiente intorno a noi cambia lentamente, oltrepassiamo le risaie inoltrandoci in una terra secca e povera di vegetazione, per poi dirigerci verso le verdi colline in lontananza. Giunti a Pacitan ci sistemiamo in un bungalow vicino al mare, la spiaggia è una bianca mezzaluna affollata di turisti domenicali e surfisti australiani.
La marea sale lentamente, percorriamo un sentiero che porta ad una piccola cala con barche coloratissime tirate a secco.
L’orizzonte è arginato da una barriera corallina, formata da alti scogli tormentati e ricoperti di vegetazione acquatica, le barche hanno un solo bilanciere laterale e sono costruite “di pezzo”, interamente scavate in tronchi d’albero. I pescatori utilizzano rulli di legno per varare le imbarcazioni nella pesca serale e il buio è trafitto sommariamente da lampare lontane. Il vento trasporta il profumo del mare e l’intenso odore di pesce essiccato, il paese è un tremore di luci in lontananza.
Lo sguardo è rivolto al mare che ribolle costantemente e ripete da secoli lo stesso racconto intraducibile…
In bicicletta visitiamo i villaggi della costa. Trasportiamo, nella scia della nostra pedalata, lo stupore che suscitiamo alle famiglie dei pescatori appena svegli, stupore che si manifesta attraverso grandi sguardi e saluti squillanti. Non riusciamo a trovare una banca abilitata al cambio dei travellers cheque , in compenso ci imbattiamo in uno splendido mercato ortofrutticolo dove sfoghiamo i nostri desideri alimentari: angurie, ananas, banane ed un frutto misterioso a forma di stella. Pranziamo in spiaggia accompagnati dal sonoro del mare inquieto.
Si respira il mare - il silenzio ed un senso d’ignoto…
Frammenti di radici d’albero, levigati dal mare e cullati dalle maree, sembrano femori, tibie, vertebre spolpate di un animale che non riposa neppure nella morte, completamente in balia dall’eterno movimento. Il rotolio delle onde sconquassano il cadavere. In lontananza le risaie si trasformano in un verde brillante, le palme smosse dal vento appaiono di un lucido bagnato. Le ombre si allungano dilatate dal canto di miriadi d’uccelli marini.
Anticipiamo l’alba dirigendoci di buon ora al terminal dei bus. Saliamo la valle su di un trabiccolo poco sicuro. La natura glaciale dell’ambiente si presenta in modo palese e un fiume cristallino discende le montagne. Il fiume è la fonte principale di lavoro per i villaggi che incontriamo, l’economia è favorita dalla vendita di pietre di fiume, sabbia e ciottoli da costruzione, oltre allo sfruttamento delle acque per le risaie, la pesca e l’igiene personale. Impieghiamo quattro ore per percorrere i settantatré chilometri di strada che ci separa da Ponorogo; pensare che non è la meta finale della giornata ci crea un po’ di sconforto. A Ponorogo nessuno parla inglese, adottiamo il tipico linguaggio gestuale internazionale e riceviamo un premio, il secondo delirio a quattro ruote che prosegue per Blitar. Dopo otto ore di montagne russe eccoci in città. Arriviamo al nuovo terminal dei bus, lontano dal centro città, ci viene offerto un passaggio su due ojek, in pratica due motorini/taxi. Indossiamo caschi preistorici e con gli zaini appesi alla schiena sfrecciamo nel traffico, e approdiamo in un albergo pretestuoso popolato da miriadi di zanzare. La sosta è di breve durata, non ancora paghi del lungo peregrinare, ripartiamo diretti ai templi induisti di Panataran. L’ultima fatica del giorno è premiata: il sito è raccolto all’interno di un piccolo parco ed è possibile godere la vista della tipica architettura e scultura detta “Javanese orientale”. Questa terra, nell’antichità, ha fatto parte dell’impero di Majapahit, ed il luogo religioso è un riferimento importante per datare e comprendere la vita dell’epoca; le diverse costruzioni, soprattutto il Tempio Datato, sono l’espressione più alta della fusione artistico/religiosa con l’arte balinese. Il calare del sole ci spinge al rientro in città, il ritorno è un immersione completa nell’aria resa arancione dal tramonto.
Il timido sorriso di un ragazzino islamico, con il tipico copricapo colorato, riporta alla mente il pensiero delle scarse opportunità dei giovani indonesiani e più in generale di questa parte del mondo.
La lunga giornata volge al termine, dodici ore di spostamenti in un giorno possono bastare. Viaggiare al di fuori delle rotte più battute diventa un impresa difficoltosa.
Gli aquiloni in volo nel cielo di Panataran - vibrano nell’aria - accompagnati da un sibilo di vento. Vorticando risuonano di un dolce mantra… preghiere d’aria.
A Blitar si trova la tomba di Sukarno, il “Padre della patria”, ed ora penso a quanto è lontano quell’uomo, quando sosteneva che le grandi potenze interessate a sfruttare l’Indonesia, sarebbero state un grave pericolo per il mondo intero. E’ importante il documento presentato da Sukarno nel 1958 ad un incontro internazionale dei paesi non allineati, una denuncia contro la proliferazione nucleare e in particolare modo contro gli esperimenti nucleari condotti in terre coloniali:
-“Come uomo, come padre, come Asiatico ed essere umano fatto ad immagine di Dio, sono atterrito di fronte al cinismo di quanti possiedono armi atomiche. Essi parlano di salvare il loro tipo di civiltà, nondimeno la loro politica è basata sulla determinazione di distruggere, se lo ritengono necessario, quella civiltà. La natura di una guerra nucleare fa sì che in un conflitto del genere non vi sarebbe posto per la neutralità. Vi siete arrogati il potere che di diritto spetta all’Onnipossente… noi asiatici guardiamo a voi non come a salvatori delle civiltà o a precursori del futuro; guardiamo a voi come ad agenti della morte…i principi della legge morale ci spingono a protestare, non possiamo imporre la pace, ma chiediamo il diritto di essere ascoltati. La vostra guida morale ha significato per noi in un primo tempo il colonialismo ed ora la bancarotta filosofica, morale, politica e sociale di una corsa agli armamenti nucleari.
Voi dell’Occidente state provocando nell’umanità sempre e nuove fratture; state anche perdendo la battaglia per conquistarvi i cuori e le menti degli uomini”-. (A. Sukarno 1958)
Ripensando a quelle parole, non passano certo inosservate le complicazioni derivate dai lasciti del colonialismo. Un’eredità che ha creato uno sfilacciamento sociale palpabile, creando classi arricchite da traffici illeciti. Penso che l’occidente, se non inverte la direzione, manderà a fondo uomini, templi e corone di fiori.
Treno: Blitar – Malang…un muto osservare dal finestrino opaco. Il mondo transita. Respirando aromi d’oriente e polvere, sono attratto dal magnetico sibilo del treno che si annuncia… Arriviamo a Malang in tre: io, Luly e la sua febbre. Dalle moschee s’alzano canti. Luly è sprofondata in un mondo febbricitante e lontano, speriamo sia un normale raffreddamento.
La città, abbracciata al fiume, vince le profonde gole con ponti di ferro e cemento, le moschee e le chiese chiamano al raccoglimento con suoni prolungati di voci e campane. La piazza principale è resa viva dal traffico e dalle sfilate marziali degli studenti. Gli edifici coloniali olandesi si stagliano con il loro biancore e il Pasar Kebalen, cuore del centro città, di notte si trasforma in un vivacissimo mercato. Il Toko Oen, antico ristorante olandese super elitario, è meta di turisti e mendicanti. Traffico e storpi, caldo e mani tese…
In mezzo a tutto questo, il suono di un pianoforte contrasta e sorprende, non stride, rende il tutto più umano. Chopin ammorbidisce la confusione, trasforma il caos in un lento e riflessivo momento. Come riusciremo, a fermare questa macchina imprigionata nella folle velocità della caduta?
Parco Nazionale del Gunung Bromo – Tengeer – Semeru.
Il vulcano Bromo, è la cima più famosa di tutto il rilievo ed è venerato dagli induisti; una volta all’anno si svolge la festa del Kasada e una processione di fedeli, raggiunge il cratere per gettare all’interno offerte propiziatorie. Il Parco Nazionale di Tengger è un’enorme caldera di dieci chilometri di diametro; al suo interno il Bromo spicca fumante, è raggiungibile attraversando il mare di sabbia ed una breve salita. La sveglia è alle due del mattino. Partiamo per il Bromo, percorrendo la via Tosari, viaggiamo dal buio pesto ai primi chiarori dell’alba. La luce si riflette sopra i versanti tormentati dei vulcani, tra la sabbia finissima e i soffi di vapori bollenti. Saliamo diretti alla caldera. Rimaniamo silenziosi, stupiti dall’ambiente infernale e magnetico. Un mondo di tenebre sulfuree e di calore. La sabbia degrada impalpabile, trasporta a valle la terra rigogliosa ed epiche storie. Racconti di magia. Meraviglie e mostri fantastici discendono dal ravaneto e danno voce ai vecchi intorno al fuoco.
Partenza notturna per Bali, la terra del vulcano Gunug Anung che significa “Ombelico del Mondo”. La notte scivola tra cambi di bus e la lunga attesa della nave. Il ferry ci traghetta nella terra notturna di Bali, siamo diretti a Denpasar e Ubud. Arriviamo sotto la pioggia, con un timido sole che rischiara e risalta le prime differenze leggibili. Giava è lontana, si respira un’aria diversa. Intorno scorgiamo templi e edifici sacri posti direttamente all’interno delle case. In poco tempo emerge l’aspetto induista dell’isola: offerte di fiori e riso, statue coperte con stoffe colorate, gli usci delle case hanno a terra vassoi di palma con fiori e incenso. In bicicletta saliamo le colline di Ubud e raggiungiamo un villaggio. Incontriamo un gruppo di donne intente a preparare addobbi votivi, utilizzati nelle cerimonie e nelle offerte serali. Costruiscono grandi cavalli di legno e paglia che saranno bruciati durante la cremazione dei defunti: questa potrebbe avvenire anche molti anni dopo la morte, la famiglia praticherà la cerimonia quando avrà denaro a sufficienza e solo allora disseppellirà il corpo.
Domenica mattina.
La temperatura è alta nonostante la pioggia insistente. Ogni mattina piove un poco; una pioggia sottile rende lucide le foglie di banani e palme, ingrigisce, ancora di più, i portali dei templi costruiti con pietra lavica e scolpiti di motivi religiosi. Spiritualità; ecco che cosa contraddistingue maggiormente i balinesi dai giavanesi. La cura dei particolari minimi, la cultura dei segni, dei simboli, di complicati dialoghi che corrono dai petali dei fiori ai legni scolpiti. Un poetico fraseggio silenzioso composto di palme intrecciate e ceri accesi, xilofoni percossi, strumenti a vento, incensi profumatissimi e fiori di frangipani, così candidi e carnosi. La terra è come se vestisse un completo verde, è il colore sempre presente dalle piantagioni di tè alle risaie. Il verde è percorso da acque incanalate con precisione millimetrica per allagare i terrazzamenti. Acqua che scorre e lava ogni cosa, acqua gettata con energia nei mandi, le vasche da bagno delle case, oppure acqua cosparsa sopra il capo dei suonatori di gamelan durante le cerimonie, e ancora acqua dei piccoli fiumi che accolgono remissivi le abitudini quotidiane.
Stoffe al vento. Nei campi al tramonto - urla e inseguimenti e battiti di mani - allontanano gli uccelli che scendono a rapinare i raccolti. I bambini rincorrono i corvi sfacciati. Le isolate imprecazioni si mescolano in una nenia che ogni tramonto accompagna le oche al recinto.
Ubud. Danza Legong nel palazzo di Ubud: vortici di abiti colorati e mani sinuose. I sarong di seta svolazzano tra i ghigni dei draghi scolpiti, le donne indossano abiti traforati e gli uomini portano copricapi legati alla fronte.
Nel buio - le note inseguono la notte.
Chiediamo il permesso di assistere alla cerimonia del raccolto, che si tiene nella periferia del paese, presso il tempio Pura Dalem Kutum.
Il cielo grigio appare come vestito di velluto, le palme che seguono la strada verso il Pura Dalem sono ornate a festa, i rami intrecciati si muovono al debole vento. Il palazzo principale, così come tutta l’area intorno, è di una bellezza intrigante: cortei di uomini e donne vestite a festa, macchie di colore smorzato solo dal grigio del cielo. Abiti gialli, bianchi, rosa, e poi fiori e offerte portate al tempio dentro cestini di foglie, animali, incensi, scampanellii che regolano le funzioni sacre. Il suono prolungato dei sonagli religiosi si unisce alle orchestre gamelan e al fruscio di danze legong, formano un sottile filo musicale che riannoda il tutto. Per assistere alla cerimonia indossiamo un pareo sopra i nostri abiti, e devo dire che la tolleranza nei nostri confronti è esemplare. Vinco ogni indugio e fotografo quella magia. Il palazzo è formato da un grande Bale Banjar, un luogo di incontro pubblico costruito di legno, in pratica è un enorme gazebo dove si prega e si suona, si balla oppure semplicemente ci si incontra.
Intorno al bersò sorge il palazzo delle cerimonie, costruito di pietre laviche e contornato dall’aling/aling, un muro di protezione usato anche nelle case private. L’aling/aling è una parete posta all’entrata di una casa balinese; poiché i demoni possono muoversi solo in linea retta impedisce loro di entrare dalla porta principale. L’ingresso al palazzo, dove è in corso la benedizione di uomini e animali, è protetta da due statue hindù dall’aspetto feroce chiamate Raska; i tetti dei piccoli e grandi santuari sono di stile Meru, cioè tetti di materiale vegetale sovrapposti uno all’altro a formare una curiosa copertura piramidale. Intorno a noi centinaia di balinesi continuano a fluire all’interno dei santuari. Ci ripariamo dalla pioggia vicino ad un gruppo di donne e bambini, gli abiti traforati di stoffa gialla e rosa compiono il miracolo di trasportarci in un mondo fiabesco. Queste persone passano la vita a coltivare i campi, e oggi, trasformate per magia in creature principesche, spargono sensualità palpabile dalle loro mani callose. La pioggia non interrompe l’arrivo dei dignitari, scendono da grosse auto accompagnati da inservienti con ombrelli e seguiti da uno stuolo di portatori d’offerte. Anche il potere è rappresentato.
Due galli stanno combattendo dentro un cerchio ondeggiante di uomini che li incitano, le loro zampe portano legate sottilissime lame ricurve. Alzo gli occhi e poco lontano un monaco, seduto nel suo scranno sopraelevato, benedice un maialino da latte. Gli indonesiani seguono la festa seduti sui talloni, donne sedute a terra accostano al petto bimbi in fasce, cani gironzolano alla ricerca dei loro padroni e di offerte alimentari incustodite.
Piedi e zampe e terra. Una terra che vibra di calpestii danzanti. Un rumore di sonagli legati alle caviglie e la terra risuona di racconti ondeggianti - rappresentazioni di gesta eroiche - antiche storie d’amore e di battaglie.
La festa sembra non finire mai, i piccoli martelli percuotono le barre di metallo, i musicisti instancabili ribadiscono all’infinito i loro fraseggi musicali, traducono la ciclicità della vita nel ripetersi uguale delle note.
Fumo d’incenso e petali di fiori. Coccarde di stoffa e diademi d’oro. Seta - batik ed intrecci d’argento.
Alla sera, nel cielo, s’alzano animali fantastici di plastica e carta. La foresta delle scimmie risuona di memorie non ancora raccontate, e i cantori kechak completano la magia notturna. Tutto questo popola di sogni la mia notte. Le fughe oniriche si alternano alle rimozioni continue di riecheggiamenti infantili, tutto questo è sospinto dalla terra magnetica alla mia memoria. Durante la notte, per tutte le notti, una mano misteriosa ha posato offerte e incensi fuori dalla nostra stanza.
A Bali è d’obbligo fuggire le strade rombanti, cercare non molto lontano da negozi per solo turisti quelle storie fatte di piccole cose, di verità profonde raccontate dai ricordi di questa Terra di Re. Luoghi che hanno visto passare generazioni di principi indiani e dignitari mussulmani, colonizzatori olandesi e truppe giapponesi. Terra che ha sognato il comunismo, una sorta di marxismo asiatico difficile da attuare, e che ora vive all’ombra del Grande Capitale e delle multinazionali del legname. Terra viva, nel profondo delle campagne, tra i terrazzamenti coltivati a riso. Terra legata indissolubilmente ai riti antichi.
Tampaksiring.
Visitiamo il complesso religioso che sorge sul fiume tra le risaie: una roccia enorme scavata e scolpita con nicchie e grotte ricavate in profondità. Nell’ampia gola risaliamo il fiume, per entrare nei templi è d’obbligo indossare una cintura colorata annodata in vita. I templi sono molto poveri ma aggraziati e ricercati nei particolari. Ritornando in paese sostiamo al Monastero dell’Elefante, e seguiamo una processione scendere al fiume. Vicino alla riva si denudano immergendosi nelle acque che sgorgano dal monte. Gli uomini restano in disparte dalle donne, nudi con una tranquillità che zittisce il nostro muto inseguimento curioso. Respiriamo un’armonia che ci fa sentire superflui in quell’attimo così privato, in quei modi così antichi.
Partenza da Ubud per Singaraja.
Riprendiamo la strada accidentata che sale al passo di Kintamani, da qui è possibile godere una vista superba sui vulcani ed il lago Batur. Giunti a Singaraja scendiamo solo noi due, il bus continua la sua corsa diretto a Lovina, la Rimini locale. Vedendo la città abbiamo un attimo di sconforto. La depressione regna sovrana. Per non far crescere muschio sotto i nostri piedi, cerchiamo una pensione dove depositare gli zaini e subito ripartiamo per i famosi templi di Sagsit. Con dei bemo locali, piccoli camioncini, arriviamo al Pura Beji, un tempio dedicato agli spiriti che proteggono le risaie. Il palazzo non tradisce le aspettative: riccamente scolpito reca, ancora leggibili, mascheroni colorati. Una donna ci benedice, prima di entrare, cospargendoci il capo d’acqua aromatizzata con fiori di frangipani. Il caldo è opprimente e tutta la zona è una piana assolata e riarsa. Attraverso i sentieri giungiamo al Pura Dalem, un altro tempio ben conservato che porta incisi pannelli votivi con scene di raccolto e figure erotiche. Intorno a noi i campi gialli contrastano con il verde delle palme, e i rilievi montuosi, in lontananza, fremono d’aria calda e nel cielo si stagliano nuvole bianchissime.
Alba. Improvvisi spiragli di luce penetrano dai fori del muro nella stanza. Una stanza sperduta, in un mondo perduto di una terra perduta. Uno spiraglio che desta senza dolore, una luce che riporta alla mente: il nome della città, della nazione, dell’albergo, tugurio, buco, losmen, recinto di famiglia. Alba che trascina i rumori quotidiani. Campanelle diverse percosse da venditori in strada che muovono carretti, trasportano fritti impiastricciati d'olio e sconosciute bevande colorate. Riconosco questi suoni del mondo: il carillon del gelataio, le percussioni di legno che preannunciano il pollo fritto, le melopee, più o meno armoniose, delle venditrici di frutta. Un sottofondo di scioglilingua intraducibili, seguono sempre gli stessi tracciati, le stesse strade, gli stessi hallo!
Identiche storie di luoghi e persone diverse. Un unico risveglio per tutto il mondo.
A Lovina i bambini vendono, sulla spiaggia, collane di conchiglie costruite da loro, poco lontano i loro padri offrono funghi allucinogeni, un tempo usati solo come mediatori religiosi.
Hassan Halib raccoglie dal fuoco, di canne di fiume, piccoli ritagli di carta annerita osserva la grafia minuta e composta di ogni singolo frammento. Depone i frammenti anneriti sulla sabbia, uno appresso all’altro e quasi per incanto scopre parole a lui note. Le dispone di sua fantasia ricercando un senso che le possa unire. Per ultima lascia una parola che da tanti anni non pronuncia.
Vedo – Artigli - Bocche spalancate – Fauci – Zanne - Fiamme
Durga - Ganesh - Scene erotiche - Corone di fiori - Offerte
Animali scolpiti - Portali d’oro
Templi di canne - Tetti di palma
Pietre laviche - Guerrieri - Battaglie - Dolori dell’aldilà
Fiori di frangipani – Serpenti - Uccelli rapaci - Bimbi divorati
Sonagli – Gong – Litanie - Stupa - Preghiere di stoffa
Fotografie di avi - Cesti di banano - Piscine sacre
Fiumi - Acqua
Scorre – Scorre - Scorre
Risaie - Farfalle - Aquiloni
Volano – Volano - Volano
Mani - Mani di fanciulli al lavoro - Mani - Mani
Mani sinuose nella danza
Flauto
Ripete – Ripete - Ripete all’infinito
Musica - Canti sommessi – Storie – Sinta – Rama - Maharabata
Cremazioni - Spiritualità
Sorrisi – Sorrisi - Sorrisi
Leggerezza - Pesantezza
Suolo - Terra - Fango – Sabbia - Sogni - Ignoto
Rivoluzione – Rivoluzione - Rivoluzione
Durga - Ganesh - Scene erotiche - Corone di fiori - Offerte
Animali scolpiti - Portali d’oro
Templi di canne - Tetti di palma
Pietre laviche - Guerrieri - Battaglie - Dolori dell’aldilà
Fiori di frangipani – Serpenti - Uccelli rapaci - Bimbi divorati
Sonagli – Gong – Litanie - Stupa - Preghiere di stoffa
Fotografie di avi - Cesti di banano - Piscine sacre
Fiumi - Acqua
Scorre – Scorre - Scorre
Risaie - Farfalle - Aquiloni
Volano – Volano - Volano
Mani - Mani di fanciulli al lavoro - Mani - Mani
Mani sinuose nella danza
Flauto
Ripete – Ripete - Ripete all’infinito
Musica - Canti sommessi – Storie – Sinta – Rama - Maharabata
Cremazioni - Spiritualità
Sorrisi – Sorrisi - Sorrisi
Leggerezza - Pesantezza
Suolo - Terra - Fango – Sabbia - Sogni - Ignoto
Rivoluzione – Rivoluzione - Rivoluzione
Hassan Halib si alza da terra. Vende collane e conchiglie per poter mangiare. Riporta lo sguardo a due turisti che si avvicinano, abbandona sulla sabbia il percorso di parole, e si allontana pensando: Avrò tempo per la rivoluzione?
Singaraja - Culik - Amed. Il bus ci lascia a tre chilometri da Amed.
Culik è un paese del nulla, mercanteggiamo per trovare un passaggio e dopo alcune incomprensioni, esasperate dal sole cocente, finalmente arriviamo ad Amed. Troviamo una stanza in un bungalow sul mare e la passeggiata pomeridiana ci fa scoprire angoli tranquilli tra le baie. Il mare è eternamente al lavoro, come le massaggiatrici sulla spiaggia. Di fronte a noi svetta il vulcano, il Gunug Anung, l’Ombelico del Mondo, come viene descritto nella cosmogonia balinese. Travolti dal tramonto, ritorniamo al villaggio nel buio più completo, cullati dal tepore della sera tropicale.
L’alba ci porta il risveglio in un mondo movimentato da ogni forma animale possibile, in una terra non ancora bonificata totalmente, e popolata da insetti, cani, maiali e galline. L’orizzonte è frastagliato dalle barche da pesca “prahu”, che appaiono come silhouette di ragni sospesi sulle zampe a bilanciere. Le saline, vicino al villaggio, rivivono di acqua fresca portata a mano dentro i secchi, in un lento andare e venire di donne e bambini dalla riva. Il sale è la ricchezza primaria di questi villaggi. Nelle capanne comunitarie, prive di acqua dolce, vengono utilizzati pozzi e piccoli canali per i bisogni quotidiani. La maggioranza delle famiglie vive in capanne poco discoste dalla riva del mare, di questo mare che accompagna con il rumore di risacca il lavoro senza sosta. Le famiglie si raccolgono intorno al pozzo per il bagno mattutino, ridono e insaponandosi mezzi nudi scherzano tra di loro; uomini e maiali nel raggio di pochi metri, in un’immagine d’insieme che ricorda i quadri dei pittori moderni balinesi. Tele e batik, raffigurano, in pochi centimetri di stoffa: le palme, le capanne, cani, pozzi, fiumi e gente, barche e biciclette…tanti Brueghel e Bosh indonesiani che congelano nelle pitture i caratteri dell’universo balinese, miniature di un mondo che si ripete in ogni villaggio dell’isola sempre allo stesso modo.
Albe e tramonti di terre primordiali - e leggiadre farfalle poco discoste da cumuli di rifiuti.
Nella notte giovani donne accendono incensi propiziatori in riva al mare, lasciano offerte nei piccoli templi a colonna che si incontrano tra i campi coltivati, con le palme delle mani al cielo pronunciano lievi preghiere. Chissà se il mare, domani, esaudirà le invocazioni. Una pesca miracolosa, di pesci mitologici, sognano gli uomini sulle barche colorate. Abbandoniamo la terra ferma: un bagno ristoratore e una nuotata lunghissima tra pesci multicolori e fondali di corallo.
Lasciamo il mare diretti a Tirtagangga.
Il sonnolento villaggio deve la sua fama al Palazzo sull’acqua, ma sicuramente più interessante è un trekking attraverso le risaie, sopra minuscoli ponti ed argini rinforzati, utilizzati per il lavoro ma anche come via alternativa per raggiungere gli abitati limitrofi. Il sole è implacabile, ma il desiderio di sgambettare è tale che, individuata una collina in lontananza, decisamente ci dirigiamo nella sua direzione, tra lo scorrere incessante dell’acqua canalizzata. Intorno a noi sono presenti tutte le tonalità del verde, la campagna degrada rigogliosa per poi raggiungere le terre brulle, vicino al mare. Ritmi di lavoro incessante: la semina, la protezione dei raccolti dagli uccelli. Lungo il sentiero incontriamo piccoli templi a colonna con le offerte di riso. Giunti alla collina la vista spazia per trecentosessanta gradi, più o meno quelli che il sole di Bali indirizza sulle nostre teste. L’acqua fresca dei rigagnoli ci fa rinascere, ed un classico Mie Goreng, gli spaghettini di riso, sfama i viaggiatori.
Hassan Halib suona un rebab a due corde e accompagna la musica con la voce. Non intona un canto di preghiera, assomiglia piuttosto ad una narrazione, un fluire di parole improvvisate, un declamare melodico, un ricordare…
Caldo – Serpi d’acqua – Risaie – Acqua che scorre – Giallo e verde Gunung Anung – Sentieri – Capanne – Schiene al lavoro – Zappe Lucertole grasse – Rosse libellule – Respiri di rane – Animali e gente Ritmi, passi, anni, secoli, generazioni – Corpi magri – Cappelli di paglia – Spaventapasseri – Incitamenti continui – Templi abbandonati - Mercanti - Bianchi sorrisi – Profili bellissimi – Macchie di colore - Sterco – Sterco – Sterco. Mentre il suono e le parole si perdono lontano, penso alle persone che trascorrono la loro vita lavorando dall’alba al tramonto, per un pugno di riso come si dice, e penso alla mia età… In questo paese alla mia età sono già vecchi, provati da generazioni di duro lavoro. Corpi di tek, piegati nelle acque stagnanti, corpi incrostati di sale e sudore, polvere e sabbia di fiume, corpi che non conoscono il riposo.
Hassan Halib mi osserva e sembra indovinare i miei pensieri. Decido di aggiungere parole al suo gioco della memoria…
Mondi in cui la fatica è lo stato primario. Mondi di capanne e gente private di ogni diritto. Mondo di bimbi che vedono passare grossi turisti bianchi, così strani con enormi fardelli legati alla schiena, bimbi sorpresi da quelle gambe bianchissime che fuoriescono da ridicoli calzoncini corti. Bambini assorti che osservano transitare emissari di un altro mondo, scrutano le apparizioni stringendo nelle mani l’eterno aquilone. Bambini vestiti a festa, impettiti nelle cerimonie oppure durante la danza, fanciulli che hanno occhi luminosi e sorrisi taglienti come kriss affilati. Un misto. Un frullatore. Un impasto di vite vissute e terriccio. Sorrido pensando a come l’uomo ha generato esagerate differenze…ed il potere ingrassa su questi visi e sulle mie elucubrazioni. Rivoluzioniamo il potere, in poter essere…
Ritorno a Ubud. Uccelli e galline iniziano molto presto a fare festa all’alba. Tutto si risveglia e non dà più tregua. Borbottii lontani, tortore che tubano, gechi che quasi chiocciano inseguendosi sopra le pareti, piccoli uccelli senza sosta svolazzano nell’aria che lentamente si scalda di alba e di fuochi accesi nei recinti di famiglia. Vaghiamo tutto il giorno in bicicletta; visitiamo il museo Neka, dove sono esposte le opere pittoriche di autori moderni.
Domani si torna a Giava; il viaggio per Yogya durerà venti ore, tra autobus e nave, e nell’attesa salutiamo Bali in silenzio.
Ritorno all’Isola di Giava. Festa dell’Indipendenza a Yogya.
Alle otto di mattina arriviamo alla pensione Rose, dopo un giorno di viaggio rocambolesco, tra soste inspiegabili, trasbordi notturni, forature e soste d’obbligo. La via Malioboro è chiusa al traffico per la parata militare. Improvvisamente viene percorsa da un corteo alternativo di studenti e simpatizzanti del PDI: il Partito Democratico Indonesiano; protestano nei confronti dei militari e difendono le posizioni di Megawati, non ancora riconosciuta dal governo come la vincitrice delle ultime elezioni. La contromanifestazione è colorita ma povera di partecipanti, il contrasto tra le due cerimonie è lampante. Da una parte divise militari impeccabili e dall’altra slogan di libertà, di diritti al lavoro e allo studio. Partecipiamo ad entrambi i momenti. Dopo un mese traduciamo con più precisione gli umori respirabili, comprendiamo l’aria che tira, a volte dividiamo le memorie e sofferenze altrui. Fotografo freddamente quello che mi circonda: le lucide automobili delle autorità, le armi, i volti della protesta, le divise dei soldati, le pose militari, i piedi scalzi, i funzionari con i loro cappelli neri, le gabbie di uccelli, i cartelli di reclamo, la folla, le sagome lontane del sultano e della consorte, le bande musicali, le fondine con pistole lucide, gli sfollagente, la gioventù ribelle e le ciabatte consumate, i mendicanti, le ferite e i sogni.
…poveri straccioni e grandi signori (De Andrè)
Prambanan: l’antico regno di Mataram, diviso nella storia tra le dinastie hinduiste e buddiste.
In questa pianura a ridosso dei vulcani sorge Prambanan. L’esempio più bello dell’arte hindo-giavanese sono le guglie dei “candi”: i templi che raggiungono i cinquanta metri di altezza. I palazzi sono come enormi e le incisioni splendidamente leggibili. Il Gunug Merapi incombe sopra i templi, sfoggiando la sua vetta fumante, dalle pendici lo sguardo raggiunge l’Oceano Indiano. Al tramonto una famiglia indonesiana ci adotta come “personaggi del giorno”, tutti i figli si fanno fotografare insieme a noi, siamo stranieri da poter mostrare ai vicini una volta tornati a casa. Rientriamo a Yogya ascoltando il canto del muezzin. Avevamo perso l’abitudine. In questo momento Bali è lontana. In questa terra le cerimonie non esistono, questa è patria di becak insistenti, di traffico senza sosta, di spiritualità diversa. Due isole così vicine eppure molto lontane.
Domani si rientra a Bogor, pronti al ritorno…o quasi.
Bogor è il suo fiume; vissuto nei modi che avvicinano l’Islam all’India, nell’acqua limacciosa dove i bisogni corporali e il lavaggio dei panni avviene uno accanto all’altro. Sopra il ponte della città sono in bella mostra uccelli in gabbia con occhi grandissimi e colori stupendi, tanta bellezza per una vita segregata. Bagliori di piume sul ciglio della strada trafficata che porta al mercato fatiscente di Bogor; cinguettii negati dall’eterno mormorio delle auto.
Gli zaini sono aperti a terra.
Ogni cosa è sparsa sopra il letto e le sedie, ogni singola ora trascorsa in questo viaggio è leggibile attraverso: la sabbia, le maschere, un fiore secco, il tabacco indonesiano.
Segni di un percorso che si interseca con altre strade, lontane nel tempo. Lo zaino appare come veicolo di memoria, nel quale da molti anni fuoriescono piccole cose che si trasformano in perle di un unico rosario da preghiera. E’ come se il viaggio non fosse mai finito e trasciniamo con noi pezzi di mondo differenti fraternizzandoli tra di loro. Un export-import molto privato, fatto di piccole cose che portano gli stessi segni di percorso. Percorsi che tendono ad assomigliarsi; le culture povere hanno sempre un punto di incontro, tra gli orditi di umili stoffe oppure nei geometrici disegni di perline cucite a formare animali mitologici.
Calarsi in profondità è vivere vite altrui.
Assumo il ruolo di altre persone: uomini, donne, animali, oggetti disparati, assassini, prostitute, avvocati, gente comune. Mi trasformo in una di quelle mosche che si inseguono eccitate da odori di frutta marcescente sotto il sole. Mosche instancabili che non sempre seguono una traccia precisa, a volte si lanciano, come impazzite, su boccali di bibite o tazze con improbabili marmellate, volano in picchiata puntando il burro salato. Gli insetti popolano le piccole friggitorie di strada, cubicoli di legno con ruote di bicicletta e panche improvvisate. Ronzano tra i fritti riscaldati dal sole, dietro vetri opacizzati dal tempo, come a prestarsi ad un esperimento sull’effetto serra. Piccoli animali, mondi ronzanti dei cervi volanti, quasi totalmente scomparsi nelle nostre terre. Qui tutto si muove, ogni cosa è dotata di vita propria. Il formicolio di insetti è un mondo parallelo che non riposa mai, sopporta e convive con lo spray delle multinazionali. Ripiego le ali e riprendo il ruolo dell’osservatore. Le grasse lucertole immobili al sole sono lucide d’acqua di risaia. Le farfalle, grandi come il palmo di una mano, fremono il colore acceso delle loro ali. Farfalle effimere, bagliori e striature si mescolano con gli aquiloni lontani, alzati per gioco alle brezze serali. I voli traducono l’evaporazione dei sogni e tentano di toccare il cielo, inebriarsi di vento che in alto possiede ancora trasparenze, un azzurro intenso sopravvissuto all’odore di carburante da quattro soldi. Speranze alzate in cielo ma non disperse: messaggi, simboli e segni di carta e plastica che raffigurano draghi con lunghe code. Sperimentazione d’arte povera più che semplice gioco. E di nuovo una mosca ubriaca di birra distoglie il mio sguardo dal cielo. Ritorno sulla terra, mi perdo ad osservare scontri e vittorie della dignità umana, una dignità travolta, tradita, eppure ancora palpabile, vissuta ancora oggi come una dote da difendere. Nelle speranze future, di questo frenetico andirivieni, respiro il pericolo dello scontro.
Singaraja - Culik - Amed. Il bus ci lascia a tre chilometri da Amed.
Culik è un paese del nulla, mercanteggiamo per trovare un passaggio e dopo alcune incomprensioni, esasperate dal sole cocente, finalmente arriviamo ad Amed. Troviamo una stanza in un bungalow sul mare e la passeggiata pomeridiana ci fa scoprire angoli tranquilli tra le baie. Il mare è eternamente al lavoro, come le massaggiatrici sulla spiaggia. Di fronte a noi svetta il vulcano, il Gunug Anung, l’Ombelico del Mondo, come viene descritto nella cosmogonia balinese. Travolti dal tramonto, ritorniamo al villaggio nel buio più completo, cullati dal tepore della sera tropicale.
L’alba ci porta il risveglio in un mondo movimentato da ogni forma animale possibile, in una terra non ancora bonificata totalmente, e popolata da insetti, cani, maiali e galline. L’orizzonte è frastagliato dalle barche da pesca “prahu”, che appaiono come silhouette di ragni sospesi sulle zampe a bilanciere. Le saline, vicino al villaggio, rivivono di acqua fresca portata a mano dentro i secchi, in un lento andare e venire di donne e bambini dalla riva. Il sale è la ricchezza primaria di questi villaggi. Nelle capanne comunitarie, prive di acqua dolce, vengono utilizzati pozzi e piccoli canali per i bisogni quotidiani. La maggioranza delle famiglie vive in capanne poco discoste dalla riva del mare, di questo mare che accompagna con il rumore di risacca il lavoro senza sosta. Le famiglie si raccolgono intorno al pozzo per il bagno mattutino, ridono e insaponandosi mezzi nudi scherzano tra di loro; uomini e maiali nel raggio di pochi metri, in un’immagine d’insieme che ricorda i quadri dei pittori moderni balinesi. Tele e batik, raffigurano, in pochi centimetri di stoffa: le palme, le capanne, cani, pozzi, fiumi e gente, barche e biciclette…tanti Brueghel e Bosh indonesiani che congelano nelle pitture i caratteri dell’universo balinese, miniature di un mondo che si ripete in ogni villaggio dell’isola sempre allo stesso modo.
Albe e tramonti di terre primordiali - e leggiadre farfalle poco discoste da cumuli di rifiuti.
Nella notte giovani donne accendono incensi propiziatori in riva al mare, lasciano offerte nei piccoli templi a colonna che si incontrano tra i campi coltivati, con le palme delle mani al cielo pronunciano lievi preghiere. Chissà se il mare, domani, esaudirà le invocazioni. Una pesca miracolosa, di pesci mitologici, sognano gli uomini sulle barche colorate. Abbandoniamo la terra ferma: un bagno ristoratore e una nuotata lunghissima tra pesci multicolori e fondali di corallo.
Lasciamo il mare diretti a Tirtagangga.
Il sonnolento villaggio deve la sua fama al Palazzo sull’acqua, ma sicuramente più interessante è un trekking attraverso le risaie, sopra minuscoli ponti ed argini rinforzati, utilizzati per il lavoro ma anche come via alternativa per raggiungere gli abitati limitrofi. Il sole è implacabile, ma il desiderio di sgambettare è tale che, individuata una collina in lontananza, decisamente ci dirigiamo nella sua direzione, tra lo scorrere incessante dell’acqua canalizzata. Intorno a noi sono presenti tutte le tonalità del verde, la campagna degrada rigogliosa per poi raggiungere le terre brulle, vicino al mare. Ritmi di lavoro incessante: la semina, la protezione dei raccolti dagli uccelli. Lungo il sentiero incontriamo piccoli templi a colonna con le offerte di riso. Giunti alla collina la vista spazia per trecentosessanta gradi, più o meno quelli che il sole di Bali indirizza sulle nostre teste. L’acqua fresca dei rigagnoli ci fa rinascere, ed un classico Mie Goreng, gli spaghettini di riso, sfama i viaggiatori.
Hassan Halib suona un rebab a due corde e accompagna la musica con la voce. Non intona un canto di preghiera, assomiglia piuttosto ad una narrazione, un fluire di parole improvvisate, un declamare melodico, un ricordare…
Caldo – Serpi d’acqua – Risaie – Acqua che scorre – Giallo e verde Gunung Anung – Sentieri – Capanne – Schiene al lavoro – Zappe Lucertole grasse – Rosse libellule – Respiri di rane – Animali e gente Ritmi, passi, anni, secoli, generazioni – Corpi magri – Cappelli di paglia – Spaventapasseri – Incitamenti continui – Templi abbandonati - Mercanti - Bianchi sorrisi – Profili bellissimi – Macchie di colore - Sterco – Sterco – Sterco. Mentre il suono e le parole si perdono lontano, penso alle persone che trascorrono la loro vita lavorando dall’alba al tramonto, per un pugno di riso come si dice, e penso alla mia età… In questo paese alla mia età sono già vecchi, provati da generazioni di duro lavoro. Corpi di tek, piegati nelle acque stagnanti, corpi incrostati di sale e sudore, polvere e sabbia di fiume, corpi che non conoscono il riposo.
Hassan Halib mi osserva e sembra indovinare i miei pensieri. Decido di aggiungere parole al suo gioco della memoria…
Mondi in cui la fatica è lo stato primario. Mondi di capanne e gente private di ogni diritto. Mondo di bimbi che vedono passare grossi turisti bianchi, così strani con enormi fardelli legati alla schiena, bimbi sorpresi da quelle gambe bianchissime che fuoriescono da ridicoli calzoncini corti. Bambini assorti che osservano transitare emissari di un altro mondo, scrutano le apparizioni stringendo nelle mani l’eterno aquilone. Bambini vestiti a festa, impettiti nelle cerimonie oppure durante la danza, fanciulli che hanno occhi luminosi e sorrisi taglienti come kriss affilati. Un misto. Un frullatore. Un impasto di vite vissute e terriccio. Sorrido pensando a come l’uomo ha generato esagerate differenze…ed il potere ingrassa su questi visi e sulle mie elucubrazioni. Rivoluzioniamo il potere, in poter essere…
Ritorno a Ubud. Uccelli e galline iniziano molto presto a fare festa all’alba. Tutto si risveglia e non dà più tregua. Borbottii lontani, tortore che tubano, gechi che quasi chiocciano inseguendosi sopra le pareti, piccoli uccelli senza sosta svolazzano nell’aria che lentamente si scalda di alba e di fuochi accesi nei recinti di famiglia. Vaghiamo tutto il giorno in bicicletta; visitiamo il museo Neka, dove sono esposte le opere pittoriche di autori moderni.
Domani si torna a Giava; il viaggio per Yogya durerà venti ore, tra autobus e nave, e nell’attesa salutiamo Bali in silenzio.
Ritorno all’Isola di Giava. Festa dell’Indipendenza a Yogya.
Alle otto di mattina arriviamo alla pensione Rose, dopo un giorno di viaggio rocambolesco, tra soste inspiegabili, trasbordi notturni, forature e soste d’obbligo. La via Malioboro è chiusa al traffico per la parata militare. Improvvisamente viene percorsa da un corteo alternativo di studenti e simpatizzanti del PDI: il Partito Democratico Indonesiano; protestano nei confronti dei militari e difendono le posizioni di Megawati, non ancora riconosciuta dal governo come la vincitrice delle ultime elezioni. La contromanifestazione è colorita ma povera di partecipanti, il contrasto tra le due cerimonie è lampante. Da una parte divise militari impeccabili e dall’altra slogan di libertà, di diritti al lavoro e allo studio. Partecipiamo ad entrambi i momenti. Dopo un mese traduciamo con più precisione gli umori respirabili, comprendiamo l’aria che tira, a volte dividiamo le memorie e sofferenze altrui. Fotografo freddamente quello che mi circonda: le lucide automobili delle autorità, le armi, i volti della protesta, le divise dei soldati, le pose militari, i piedi scalzi, i funzionari con i loro cappelli neri, le gabbie di uccelli, i cartelli di reclamo, la folla, le sagome lontane del sultano e della consorte, le bande musicali, le fondine con pistole lucide, gli sfollagente, la gioventù ribelle e le ciabatte consumate, i mendicanti, le ferite e i sogni.
…poveri straccioni e grandi signori (De Andrè)
Prambanan: l’antico regno di Mataram, diviso nella storia tra le dinastie hinduiste e buddiste.
In questa pianura a ridosso dei vulcani sorge Prambanan. L’esempio più bello dell’arte hindo-giavanese sono le guglie dei “candi”: i templi che raggiungono i cinquanta metri di altezza. I palazzi sono come enormi e le incisioni splendidamente leggibili. Il Gunug Merapi incombe sopra i templi, sfoggiando la sua vetta fumante, dalle pendici lo sguardo raggiunge l’Oceano Indiano. Al tramonto una famiglia indonesiana ci adotta come “personaggi del giorno”, tutti i figli si fanno fotografare insieme a noi, siamo stranieri da poter mostrare ai vicini una volta tornati a casa. Rientriamo a Yogya ascoltando il canto del muezzin. Avevamo perso l’abitudine. In questo momento Bali è lontana. In questa terra le cerimonie non esistono, questa è patria di becak insistenti, di traffico senza sosta, di spiritualità diversa. Due isole così vicine eppure molto lontane.
Domani si rientra a Bogor, pronti al ritorno…o quasi.
Bogor è il suo fiume; vissuto nei modi che avvicinano l’Islam all’India, nell’acqua limacciosa dove i bisogni corporali e il lavaggio dei panni avviene uno accanto all’altro. Sopra il ponte della città sono in bella mostra uccelli in gabbia con occhi grandissimi e colori stupendi, tanta bellezza per una vita segregata. Bagliori di piume sul ciglio della strada trafficata che porta al mercato fatiscente di Bogor; cinguettii negati dall’eterno mormorio delle auto.
Gli zaini sono aperti a terra.
Ogni cosa è sparsa sopra il letto e le sedie, ogni singola ora trascorsa in questo viaggio è leggibile attraverso: la sabbia, le maschere, un fiore secco, il tabacco indonesiano.
Segni di un percorso che si interseca con altre strade, lontane nel tempo. Lo zaino appare come veicolo di memoria, nel quale da molti anni fuoriescono piccole cose che si trasformano in perle di un unico rosario da preghiera. E’ come se il viaggio non fosse mai finito e trasciniamo con noi pezzi di mondo differenti fraternizzandoli tra di loro. Un export-import molto privato, fatto di piccole cose che portano gli stessi segni di percorso. Percorsi che tendono ad assomigliarsi; le culture povere hanno sempre un punto di incontro, tra gli orditi di umili stoffe oppure nei geometrici disegni di perline cucite a formare animali mitologici.
Calarsi in profondità è vivere vite altrui.
Assumo il ruolo di altre persone: uomini, donne, animali, oggetti disparati, assassini, prostitute, avvocati, gente comune. Mi trasformo in una di quelle mosche che si inseguono eccitate da odori di frutta marcescente sotto il sole. Mosche instancabili che non sempre seguono una traccia precisa, a volte si lanciano, come impazzite, su boccali di bibite o tazze con improbabili marmellate, volano in picchiata puntando il burro salato. Gli insetti popolano le piccole friggitorie di strada, cubicoli di legno con ruote di bicicletta e panche improvvisate. Ronzano tra i fritti riscaldati dal sole, dietro vetri opacizzati dal tempo, come a prestarsi ad un esperimento sull’effetto serra. Piccoli animali, mondi ronzanti dei cervi volanti, quasi totalmente scomparsi nelle nostre terre. Qui tutto si muove, ogni cosa è dotata di vita propria. Il formicolio di insetti è un mondo parallelo che non riposa mai, sopporta e convive con lo spray delle multinazionali. Ripiego le ali e riprendo il ruolo dell’osservatore. Le grasse lucertole immobili al sole sono lucide d’acqua di risaia. Le farfalle, grandi come il palmo di una mano, fremono il colore acceso delle loro ali. Farfalle effimere, bagliori e striature si mescolano con gli aquiloni lontani, alzati per gioco alle brezze serali. I voli traducono l’evaporazione dei sogni e tentano di toccare il cielo, inebriarsi di vento che in alto possiede ancora trasparenze, un azzurro intenso sopravvissuto all’odore di carburante da quattro soldi. Speranze alzate in cielo ma non disperse: messaggi, simboli e segni di carta e plastica che raffigurano draghi con lunghe code. Sperimentazione d’arte povera più che semplice gioco. E di nuovo una mosca ubriaca di birra distoglie il mio sguardo dal cielo. Ritorno sulla terra, mi perdo ad osservare scontri e vittorie della dignità umana, una dignità travolta, tradita, eppure ancora palpabile, vissuta ancora oggi come una dote da difendere. Nelle speranze future, di questo frenetico andirivieni, respiro il pericolo dello scontro.
E proprio non c’è speranza in nessun luogo
perché siamo tutti disuniti e vergognosi…
Jak Kerouak
(Angeli di desolazione)
perché siamo tutti disuniti e vergognosi…
Jak Kerouak
(Angeli di desolazione)
Indonesia. Luglio – Agosto 1999.