L’autobus diretto a Rodi procede lungo la costa; il bigliettaio non annuncia l’ingresso nei quartieri e nei villaggi di un tempo, elenca invece gli alberghi accozzati in stili estranei all’ambiente: Golden House, Paradise, New Castle. Declama gli indirizzi e i nomi altisonanti delle enormi costruzioni che accolgono le masse dei turisti di stagione; eserciti più o meno bellicosi. All’esterno dalle piramidi di cemento gli agglomerati, di tavoli e sedie dei ristoranti, si diversificano solamente dal colore delle stoffe, dalle imbottiture e trame dei finti marmi in pvc. Allontanandosi con la nave l’uomo osserva rimpicciolire la cittadella e il minareto sulla collina.
Il porto di Symi è tranquillo nel tardo pomeriggio. I turisti, rimandati a domani, hanno abbandonato la lastra cristallina della baia blu cobalto. Dal porto salgono gli schiaffi al vento delle schiave bandiere greche e turche. Nelle stradine in salita i rumori ricordano navi alla deriva, e i cigolii delle tettoie, nei minuscoli terrazzi costruiti alla rinfusa tra le facciate dai colori sgargianti, ninnano il tramonto. I timpani centrali alle coperture dei tetti a spiovente assumono l’aspetto degli oblò di un transatlantico, e lo scafo si complica in cubicoli slavati dalla salsedine; giochi a incastro sovrapposti. Le sartie per stendere il bucato restano in bando vibrando nella notte come verricelli tesi. I canapi assicurano le antenne televisive e i pali di legno della linea elettrica; ragnatele di cordami catturano le brezze. I morsetti allentati percuotono le pareti e il frastuono delle ventole, nell’assumere moti avvitanti accelerati dalle folate più energiche, genera figli minori del maltheni, del grecale, dei venti africani. Il paese diviene un galeone con porte e finestre, marmoreo ricordo dell’antico navigare, bastimento di stucco, legno e ringhiere arrugginite. Le scale vertiginose portano a tolde inesistenti, a tughe demolite. Prore contrapposte si allungano unendosi nei terrazzi piastrellati in verde smeraldo; mare di ceramica. Riparati sottocoperta gli uomini si destano di soprassalto, risvegliati dai frastuoni estranei, ricordando scorribande arabe e soldati fascisti. Parvenze di cacicchi restano arenati nelle piccole piazze acciottolate, di fronte alle cappelle ortodosse, sopra le lastre commemorative di marmo. Case come zattere, mai immobili, in un’isola pura e semplice nel suo stare lontano. Terra dispersa nella coltre trasparente del mare fosco; granulo di polvere sospesa.
Il Ferry Kalymnos procede lentamente nell’irreale piattezza per miglia e miglia. Il motore assordante ammorba di odori d’olio e fumo. Lui osserva dalla prua, attrezzata a solarium, i turisti che invadono ogni ponte e posto a sedere con la bella noncuranza e allegria di chi viaggia per piacere. Non così per quell’uomo; il lungo viaggio non era ancora al termine. Ritornava nella terra di un tempo, nelle braccia di una memoria sempre presente nonostante gli anni e la distanza reale. I luoghi più volte richiamati alla mente sembravano ora non essere stati mai abbandonati. Quanto tempo era passato. Non esisteva fine a quel vagabondare. Lui ricordava perfettamente la genesi del peregrinare dettata indubbiamente dal caso, spesso padrone di ogni azione. Non era certo di trovare qualcuno ad attenderlo. La lettera, di molte settimane prima, lo aveva raggiunto in quel porto cubano fatiscente e nostalgico.
L’affittacamere ammalata, di un male misterioso, era fermamente decisa a non ricoverarsi nel grande ospedale, profondamente convinta che nessun medico potesse curare la nostalgia, come lei la chiamava. Era una delle tante donne in nero che appaiono fragili ombre; in realtà colonne portanti, fortini di resistenza in queste isole lontane. Nata e vissuta tutta la vita in questo luogo, nulla poteva allontanarla dall’arida costa, dalla riarsa montagna che concede unicamente erbe aromatiche rinsecchite in profumi fossili del mediterraneo. Nella casa il grande specchio ovale trattiene, tra i riflessi del mare esterno, le immagini dei santi e il profilo del Pope. L’aria risuona dei richiami ripetitivi delle rondini impazzite al limitare della scogliera. Nelle fotografie appese alle pareti, gli uomini vestono camice bianche con le maniche sbuffanti, le donne in nero riposano sopra le sedie di paglia come canuti gatti acciambellati. Dalla finestra vede la donna, una macchia nera tra i gerani rampicanti e l’ibisco bianco, mentre toglie le foglie ingiallite nella vegetazione quasi tropicale del giardino. L’esploratrice in lutto avanza china.
L’uomo risale il sentiero costeggiato dai muretti a secco demoliti che proteggono inutilmente campi abbandonati da generazioni. I muri di sasso come polene frangivento riparano i terrazzamenti imbalsamati, invasi dalla macchia spinosa e acerbe infiorescenze. Le spaccature nel terreno sembrano vivere ancora l’ultimo fremito dei preistorici terremoti prima dell’assestamento. Ossidiana, tufo, pietra pomice e polvere di quarzo. Castelli in rovina, ponti inutili su alvei di sabbia e polvere. Chiese di sasso, cupole intonacate di bianco abbagliante, e nei cortili, di sassi neri e bianchi, i mosaici disegnano seghettate onde del mare. Le croci spezzate e i ruderi degli antichi luoghi di culto sorgono vicino ad ogni approdo possibile. Grotte, anfratti, baie svuotate dal mare invernale che scolla sassi rotondi dalla zolla vulcanica e d’estate accarezza, per farsi perdonare, ogni singolo granello di sabbia rincuorandolo per le perdite subite. Costa irsuta; la trincea galleggiante ha spezzato in tragedie i desideri d’oriente e la sete di conquista dei navigatori sperduti tra le costellazioni di scogli. L’alito caldo del vento spettina le acque rendendo la superficie azzurra macchiettata di menta bianca non perfettamente diluita. Carapaci spezzati, madrepore, tappi, legni, scorza di sughere. Non gabbiani plananti, ma le capre scendono alle spiagge poco prima del tramonto. Gli strati del sale, sedimentato sulle cortecce degli alberi, focalizzano ogni singolo raggio del sole sulle rughe marcate; vecchi tronchi, come vecchi uomini, piegati dall’altrui dimenticanza.
Dalla panca di legno della nave osserva transitare le cave di Nyros, la megalopoli di Kos. Un motoscafo, a tutta velocità, trasporta nel cielo un paracadute con un turista appeso che urla di gioia e paura. I barconi stracarichi di maglie colorate vanno di bolina verso le spiagge alla moda. La ragazza vicina porta tatuato un numero sulla spalla destra, 8702554, e a lui viene in mente la madre morta nell’istituto psichiatrico di Leros. Alcuni morti se ne vanno senza musica, fiori o cortei, scompaiono all’improvviso in silenzio e sembrano non lasciare un vuoto consistente. Per certuni non soffrirà nessuno. Il piccolo uccello recluso nella gabbia non potrà testimoniare in aiuto del padrone defunto, e i centrini sottovetro, accatastati alla rinfusa, resteranno per sempre nella buia dispensa odorosa di patate e salsedine. I pochi abiti alimenteranno le tarme che si prenderanno la rivincita sul macrocorpo, disinfestante, finalmente immobile.
Il bianco riflesso della nave invade la riva poco prima del vero approdo, e in quel riflesso lui pensava di poter raggiungere, lievitando, la terra. A Lipsi le tortore tubano al risveglio del sole, tentano una corte disperata al disco metallico che per natura non bada alle serenate e agli approcci d’amore fischiati. I tavoli del kafeneio Giorgiu pencolano incollati dalla salsedine. La patina di polvere umida salda i bicchieri ai tavoli, i tavoli al suolo e crea monumenti di bevitori baffuti cristallizzati. Le sedie accampate nelle piccole piazze sono immobili legionari, guarnigioni di soldati azzurri, gocce d’olio bollente in una padella di sasso e calce arroventata. Le mani della cameriera mutano in gasteropodi grinzosi che inglobano la tazzina di caffè alla turca. Poco lontano gli asini legati sotto il sole si disperano. Il gas racchiuso nella caverna è esploso, sale dall’acciottolato e la vampa avvolge ogni cosa.
Il bianco riflesso della nave invade la riva poco prima del vero approdo, e in quel riflesso lui pensava di poter raggiungere, lievitando, la terra. A Lipsi le tortore tubano al risveglio del sole, tentano una corte disperata al disco metallico che per natura non bada alle serenate e agli approcci d’amore fischiati. I tavoli del kafeneio Giorgiu pencolano incollati dalla salsedine. La patina di polvere umida salda i bicchieri ai tavoli, i tavoli al suolo e crea monumenti di bevitori baffuti cristallizzati. Le sedie accampate nelle piccole piazze sono immobili legionari, guarnigioni di soldati azzurri, gocce d’olio bollente in una padella di sasso e calce arroventata. Le mani della cameriera mutano in gasteropodi grinzosi che inglobano la tazzina di caffè alla turca. Poco lontano gli asini legati sotto il sole si disperano. Il gas racchiuso nella caverna è esploso, sale dall’acciottolato e la vampa avvolge ogni cosa.
L’uomo s’inoltra nel vecchio villaggio abbandonato tra le pietraie: le macine inutilizzabili ingombrano aie diroccate e le capre escono dai ruderi di una chiesa consacrata alla cicale. Il villaggio è caduto in disgrazia; sopra i sentieri gli escrementi delle pecore indirizzano alla collina glabra. Sulle scalinate a precipizio i bambini s’inseguono giocando con legni e corde tra le lenzuola stese e i polpi appesi al sole. Al di sotto dell’irreale bucato marino transitano gatti filiformi e cani schivi. L’uomo s’immobilizza a contare quante sono le case nuove che riempiono la collina, ammassate le une alle altre. I corsari hanno messo su casa, popolano la Tortuga dimenticata e beffandosi della credulità dei turisti raccontano di mostri marini e fantastiche peripezie.
I frammenti tenaci si sono compattati in rocce, balzi, dirupi e seni di pace sabbiosa scrollati dal maltheni. Il mare ha arrotondato i tormenti minerali, l’amalgama delle pietre vulcaniche, ma non è riuscito a cancellare i promontori inaccessibili che sfidano il mare rabbioso in aumento. Per fortuna le maree hanno reso praticabili le isole, disseminandole di casuali approdi privi di un superiore disegno preciso, permettendo all’uomo di abitare e sopravvivere nei satelliti immobili dell’Egeo. Angoli sperduti riportano perimetri, segni di città arroccate, acropoli scomparse del tutto, altari e tombe cariate dal vento. Gli ulivi centenari cingono il sentiero che sale al promontorio; custodi immobili proteggono i ruderi.
L’antica città sorge su di un monte a precipizio sulla scogliera, restano visibili le scalinate, i perimetri delle piazze, delle case, frammenti di cocci. Il terreno è adatto solamente per capre e pecore, e arbusti organizzati in alleanze inestricabili. Le macchie verdi dei bassi filari d’uva riquadrano le distese d’erba bruciata dal sole e la terra sfrigola. Dall’alto nel mare trasparente si scorge ogni singolo scoglio inabissato e il colore del fondale scurisce dolcemente con l’aumentare della profondità. I declivi subacquei si perdono nel luogo stesso dove ha origine la terra. Dallo zoccolo sommerso si innalzano isolate propaggini di un mondo annegato; atomi isolati di retzina e greco antico.
Il sentiero che raggiungeva il convento è scomparso del tutto. Tra le rocce e gli sterpi pungenti, che ricoprono i versanti delle colline riarse, il camminamento si confonde e svanisce. Il silenzio completo è spezzato dal ruggire cupo del mare incatenato agli scogli. Le vallette isolate ricordano antenati preistorici e tra le pietre calcaree i diroccati rifugi di fortuna dei pastori si confondono con i resti degli stanziamenti micenei. Il monastero appare all’improvviso, bianco e azzurro, all’interno una suora ricama seduta nell’ombra; destandosi per un momento dal tombolo pronuncia un kalimera sospirato. Le icone sono coperte dagli ex voto, appesi ai fili tesi nella chiesa; gli allumini sbalzati con le immagini sacre luccicano, altre tessere di metallo simboleggiano gambe, teste, l’intera figura umana.
Oltre i muri perimetrali il mare in subbuglio è blu profondo. Le onde, scompaginate dal vento incessante, trasportano sulle creste, bianche di spuma, ricordi di cadaveri che non trovano riposo nelle profondità. Il mugugno diviene lento lievitare di reminiscenze: saluti, addii, spari, attacchi corsari, invasioni turche, guerra di resistenza, relitti spolpati sino a diventare leggere salme di cartapesta. Uno sparo ad occidente, un segnale di fumo dall’isola di fronte. Il tronco di un indecifrabile albero avanza dall’Africa lontana; il ramo artritico è levigato a tal punto che si spezza tra le mani dell’uomo.
L’antica città sorge su di un monte a precipizio sulla scogliera, restano visibili le scalinate, i perimetri delle piazze, delle case, frammenti di cocci. Il terreno è adatto solamente per capre e pecore, e arbusti organizzati in alleanze inestricabili. Le macchie verdi dei bassi filari d’uva riquadrano le distese d’erba bruciata dal sole e la terra sfrigola. Dall’alto nel mare trasparente si scorge ogni singolo scoglio inabissato e il colore del fondale scurisce dolcemente con l’aumentare della profondità. I declivi subacquei si perdono nel luogo stesso dove ha origine la terra. Dallo zoccolo sommerso si innalzano isolate propaggini di un mondo annegato; atomi isolati di retzina e greco antico.
Il sentiero che raggiungeva il convento è scomparso del tutto. Tra le rocce e gli sterpi pungenti, che ricoprono i versanti delle colline riarse, il camminamento si confonde e svanisce. Il silenzio completo è spezzato dal ruggire cupo del mare incatenato agli scogli. Le vallette isolate ricordano antenati preistorici e tra le pietre calcaree i diroccati rifugi di fortuna dei pastori si confondono con i resti degli stanziamenti micenei. Il monastero appare all’improvviso, bianco e azzurro, all’interno una suora ricama seduta nell’ombra; destandosi per un momento dal tombolo pronuncia un kalimera sospirato. Le icone sono coperte dagli ex voto, appesi ai fili tesi nella chiesa; gli allumini sbalzati con le immagini sacre luccicano, altre tessere di metallo simboleggiano gambe, teste, l’intera figura umana.
Oltre i muri perimetrali il mare in subbuglio è blu profondo. Le onde, scompaginate dal vento incessante, trasportano sulle creste, bianche di spuma, ricordi di cadaveri che non trovano riposo nelle profondità. Il mugugno diviene lento lievitare di reminiscenze: saluti, addii, spari, attacchi corsari, invasioni turche, guerra di resistenza, relitti spolpati sino a diventare leggere salme di cartapesta. Uno sparo ad occidente, un segnale di fumo dall’isola di fronte. Il tronco di un indecifrabile albero avanza dall’Africa lontana; il ramo artritico è levigato a tal punto che si spezza tra le mani dell’uomo.
Lui guarda l’orizzonte con l’espressione infastidita, come se il sole fosse un semplice spiraglio di luce sgradevole. Gli occhi tentano di vincere l’abbaglio. L’alba ha disturbato i pensieri che per tutta la notte, in compagnia di una buona bottiglia di rakj, lo hanno riportato al tempo andato. Nella sua mente ritornava il desiderio di staccarsi dal mondo, arenarsi, e chissà per quale sentimento pensava di avvolgere le vele e disarmare la prora. Forse perché in quella terra avara, fondata nella semplice roccia incastonata tra gli spini acuminati delle acacie, regna ancora una sorta di fiera resistenza contro l’immenso vuoto intorno. Nell’animo zingaro, il rumore persistente del vento è un sospiro d’amante. Centinaia di Simbad barbuti, dai porti dispersi nel mondo, sono ritornati in questo nulla alla fine dei loro giorni. Ogni singola pietra è un ricordo, un sogno: il figlio abortito, l’amore perduto. La galassia nana è disegnata da uno zodiaco di isole e il grande foglio, macchiato d’inchiostro caduto a goccia a goccia, è la rappresentazione di un deserto d’acqua dove galleggiano zattere di pietra e sogni alla deriva che solo per miracolo restano a sfiorarsi.
I promontori e le lagune articolano il corpo dissestato dell’isola madre; i mille tentacoli calcarei fronteggiano eroicamente l’azzurra linea dell’orizzonte. Gli capitava spesso di perdere tempo ad osservare il mare, immedesimandosi nelle onde continue e rumorose che scacciano fantasie al silenzio. Era disperso in pensieri che echeggiavano nella mente, accompagnati dal rumore della risacca mentre trascina i ciottoli quasi a volerli ingurgitare, per poi rigettarli integri sulla riva. I pensieri non erano precisi, non avevano chiari riferimenti, la mente diventava un tutt’uno con il tumulto persistente. L’astrazione frammista di parole, nomi quasi estranei, ricordi sfuggenti, in una sorta di pratica zen dell’annullamento. Solo lo sguardo dimostrava di essere ancora vitale spostandosi di continuo, predatorio, all’inseguimento delle lunghe ombre serali. Per un poco seguì a piedi la scogliera. Gli anfratti profondi racchiudevano rami trascinati dal mare; negli scrigni di pietra fasciami di barche distrutte e bottiglie di plastica.
Le navi continuano il loro andare e venire senza sosta. Il rumore dell’ancora è il latrato del ferro rugginoso sotto sforzo. Lui osserva il vecchio immobile, stringere tra le mani un bastone nodoso. Era arrivato il momento delle memorie; le narrazioni lo riportarono all’infanzia: mitologia, pirati, e folletti che si trascinano tra le rovine minoiche incantando con il sibilo del vento assunto a voce. I racconti trasportano il passato e distillato d’uva; il viso di cuoio si esprime attraverso le pieghe rinsecchite dalla salinità aerea, resa tagliente dal sole. Come poteva, quel vecchio, pensare che al di fuori di questo scoglio potesse esistere un altro mondo; non è facile ragionare e ipotizzare la vita in altre stelle. Il suo era un mondo a perpendicolo sopra frammenti di specchi trasparenti, frantumati da ogni singola onda che si ricompatta alle altre per spezzare instancabilmente la quiete. Per anni il Pireo era stato un nome così lontano e misterioso da essere alieno, un segnale extragalattico, una cometa episodica. Cubi di pietra lavica, pesci essiccati e uva dolcissima per il vino aromatico. Questa era la terra del vecchio, l’unico universo conosciuto: prigione ricolma di sogni e odori di timo e salvia. Non poteva e forse non voleva pensare che il fuori lo avrebbe conquistato, con le sembianze delle flotte dei viaggi organizzati. Non era preparato allo sbarco delle truppe nemiche, nella sua mente la guerra restava solo un ricordo del passato. Era uno slavo del mare e continuava a sognare cernie giganti e sirene seduttrici.
L’uomo attizza il fuoco con il legno d’olivo delle ultime potature, si arrotola una sigaretta e rimane a guardare il dissolversi dei colori nelle gradazioni di blu turchese del mare. Il monte a ipsilon andava arrossandosi nel tramonto e gli sembrò di vedere le anime, imbeccate dai racconti del vecchio, uscire dagli avallamenti e camminare tra le rovine.
Le navi continuano il loro andare e venire senza sosta. Il rumore dell’ancora è il latrato del ferro rugginoso sotto sforzo. Lui osserva il vecchio immobile, stringere tra le mani un bastone nodoso. Era arrivato il momento delle memorie; le narrazioni lo riportarono all’infanzia: mitologia, pirati, e folletti che si trascinano tra le rovine minoiche incantando con il sibilo del vento assunto a voce. I racconti trasportano il passato e distillato d’uva; il viso di cuoio si esprime attraverso le pieghe rinsecchite dalla salinità aerea, resa tagliente dal sole. Come poteva, quel vecchio, pensare che al di fuori di questo scoglio potesse esistere un altro mondo; non è facile ragionare e ipotizzare la vita in altre stelle. Il suo era un mondo a perpendicolo sopra frammenti di specchi trasparenti, frantumati da ogni singola onda che si ricompatta alle altre per spezzare instancabilmente la quiete. Per anni il Pireo era stato un nome così lontano e misterioso da essere alieno, un segnale extragalattico, una cometa episodica. Cubi di pietra lavica, pesci essiccati e uva dolcissima per il vino aromatico. Questa era la terra del vecchio, l’unico universo conosciuto: prigione ricolma di sogni e odori di timo e salvia. Non poteva e forse non voleva pensare che il fuori lo avrebbe conquistato, con le sembianze delle flotte dei viaggi organizzati. Non era preparato allo sbarco delle truppe nemiche, nella sua mente la guerra restava solo un ricordo del passato. Era uno slavo del mare e continuava a sognare cernie giganti e sirene seduttrici.
L’uomo attizza il fuoco con il legno d’olivo delle ultime potature, si arrotola una sigaretta e rimane a guardare il dissolversi dei colori nelle gradazioni di blu turchese del mare. Il monte a ipsilon andava arrossandosi nel tramonto e gli sembrò di vedere le anime, imbeccate dai racconti del vecchio, uscire dagli avallamenti e camminare tra le rovine.
All’alba la radio trasmette una romanza interminabile accompagnata dalla musica del santursi. La lirica monotona è priva di variazioni di tono e melodia, un impasto sonoro di olio e miele; la nenia ripetuta è un lamento di gesti eroici e amori finiti. Nella piana gli scheletri dei vecchi mulini sono torri di pietre e ferro battuto, immobili strumenti inutili con le pale distrutte; le colline appaiono punteggiate dalle macerie delle antiche macchine che pompavano acqua, frangevano le olive, macinavano il grano. I militi ossidati hanno perduto l’ultima battaglia e l’intera guerra da molto tempo. Vicino ai tralicci coperti di ruggine, gli ulivi crescono piegati a contrastare le raffiche del vento; artriti deformanti nei bassi tronchi, un intreccio di venuzze secche delle fibre scoperte, intagli e fratture rinsaldate, leucomi tondeggianti. I muli si trascinano lenti, le donne anziane montano in groppa agli animali e un punto dell’orizzonte si trasforma in quadrupede vestito di nero; animale inusitato, mutante, con i contorni resi incerti dall’aria calda che si alza dal terreno sassoso. La landa desolata è sabbia, pietra e ciuffi di timo intimidito dall’arsura. La terra surriscaldata dal sole a perpendicolo ingoia le ombre rendendo ancor più desolanti le valli rocciose. Le pecore restano immobili immagini dipinte nell’aria solida di caldo, riunite con il muso in un’unica corolla lanuginosa si proteggono a vicenda dai raggi del sole. Gregge immobile, solidificato, imbalsamato dall’assenza degli stimoli motori evaporati nell’afa di mezzogiorno.
L’uomo si affaccia alla finestra per scoprire la natura del rumore improvviso. – Che c’è – chiede il vecchio. E’ solo una macchina di turisti – risponde l’uomo.
La nuvola di polvere, alzata dall’auto, si confonde con la sabbia smossa dal vento…
L’uomo si affaccia alla finestra per scoprire la natura del rumore improvviso. – Che c’è – chiede il vecchio. E’ solo una macchina di turisti – risponde l’uomo.
La nuvola di polvere, alzata dall’auto, si confonde con la sabbia smossa dal vento…