…esistono più naufraghi che naviganti. (E. Galeano)
Parigi- Bamako- Ouagadougou.
Monsieur Baba osserva il panorama dall’oblò dell’aereo. Immagino che il suo profondo sospiro sia causato dall’idea di quanta strada, tutte le volte, lo separa dalla propria casa. Il viaggio da Parigi è un rimbalzo, è l’ovattato senso del ritorno privo di sorprese, sperimentato più volte, così classicamente legato alle ferie del suo lavoro all’estero. Baba fa parte di un gruppo di maliani che occupano le poltrone di fronte a me, e non appena consegnano i moduli di sbarco diviene il personaggio più importante della compagnia. Ipotizzo che è l’unico a saper scrivere, il resto del gruppo gli consegna a turno passaporto e la carta da compilare. Veste un caffettano e pantaloni verde bottiglia, un ricamo sul davanti gli raggiunge il petto con un disegno che ricorda la croce tuareg, la Croix d’Agadez, ma sicuramente è un bambara di Bamako che lavora in Francia. Sul capo ha uno zuccotto stile arabo, ricamato con fili colorati, e lo sgargiante copricapo gli allontana quell’aria feroce che traspare a causa dell’imponente corporatura, e lo trasforma in un bimbo troppo cresciuto in vena di travestimenti. Nero, alto, due denti d’oro e gli occhiali da vista cerchiati di metallo lucido. A volte si blocca ed ascolta le precisazioni dei più anziani di quella tribù che si è assiepata a metà aereo, un gruppo di africani che sembra contrattare qualcosa, oppure seduti intorno al fuoco alla ricerca di una soluzione ad un problema della comunità. Gli altri lo guardano con attenzione profonda, alcuni si immobilizzano in una tipica postura: in piedi con una mano che trattiene l’altro braccio all’altezza del gomito, dietro la schiena.
Neri d’Africa. Neri di Francia. Le mogli, poco discoste, sono sprofondate nelle loro poltrone e avvolte in abiti preziosi, in turchese e ricami sgargianti. Restano distaccate dalla discussione dei maschi e chiacchierano tra loro con la mano davanti alle labbra. A tratti, scosse da un lieve sorriso, gettano il capo all’indietro in un gesto veloce che interpretato da loro assume un significato fuori luogo, troppo simile a gesti occidentali. E’ solo un lampo, la posizione ritorna composta e austera un attimo dopo. Le stoffe lasciano intravedere i complicati intrecci dei capelli. In mezzo a loro, una ragazza vestita alla moda occidentale stride come una frenata durante l’adagio di Albinoni. L’aereo fa scalo a Bamako e dopo un’ora riparte per Ouagadougou.
Gli emigranti hanno lasciato i loro posti ed un profumo di fiori nell’aria.
Burkina Faso. Ex Alto Volta.
Ouagadougou è immersa nel vapore di una pentola in ebollizione, e quel vapore mi investe e penetra i muscoli accartocciati dalle lunghe ore di attesa. La luce, nell’arida città, è colpita a morte da rumori assordanti. L’aria è spessa di un calore invisibile. Ed eccoci gettati sulla strada per il primo incontro, quasi inevitabile, con un autista che caracolla al Pavillon Vert in un’automobile del periodo giurassico. Le memorie riprendono forma al ciglio della strada polverosa; gli abiti sgargianti delle donne, i fuochi accesi con misteriosi animali arrosto, pile di radici, traffico e confusione. Uomini e donne non hanno nulla da difendere nelle loro case, e la strada diviene terrazzo, aia, fabbrica e posto di lavoro, dove si mescolano storie e lezioni di vita. Chi vende, chi compra? Il mercanteggiare, regolato dell’economia povera, è simile ai giochi dei bimbi che scambiano figurine con conchiglie. Motorini, decisamente nuovi, sfrecciano con ragazzi e ragazze usciti da giornali patinati di moda etnica; occhiali a specchio sopra i visi di pece. L’ingorgo africano è ubriacante. La città giace composta da una periferia continua. L’autista arrischia una fermata nel campement di un suo amico, ma il nostro rifiuto è secco, scegliamo un posto per dormire vicino alla stazione degli autobus che partono per il confine con il Mali.
Campement Pavillon Vert.
Il verde è nascosto dalla polvere accumulatasi ovunque. Il giardino è un incubo surrealista, un mondo alla rovescia. L’albero di papaia sembra una creatura d’argilla e gli arbusti intrecci di fil di ferro. I ragazzi della locanda spazzano la polvere sopra la polvere; al di fuori di questa ombra fortuita la temperatura è altissima. La stanza è una cella con le imposte di ferro, una tenda di plastica sostituisce la porta del bagno, il resto dello spazio resta occupato da un letto matrimoniale ed un extrabed rabberciato. Nel buio serale andiamo alla stazione delle corriere per informarci del bus di domani, la torcia elettrica è indispensabile in quelle stradine buie e sconosciute. Ceniamo con un filetto di dinosauro nel black-out che ha imbalsamato il ventilatore. Nel buio il dialetto morè è intercalato dal francese…
La notte è un bagno di sudore e risvegli improvvisi. Alle cinque del mattino il muezzin si lamenta lontano.
Partenza per Ouahigouya, nel nord del paese.
La piana è monotona. Arbusti bassi e spinosi, baobab, polvere e capanne. Alcuni insediamenti sono costruiti a forma di recinto: le capanne hanno una struttura conica, con i tetti di paglia, e sono collegate le une alle altre da muri di banco.
Piccoli sentieri si avviano verso agglomerati dispersi senza un senso logico apparente; l’ubicazione segue la logica della vicinanza al pozzo, ed è raro vedere le capanne all’ombra degli alberi…come fosse la scelta di un’ulteriore sofferenza. A tratti il terreno cambia colore e si trasforma in piccoli crateri di sabbia più scura, sono i barrages, le riserve d’acqua piovana. In questo periodo, il più caldo dell’anno, alcuni avvallamenti trasportano l’umidità in superficie. Vicino alla sabbia scura i cumuli di mattoni d’argilla impilati induriscono al sole.
Le ombre delle acacie e dei manghi frondosi accolgono uomini e donne solitarie, assieme agli animali spaesati e ubriachi di caldo in fuga dal sole rovente. Il panorama resta identico per chilometri. Il viaggio si anima solamente alle soste del bus, e richiama frotte di bambini che vendono la frutta, polli arrostiti, oppure l’acqua in sacchetti annodati di plastica trasparente.
Un venditore resta in disparte – lo sguardo è vuota fissità – sembra non accorgersi della presenza del bus – della frenata rumorosa – del vortice di polvere sollevata. Non si accorge che il mondo ha ripreso ad essere simile a se stesso, anche questa mattina. Non si riprende dall’immobile postura - ha deciso di dimenticare quel luogo. La maglietta europea è logorata da strappi che modificano i nomi di capitali lontane - “Amstdam” - “Ldon” - “Rma” - “arigi”. Il suo profilo ci ignora - continua a guardare la strada dalla quale siamo arrivati - negli occhi ha un regolo in ritardo ed ancora è immobile ad aspettarci. Oppure siamo noi troppo in anticipo. Afflitto da un virus telematico - che lo ha imbalsamato e gli ha divorato le lettere della maglia - non si desta neppure alla partenza…
Dopo il villaggio di Yako la pianura diventa ordinatamente arata, intorno agli alberi interrati a filare vi sono argini di piccole pietre per trattenere il più possibile la pioggia estiva. Le capanne solidarizzano diventando piccoli paesi. Sotto un albero gigante una folla vestita a festa è assiepata attorno ad un religioso che, con le palme delle mani rivolte al cielo, racconta la pace, la sofferenza, la celebrazione accorata dell’aldilà.
Il marabutto tributa lodi al signore. Il paradiso è decantato gloriosamente - mentre intorno è solo inferno…
Ouahigouya.
La polvere di laterite ha lasciato spazio ad un soffice tappeto di sabbia bianca da dove estraggo il mio zaino. Le impronte di piedi e delle ruote dei camion rivoluzionano il velluto adagiato al suolo. L’autobus ci ha scaricato a Ouahigouya, nel terrore dell’una del pomeriggio.
Dimostrazioni d’affetto - sorrisi dei poveri e dei sofferenti. Io appartengo ai sorrisi degli stupiti. Ciascuno ha le proprie maledizioni.
Deserto – ombre. I bufali silenziosi inseguono l’ombra magra degli animali che li precedono. Vuoto – solitudine. Isolamento primordiale. Nullità - immutabilità – inesistenza. Il pieno di vuoto.
All’Auberge Libertè ci accolgono con una frase buttata lì: -“l’eau c’est coupée”-. Noi sognavamo una doccia storica, ed invece siamo costretti a sbicchierarci sul corpo l’acqua del pozzo. L’occidentale rimane stupito. Poi realizzi che il sogno è finito e l’Africa si è materializzata in tutte le negazioni, le privazioni, le assenze. Le mancanze sono raccontate sempre con un sorriso splendente e l’accompagnamento di una risata.
Vide ancestral…vuoto ancestrale.
Il nostro ricovero è un recinto di cemento, identico al colore argilloso del piazzale desolato di fronte. Ancora sabbia e polvere; gli alberi scheletrici più che crescere sembrano scendere in basso, retrocedono nel suolo per fuggire all’afa, al fuoco che si respira.
La stazione degli autobus diretti in Mali è un mare di creta percorso da schiene lucide, di marmo nero…alabastro inumidito dal sudore. Altre ombre indossano magliette sgualcite delle squadre europee di calcio; spiccano i numeri colorati sulle schiene al lavoro, trasformano la fatica in un’idea di gara, un gioco dalle regole ignote. Sull’autobus, una donna bellissima sale con il bimbo in fasce legato alla schiena, i movimenti sono lenti e accorti…“Madame la panthère”.
Le preghiere escono dall’altoparlante interno. Un’adunata radiofonica. Una lista di nomi, quasi ad indicare uno per uno tutti i passeggeri, quindi senza sosta l’elenco continua scandendo i nomi di tutta la piazza, di tutta la città, e quella voce elenca per ore il mondo intero.
Prevedo polvere alla polvere… Durante la preghiera radiotrasmessa, un bimbo fuori del bus intercala la sua richiesta d’attenzione fissandomi insistentemente, non so se resistere alla tentazione di guardarlo, per accettare o contrattare qualsiasi cosa.
La strada asfaltata ben presto è inghiottita dalla pista nel deserto. Sopra gli alberi sono ammucchiati cumuli di paglia al sicuro dalle capre affamate. Dai vetri rotti la polvere entra e ricopre tutto, le soste nel nulla sottraggono persone al sole famelico.
Frontiera con il Mali.
Alla frontiera di Koro riempiamo i moduli e la confusione ci rende marziani lontani da casa. Lasciamo il regno dell’assenza per ricadere in un altro regno dell’assenza. La burocrazia è mitigata dal sorriso che mi suscita dover scrivere, nel foglio di transito, il nome di mio padre e di mia madre. Il funzionario ci osserva incuriosito. Alle sue spalle, da un’apertura che funge da finestra, osservo un bimbo inseguire le galline e le capre sotto il sole accecante…pastore nudo.
La notizia dell’apparizione di tre stranieri è un comunicato di guerra, è la scoperta di una nuova cometa. Le mosse strategiche, organizzate per sfuggire a guide improvvisate, ci portano ad un camioncino Peugeot 504, che si mantiene ritto sulle ruote solo per merito della forza di gravità. Sedici posti in due metri quadrati. La magia degli incastri impossibili avviene sotto i nostri occhi, ed anche noi partecipiamo al gioco, siamo tessere da posizionare ora qui, ora li. Sembra impossibile che pressati a quel modo, quando ci muoviamo diretti a Bankass qualcuno riesca a dormire, altri osservano di sottecchi i bianchi alieni, una donna allatta un bimbo minuscolo, e la polvere, inutile dirlo, penetra ogni piega, ogni ruga, ogni pensiero. Il taxi de brousse, taxi della savana, è in avaria. Durante la sosta forzata le persone scendono, distendono una stoffa nella terra polverosa e pregano rivolti alla Mecca. I meno religiosi chiacchierano distrattamente all’ombra del tetto dell’auto.
Il lamento della preghiera è il rimpianto della savana verde e rigogliosa.
Soulimane è l’apparizione di un santo poliomielitico. Un santo dogon che si presta a farci da guida per i villaggi della falesia.
Notte di Bankass.
Dormiamo sul tetto di fango del campement per cercare sollievo al caldo. Il nulla e la notte stanno festeggiando insieme. In quel punto imprecisato dello spazio resto in ascolto del ritmo caramellato del dialetto sangha.
Nel chiarore del giorno i recinti di fango delle case riprendono il loro ruolo di labirinto, in una scacchiera delimitata da viottoli polverosi. Le donne vanno a lavarsi al pozzo con piccoli recipienti, le giare più grosse sono per l’acqua destinata alla cucina. L’acqua nelle case è tenuta dentro i canari, recipienti di terracotta sotterrati per metà nel terreno.
Da Bankass alla falesia ci sono dodici chilometri.
Non esistono strade asfaltate, soltanto piste di sabbia adatte ai carri trainati da cavalli ed altri sentieri da percorrere a piedi.
Galli e uccelli ritmano il risveglio accompagnati dal ragliare di asini disperati. Il sole in realtà non sorge dall’orizzonte, resuscita da un banco di polvere alta nel cielo. I raggi stampano un rosso acceso su di un carrubo che cresce oltre il tetto piatto, le foglie ed i fiori sono ancora rilassati dalle brezze notturne. Tra poco tempo la temperatura toccherà i quarantacinque gradi.
La parete rocciosa è lunga più di centocinquanta chilometri e alta trecento metri. Appare come una diga che si erge improvvisamente dalla pianura, è da questo punto che si sente parlare di “roccia”.
Al di sopra della scarpata l’altipiano degrada nella direzione del fiume Niger e dell’immenso deserto. Tra gli enormi massi caduti dalla falesia sorgono molti villaggi, altri sono incastonati in alto: le capanne di fango, i granai e i luoghi di culto, si mimetizzano con il colore delle rocce. Vicino alla falesia crescono i baobab ed il terreno è inciso da sentieri che si inoltrano nella piana. Nei campi si coltiva il miglio e altri cereali.
Un tempo la zona era abitata dai pigmei, soppiantati in seguito da una popolazione misteriosa: i theleme o tellem. Una popolazione di struttura molto piccola e dalla carnagione rossastra; sulle pareti a strapiombo della falesia sono ancora visibili le grotte del primo insediamento. I tellem usavano corde e pali per raggiungere le grotte e le tombe, superando passaggi molto arditi. I dogon scacciarono la popolazione locale. In fuga dall’islamizzazione si rifugiarono in questo mondo a parte, divennero agricoltori e cominciarono ad organizzarsi nella costruzione di barrage e orti a terrazzamenti. Attualmente solo il 35% della popolazione pratica la religione dell’Islam, gli altri seguono i culti animisti legati a due principi fondamentali: la vibrazione della materia e il moto perpetuo del cosmo. In alcune capanne e nelle pareti di roccia spesso si incontrano decorazioni a spire, che traducono l’idea dell’universo nel suo moto continuo…la spirale senza fine. Nella cosmogonia dei dogon l’essere supremo si chiama Amma, creò la terra e ne fece la sua sposa. Diede origine all’uomo e alla donna, due esseri perfettamente uguali, l’anima di ciascuno era femminile e maschile al contempo. Quindi si incarnò in Nommo che rappresenta l’acqua, la vita. Come in tutte le genesi religiose, i problemi non tardarono a venire; per risolverli Nommo decise di assegnare a ciascuna creatura soltanto un’anima, circoncise l’uomo e recise il clitoride alla donna. La mutilazione genitale è attualmente condannata dal governo, e nei villaggi è una pratica quasi scomparsa. I ragazzi segnano ancora oggi l’ingresso nell’età adulta sottoponendosi alla circoncisione. Spesso si vedono bambini di dieci anni cantare in gruppo nell’attesa dell’intervento. Negli anni trenta l’etnologo francese Marcel Griaule studiò in maniera approfondita la religione dogon. Nel 1948 scrisse il celebre libro “Dio d’acqua”, che ancora oggi è un testo importante per capire la complessità delle tradizioni locali. La sua ricerca portò alla conoscenza del mondo questo popolo. Visse molti anni a contatto con la realtà dei villaggi; studiò la religione, i riferimenti esoterici, la grande conoscenza delle stelle del popolo dogon, il significato degli amuleti, le piante medicinali e gli animali sacri. La costruzione dei villaggi segue la forma del corpo umano. La testa è il togu-na: il luogo della parola. Il tronco del corpo è rappresentato dalle case con i granai, mentre la casa delle donne, frequentata nel periodo mestruale, è la mano destra. Le donne si ritrovano in questa casa senza differenza religiosa o sociale. Il frantoio del villaggio simboleggia l’organo genitale femminile. Amma e il seno femminile sono i simboli di vita e Amma creò anche le stelle. I dogon, come gli egiziani, conoscono Sirio da sempre. Sirio è stata figurata da tre punti che rappresentano tre stelle, qui inizia il mistero, la terza stella, non visibile, è stata scoperta con un radiotelescopio solo nel 1995. Per ritornare sulla terra, bisogna dire che attualmente i villaggi sono organizzati con la pratica della famiglia allargata, la coltivazione dei campi avviene attraverso un lavoro cooperativistico. Villaggio di Kuiatomo.
Le donne dogon battono il miglio nei mortai di legno, inventano una melodia percussiva che sembra seguire una base sonora prestabilita, in scale discendenti. I lunghi bastoni, ripetutamente alzati e abbassati con forza, producono un magico intontimento di tam-tam. Di fronte alla piccola moschea di fango sorge il togu-na, il luogo della parola: una tettoia di canne sovrapposte, non più alta di un metro. I dogon si giustificano dell’altezza dicendo che in quel luogo non è possibile ergersi in piedi e quindi venire alle mani. I legni intagliati a ipsilon formano un colonnato, diventato quasi minerale dalla stagionatura del sole. La struttura è priva di pareti per permettere alle brezze la libera circolazione. I granai di fango sono di forma squadrata, la porta intarsiata è minuscola, e la costruzione è rialzata dal suolo di venti centimetri per isolarla dal terreno.
L’identico sole indurisce legni - mattoni - uomini…
Donne a passo lento, avanti e indietro, a seguire e ripercorrere la strada di tutta una vita. Sotto l’albero di mango, un ragazzo legge ad alta voce le sure del corano. Mulinelli di polvere e parole si innalzano, svaniscono nella cappa spessa del caldo.
La fontana dei toubab.
L’afa è una lama circolare sopra la testa. Una mano gigantesca preme il corpo a terra. Un limite alla fantasia, una pressa di ferro, brace e fuoco. Non puoi ergerti troppo, altrimenti rimani schiacciato dal peso del caldo, si fatica anche a respirare. Immobili, sorseggiamo l’acqua da una brocca di plastica multicolore. Soulimane ci offre una zucca colma di “dolo”, la birra di miglio. L’intero villaggio, a turno, sbircia l’interno del recinto di famiglia dove sostiamo.
Il canto triste del griot.
Dolori. Non vi capita mai di sentire su di voi i mali del mondo intero, di ascoltare i lamenti scomposti di agonie, di origine estranee… Un ragazzo è stato investito in una strada di Bamako, eppure sono lontanissimo da quella frenata improvvisa, come sono estraneo al dolore di questa donna peul che arranca sotto il sole con il figlio legato alla schiena, e altrettanto distante dal ragazzo tuareg, disperso nel centro di Ouagadougou a vendere chincaglierie, privato del deserto. Dolori. Una serie di dolori forti, dolori che non mi appartengono, ma che aspettano una sosta dei pensieri per salire alla luce. Improvvisamente sono sconvolto, anche se di fronte a me non ho dolori consanguinei di madri doloranti, di funerali familiari. Dolori lontani. Succede, deve accadere, oppure è solo questione di istanti, di odori che ricordano all'improvviso disinfettati ospedali, oppure visi resi trasparenti dall’umiltà. Dimmi dov’è il dolore degli altri. Dimmi se sorge nella mia mente a portarmi coraggio, oppure a ricordarmi che non ho pagato abbastanza. Ancora per quanto tempo sentirò il pianto del bimbo di Bankass. E’ più forte della mia volontà, non riesco a tenere lontano il senso simultaneo di dolore e felicità. Il lamento arriva e trascina un caldo struggimento, e partecipo al dolore di ombre sconosciute che lievitano nella piana assolata…
Soulimane racconta il sogno dei maliani: andare in Europa, lavorare, guadagnare un po’ di soldi e ritornare ricchi…
Che cosa ci si aspetta da un luogo così; qui è un miracolo solo sopravvivere, figurarsi muoversi o lavorare.
I bambini mocciosi sbucano dalle case, afferrano le dita delle mani e trascinano chissà dove. Molti hanno l’ernia ombelicale in rilievo sul piccolo corpo. Le bambine più grandi tengono in braccio i fratellini, con la sicurezza delle loro madri. Piccole donne a impratichirsi, in un destino segnato tra l’allattamento e il miglio nel mortaio, da far diventare farina prima di sera…e oggi osservano l’ennesimo toubab che scrive.
La dama di Bankass è un verde ramarro sinuoso - lucertola colorata. Nella musica acquista leggerezza. Il ventre piatto trasporta anime ancora lontane…
Il canto del griot innamorato.
…respiro lontano, essenza remota, penso a te in questo momento. Che cosa sarà domani, un domani incerto e vicino. Quali saranno le regole ora ignote: il fortuito, il casuale, la gioia, la tristezza. Resto immobile in questo caldo, e l’attesa rilancia lontano ogni cambiamento sostanziale. Un dialogo segnato dallo stravolgersi della sabbia in polvere. Questa è una clessidra piatta, orizzontale, che spinge il tempo in addossamenti e dune, dove il cumulo di selci è la data precisa della libertà, ed un altro è il ricordo dell’ultima siccità. Il tempo è scandito da meridiane di alberi ossuti; i baobab appaiono soldati disarmati, apparentemente vincibili, ma in realtà vivono un’attesa defogliata. L’acqua riposa nel tronco massiccio… Un baobab lontano forma un angolo retto con il suolo, è stato colpito da un fulmine che ha annerito la ferita nel corpo legnoso. I rami sono urla rattrappite.
La sera riporta i ritmi soliti. Le ombre si riposizionano tirando un sospiro di sollievo. La tregua al caldo riporta il senso di essere vivi.
Incontriamo per strada l’hogon, un capo villaggio, il suo viso resta all’ombra di un cappello tondo ornato da conchiglie e fili colorati. La bimba dogon indossa una maglietta azzurra bucata, raccoglie l’acqua del pozzo in un secchio che, con la maestria di anni d’esperienza, con un semplice movimento posiziona sulla testa per trasportarlo. Osserva di nascosto un tavolo completamente ricoperto di bottiglie vuote di birra. Lo sguardo trascina secoli di distanza. Intorno allo stesso tavolo, che ospita il riposo dei turisti-viaggiatori, ruotano dinastie di guide, caste di pulitori e cuochi. Il rumore di un generatore elettrico restituisce la visione reale: pratiche animiste, feticci, animali sacri, modernità tecnologiche.
Alle cinque del mattino - il brusio della rinascita è un bisbiglio di vita nell’ennesima creazione.
Il villaggio di Teli sorge direttamente sotto alla falesia. La parte vecchia è abbarbicata a metà della scarpata rocciosa, incastonata tra le rocce e le pareti verticali. I granai delle donne: all’interno sono separati i frutti del baobab dalle cipolle, il miglio dalla farina, e un buco centrale raccoglie le monete. Granai e case sono costruite di fango impastato con gli scarti della battitura del miglio. Per le tombe sono utilizzati gli anfratti della falesia; i cadaveri degli hogon e delle persone importanti sono innalzati con complicati sistemi di pali e corda, accomodati in posizione seduta e poi murati con il fango per difendere il corpo dagli uccelli. Nella parete sono visibili i luoghi di sepoltura ed ancora infissi i pali per poterli raggiungere. Nella parte alta del villaggio seguiamo i sentieri tra le case e i luoghi di culto: la casa dello sciamano, i granai abbelliti da riporti di fango in rilievo. Molti edifici sono in rovina. Soulimane ci spiega il significato di un disegno che raffigura il mondo circondato da un serpente, con il corpo a spirale: - per i dogon il mondo è sempre stato rotondo, e quando il serpente arriverà a mordersi la coda, sarà la fine della terra -.
Le cicogne nidificano vicino alle vecchie tombe della falesia. Sono animali protetti, e il loro arrivo segna l’inizio delle piogge. Radio Mali, a Bamako, ad ogni cambio di stagione segue in diretta l’arrivo degli uccelli. La pioggia è vita recuperata, il ritorno delle nuvole segna il raccolto.
Le voci lontane dei bimbi mi ricordano le spiagge affollate - ma qui il mare è un’entità imprecisa.
Le porte delle capanne sono scolpite con figure maschili e femminili, dai corpi stilizzati. Riparati dal togu-na, aspettiamo che il sole scenda un poco per continuare e raggiungere il villaggio di Ende. La doccia è un vano squadrato privo di tetto e non appena l’acqua scivola sul corpo evapora immediatamente, il piacere di fresco dura pochissimo. La fontana “ufficiale” è un secchio di plastica con una brocca. Le giare di terracotta sono colme d’acqua, dentro galleggiano al fresco le nostre bottiglie potabilizzate. Non sappiamo quanta autonomia avremo, beviamo di continuo la soluzione di cloro. Assaggiamo la birra locale: è molto annacquata ed il sapore ricorda il mosto.
La brezza è un lieve ricordo sfuggito alla sabbia arroventata.
Gli alberi, per difendersi dal caldo, hanno una scorza spessa come la pelle di un coccodrillo. Il sacro baobab è come se avesse le radici rovesciate; la leggenda dice che una divinità arrabbiata ha sradicato l’albero per poi ripiantarlo al contrario. Il baobab è intagliato e le strisce di corteccia sono impiegate per produrre cordami. Dalla cenere dei rami caduti e bruciati, si ricava il potassio per concimare la terra. Nelle cavità dell’albero un tempo si seppellivano i griot; ancora oggi, per molte culture africane, l’albero ha poteri magici e non viene mai tagliato. I grossi baccelli diventano ciotole, dalle foglie tritate si ricava una salsa alimentare, i fiori sono utilizzati per decotti e a scopo decorativo.
Ende.
Le piccole rondini scendono dalla falesia in silenziosi voli leggeri. Nel villaggio il risveglio preistorico è accompagnato dal lamento di asini sconsolati. Un rapace, marrone e nero, è a caccia tra i vecchi granai e i luoghi dei sacrifici animali. Nel villaggio la casa dell’hogon ha affreschi a triangolo: bianco per la vita terrena, il nero per la morte, il rosso per il sacrificio.
Qui non si è mai soli sulla terra. Ogni giorno si partecipa alla rinascita…
Yabatalu: l’attesa nel pollaio.
Le ore passano lente e fuori della tettoia il caldo è opprimente. Il tempo rallenta spaventato dall’arsura. Il pranzo è cucinato da una donna dogon; è completamente vestita di verde e bianco, dall’abito al turbante, ci ha ospitato con naturalezza, tra galline e pulcini. Ha preparato cuscus e pollo in salsa di cipolle. Nulla riesce ad entrare nel mio stomaco, solo acqua, l’acqua è il sogno e bisogno ricorrente. Minuti, ore… le guide alla spicciolata vanno e vengono. I bambini con le magliette occidentali e i piedi scalzi, sono incuriositi dal nostro pallore europeo. Resto sdraiato a terra su di una stuoia che odora di orina, polvere e sudore. Le mosche seguono il profumo del tè verde. Un insieme assurdo e vissuto contemporaneamente da tutto ciò che ci circonda: le galline inseguono il pianto di un bimbo, il rumore del tè versato ripetutamente, il suono di parole incomprensibili. La donna allatta una miniatura d’uomo; la testa del bimbo è nera come la cenere, come è scuro il seno, le spalle e gli occhi. Una macchia di nero notte. I due corpi si fondono assieme ritornando ad essere un unico corpo. Le ossa del pollo arrosto rendono combattive le galline intorno a noi, si inseguono tra i nostri piedi e le bottiglie vuote di birra del Mali. Vetro disciolto al sole. Ambiente terrifico e magnifico, semplicemente vita.
Gli uccelli migratori volano intorno alla falesia. Osservano increduli il vuoto circostante. Nei loro occhi è ancora vivo il ricordo della Francia e della Spagna. Ed ora solo vuoto e bollore…
Arriviamo a Beniamatu da un sentiero che taglia la falesia. Attraversiamo una valletta circondata da pareti verticali, torri, diedri e camini nella roccia. Lo zoccolo della falesia è inciso da piccoli canyon e gole. Avvicinandoci al villaggio vediamo orti e piantagioni minuscole di tabacco e poi un invaso d’acqua limacciosa e fiori acquatici. Lungo la strada incontriamo gli scolari che ritornano a casa nei villaggi del deserto. Ogni giorno chilometri e chilometri per venire quassù. Rumori nelle cave di sasso a cielo aperto; la mazza vibra nell’aria e il percuotere impasta polvere e sudore sotto il sole. Un viandante, con una borraccia ricavata da una zucca e l’abito dei colori della polvere e delle rocce intorno, ridiscende silenzioso e lento. Il pellegrino ci osserva, ed io ho il dubbio che non sia reale ma il frutto della nostra immaginazione, una sorta di illusione ottica. Al di sopra della falesia, si distende l’altopiano frastagliato di massi d’arenaria scolpiti dal tempo, frantumati dal caldo.
Siamo ospitati in un recinto di famiglia, al centro del villaggio. Al nostro arrivo ogni cosa si anima. Le gentilezze, i sorrisi, l’offerta continua del niente, del poco, di un po’ di riposo. Bambini, madri, padri, e il maestro del villaggio cui consegniamo quaderni e penne per gli scolari. La scuola è direttamente gestita dalla comunità del villaggio.
Ci mostrano il tetto su cui dormiremo. Sulle pareti delle capanne sono appesi gli amuleti, una radiolina a transistor, e teschi di scimmie per allontanare il male. Il cacciatore del villaggio, vestito di tutto punto, è attratto dalla polaroid e viene a mettersi in posa fiero e sorridente, con il fucile avancarica. Sembra un gioco e noi partecipiamo a questo divertimento collettivo; scatto polaroid a tutta la famiglia. Poi mi accorgo che per alcuni la polaroid è uno “specchio”, chissà quanto tempo è passato dall’ultima volta che si sono riconosciuti attraverso un immagine di loro stessi. Le donne rientrano nelle capanne con i bimbi legati alla schiena, altre con i secchi d’acqua raccolta al pozzo lontano. Al tramonto andiamo al limitare dell’altopiano ed osservo la piana che si scurisce lentamente, le acacie ad ombrello tendono ad un viola pastello e la sabbia, non più abbagliante, si è travestita di tranquillità. La fiammella di una lampada a petrolio indugia su di un tavolo basso, di tronchi legati assieme. Il buio volteggia tra il tavolo ed un piatto di pollo. Le ombre delle donne sono masse informi contro le pareti nere, qualcuno si è sdraiato a terra, i bimbi più piccoli si sono addormentati. Vita di sole terrifico e poi ombre, la via di mezzo non esiste. Ora nell’oscurità la pace è completa.
Luce di una lampada. Fiamme del fuoco. Ombre indistinte. I seni ritornano a coprirsi e il padrone di casa si cambia la maglietta. La nostra presenza riesce a non essere ingombrante. Per noi è il ritorno al passato sconosciuto.
Il sole è velato e l’aria è spessa di calore. Otto chilometri di altopiano sabbioso. Una sosta sotto un mango gigantesco; il leggero vento invade le fronde e produce un suono di acqua che scorre.
Dourou.
Uomini all’ombra e donne al lavoro. Qui arriva la strada e gli atteggiamenti sono diversi, la simpatia è dote rara. Al Campement Terita arriva l’acqua. Una bimba spinge un carretto, di ritorno dal pozzo, carico di taniche traballanti, dietro di se lascia una scolicciatura che impasta la sabbia del colore di regioni sotterranee. Sotto il sole i bambini improvvisano una partita di calcio, polvere e corse. Poco lontano il villaggio antico risente della vicinanza della strada, la presenza del turista è cosa di sempre: stoffe e souvenir impolverati…
La notte nasconde alla vista questa casa zingara. L’acqua contiene piccoli insetti che vibrano. Colombe e galline, eruttate nell’aia della casa, salgono sul tetto dove siamo baraccati.
Le mosche si risvegliano, la luce delle stelle diluisce nel cielo e la luna lentamente si dissolve. E’ l’alba. Un alba marrone chiaro luminoso, dal tetto osservo il mondo in basso, come fosse ai miei piedi…ma il sovrano è giorni che non si lava e la gommapiuma del suo trono è un ammasso informe di plastica, cotta dal caldo e sfibrata dalla polvere.
Il mantenimento del nulla è scopo di vita. Bandiagara.
Il Centro di Medicina Tradizionale è la premessa alla città. Nel centro di cura mentale, lavorano medici italiani in stretto contatto con i medici dogon. Il caldo è tagliente. Oggi è giorno di mercato; i mercati si effettuano a rotazione nei diversi villaggi: pesce secco, manghi, banane, corde di corteccia di baobab, tazze e bicchieri.
Il giardino di un campement ci ospita per un po’ di tempo, il fresco sotto un melograno e un gelsomino è una vera sorpresa.
Siamo nella attesa di un taxi de brousse. Sino a quando la macchina sarà stipata non si potrà partire. Nel frattempo il mondo si è dato convegno intorno a noi, e le donne continuano a vagare sotto il sole con le ceste di manghi sul capo. I sorrisi a turno ripronunciano la mia presenza, poi scompaiono lasciandomi frammenti di immagini. Neppure l’ultima sorsata d’acqua mi lascia un preciso ricordo. Il tremolio dell’aria e della mente è un moto continuo. Scocca mezzogiorno e l’ombra è inesistente nel piazzale polveroso. Le persone si salutano con una sequela di parole pronunciate alternativamente; allontanandosi continuano a ripetere ringraziamenti ed auguri.
Attesa. L’attesa è arte; saper aspettare in ogni condizione. Il bigliettaio dei taxi de brousse, armeggia con una calcolatrice che blippa di continuo. E’ intento a giocare, seduto su di una sedia di ferro e plastica riparata più volte, le mani in grembo con quell’aggeggio che suona fastidioso e lo sguardo riparato da occhiali scuri. Rimane ore ed ore immobile, ad attendere l’arrivo di persone da spingere sopra i cassoni ammaccati. Le striature di sabbia, tra le rughe dei piedi, sembrano ancorarlo alla palude di polvere. L’attesa. Ombra, tempo, pioggia, alba, partenza, arrivo. Un tuareg con il tipico vestito azzurro, procede timidamente sotto il sole. Una donna vestita a festa, ha intorno alle labbra un tatuaggio che le scurisce la bocca ed una linea discende sul mento. L’attesa della partenza per Sévaré si prolunga a causa della preghiera. Partiamo alle tre del pomeriggio ed i settanta chilometri sono un’orgia di polvere. E’ incredibile, ma dopo poco rimaniamo senza benzina.
Confine tra stati, paesi, regioni; definizioni che segnano di vuoto il vuoto. La strada di sabbia e ciottoli, è bloccata da un cartello che sancisce la fine di uno stato. Una bandiera svolazzante, un soldato sfaccendato, una scrivania di legno tarlato e alle spalle la foto del presidente attuale. Oltre le spalle e la foto, la piana tremolante è un quadro materico formato da pietre taglienti, uno schermo che trasmette lo stesso fotogramma inceppato. In tutto questo, mi perdo seguendo le linee incerte dei bassi arbusti e delle acacie. Un enorme anello sorge dal pugno chiuso dell’Ufficiale di Dogana, l’altra mano tenta di nascondere lo strappo ad una manica della camicia. Davanti a lui i fogli riposano impilati disordinatamente attendendo il mio modulo. Contro una parete scrostata, da pitture sovrapposte, una panca di ferro ha tre manette assicurate alle sbarre. Il controllo dei visti nel passaporto, è un esame approfondito al microscopio e non aspetto altro che riaverlo nelle mie mani.
Sévaré.
La città è di nuovo distruzione e vita innestate insieme, in un legame forzato. Il tempo e la natura la sfaldano lentamente. Quanto incatena la città, quanto obbliga a incunearsi in profondità, dimenticando pianure originarie e deserti noti. Abbandonare il vuoto risaputo, antico, essenziale, per un altro vuoto…il vuoto della demolizione. I saluti a Soulimane mi ricordano altri incontri di “percorso”. L’emozione degli adulti è uscita con tranquillità, senza freno. Ora è più vicina la vita di un’altra persona, una vita spesso immaginaria, in una terra di continue difficoltà. La nuova casa, come la chiama lui, ed una moglie incinta lo aspettano a Koro. Il resto lo ha con sé in una borsetta di tessuto che porta al collo, nascosta sotto l’abito di stoffa grezza impastato da anni con l’argilla polverizzata.
La stanza numero due è un altoforno pitturato d’azzurro. Il ventilatore da pavimento, penzola da uno stelo di alluminio instabile, come la testa di un impiccato.
Mopti è a dodici chilometri da Sévaré. La si raggiunge percorrendo una strada rialzata tra i campi e le risaie che si allagano durante la stagione della piogge. La città sorge vicino ai fiumi Niger e Bani. Qui i barconi salpano per Timbuctu, quando il fiume è in piena, e per i villaggi posti nelle rive sabbiose di fronte alla città: villaggi di capanne tondeggianti, villaggi di profughi ed altri ancora occupati dai tuareg. Vicino al porto la costa degrada acciottolata verso la riva ed in questo periodo è occupata da un mercato giornaliero.
Blocchi di sale luminescente trasportato dal deserto… La grande moschea non è visitabile, e i perimetri della costruzione sono affollati dalle guide locali. Mercati e caldo. La strada è macchiettata da abiti della festa, bubu e magliette occidentali strappate.
Mimetismo umano, e i disperati assumono il colore delle povere cose che vendono. Al ciglio della strada i richiami e i saluti di bimbi che, con i secchielli di plastica legati al collo, vanno in cerca di offerte. Di fianco al fiume fangoso il viale alberato è un miraggio che si allontana dal caos. Una mucca è affogata nel fiume, una zampa esce dall’acqua e indica il cielo. Le corna sbucano un poco dalla superficie dello specchio fangoso, una pinasse a vela transita senza produrre onde, le donne sulle rive lavano le stoffe per poi sdraiarle nella polvere ad asciugare.
I bimbi si tuffano di continuo. Le mandrie. I passaggi di persone e barche… i giochi sono muti. La distanza ha congelato i suoni.
Alla sera il tramonto colora di un arancione luminoso. L’interno della stanza ha una temperatura insopportabile. Dormiamo nel giardino polveroso del Campement Oasis. Il sonno arriva con difficoltà dopo le battaglie contro insetti e zanzare.
Mopti – Djenné.
Il bus incontra il fiume Bani, ed una chiatta trasporta i mezzi di trasporto all’altra riva, noi proseguiamo guadando il fiume. Qualcuno immerge un bicchiere nell’acqua e beve, intorno le secche arenano i barconi e le mucche sono pigramente sdraiate nel verde delle rive. Seguiamo la fila che guadagna la riva di fronte: tuareg elegantemente vestiti, donne fulane, africani con le radioline che ascoltano notiziari e musiche locali; il blues del deserto. Il taxi de brousse ci scarica di fronte alla moschea di fango, costruita seguendo lo stile tradizionale del Sahel, ed ora che la vedo realmente sembra improvvisamente piccola.
Moschea di sabbia e legno - indurita dal sole – trasformata in marmo…
Djenné un tempo era il punto di riferimento per i commerci al sud del Sahara, la città non ha cambiato molto del suo aspetto originario. Le guide locali sono appostate a caccia di turisti, glissiamo enfatizzando oltremodo la stanchezza. Chez Baba è un recinto di famiglia trasformato in campement. Al centro dell’aia c’è il pozzo del quartiere con l’inevitabile via vai di ragazzine con i secchi. I ragazzi preferiscono ronzare intorno ai turisti per farsi offrire una birra. E’ l’una del pomeriggio e l’atmosfera è rallentata sino all’immobilismo. Il “bersò del buon riposo”, nome di battesimo improvvisato, è popolato da piccioni e agama.
Mitica - Santa Djenné …recita una preghiera.
La città vecchia è un susseguirsi di case demolite e canali di scolo. Le costruzioni più antiche appaiono restaurate, e in alcuni quartieri l’architettura originale è stata importata dai mercanti che arrivavano dal Marocco. Le case e i magazzini sono in stile moresco, altre in mattoni di fango a più piani con colonne di legno e portali scolpiti. Alcuni palazzi hanno le imposte di legno intarsiato e incisioni di motivi arabi. In uno slargo, un gruppo di donne vestite a festa sono sedute a terra in due file, una di fronte all’altra. Le loro voci sono pigolii di piccoli uccelli. Una macina a scoppio è al lavoro in una strada e sfarina il miglio per il mercato di domani, nel frattempo i contadini restano in attesa del loro turno, con i sacchi appoggiati a terra. La preparazione è continua, e così pure il fermento. Domani è lunedì, il giorno del mercato settimanale…uno tra i più famosi dell’Africa Occidentale.
Dal tetto osservo le terre d’ombre notturne. I pinnacoli della grande moschea e delle case in stile arabo - variano il panorama dei tetti piatti - dei cubi marrone di una monotonia a volte angosciante.
Il mercato viene allestito molto lentamente. Il ponte all’ingresso della città è percorso da una moltitudine di persone proveniente dai villaggi; arrivano a bordo di carri, motorini, taxi de brousse, moltissimi a piedi. I carri straboccano di sacchi di farina, stuoie intrecciate, calabasse di ogni dimensione. Transitano intere famiglie con piccole mandrie di pecore e capre, da giorni sulla strada. Passi, chilometri, giorni di cammino, piedi scalzi e asini bastonati violentemente per raggiungere la città prima di altri.
Mercato di polvere - mercato di scambi. Gli odori si mescolano alla sabbia…
I piccoli bimbi si impossessano della mia mano e mi sorridono in silenzio. Le donne sono seriamente comprese nelle pratiche di compravendita. Faticano di continuo, con i figli legati alla schiena, lavorano e masticano per spezzettare finemente il cibo per i figli più grandi. Sistemano cumuli di manghi e allattano, impilano stuoie e cullano. Giovani donne, forti come solo l’abitudine alla fatica può far diventare, hanno ancora la voglia di essere belle con i capelli acconciati da perline, da fili colorati e vestite da reine du sable…i piedi tatuati con l’henné per i giorni di festa e le grandi cerimonie, anelli d’oro al naso, e orecchini enormi delle donne fulane…
Donne emancipate anche nella fatica.
Gli arrivi continuano, le mercanzie aumentano il volume della piazza e fanno apparire la moschea sempre più piccola. Il grand marché è quasi al completo. La fatica, il patimento e i sorrisi contagiosi, sono le cose che nessuno può acquistare.
I colori e la folla aumentano ed aumenta il brusio che si allontana sempre di più dalla piazza e oltrepassa la città vecchia. Alle tre del pomeriggio il sole è ancora fortissimo, ogni singolo passo alza la polvere che moltiplicata per migliaia di piedi, provoca un alone flou offuscante.
Giorno di festa e dolore collettivo. Terra di Allah, riti animisti e il pericolo della malaria. Un cumulo di pesce secco è appoggiato su di una stuoia; scheletri fossili, blocchi di minerali, noci di cola, sabbie colorate, spezie e il sale del deserto. Le frittelle di farina di miglio sfrigolano dentro padelle a coppe incavate.
Il sole si è scomposto in piccoli aghi che fanno sanguinare. Solo la notte può lenire il dolore e trascinare con sé la luce di Venere -bassa all’orizzonte…
I rumori inseguono rumori. Bong – stub. Il miglio nel mortaio. Sfish è l’apertura di una bibita sognata per ore. Bee – ray – poh: suoni del dialetto sangha…e mi perdo tra il miele e il caldo. Say-oh è il sole metallico che fa scricchiolare la terra indurita. Bah – bu sono timbri di voci bambara. Le ombre si uniscono tra i sacchi di polveri magiche. Ah – jang. Manghi e banane cuociono al sole.
Inspiro il nulla e divento un’altra semplice creatura del silenzio…ed in questo silenzio resto in attesa.
Alle nove dovrebbe partire un mezzo pubblico per San, ma gli orari sono incerti. Il vento della notte ha raffreddato le ossa, e certamente quest’umido che regala un’idea di fresco non durerà per molto tempo.
La piazza oggi è sgombra di persone e banchi. I ragazzini, con i secchielli di plastica, vanno alla ricerca di semi o altre cose cadute dalle sponde dei carri. Ispezionano i cumuli di sacchetti di plastica, raspano il patchwork di detriti e spazzatura. I taxi de brousse per San sono pieni di gente, inizia l’incertezza di una partenza che pensavamo molto più semplice, in realtà è tutto complicato. Scegliamo l’alternativa di andare sino al carrefour, e da lì proseguire per San. Sul camioncino caricano a forza una ragazzina nascosta da una stoffa. Non riesco a vedere il suo viso. Dietro di lei una folla rumorosa la segue, la tocca, qualcuno sembra volerla mandar via, mentre altri la trattengono. Non capisco se è un momento di gioia oppure di dolore, è un aspetto insolito questa agitazione perché difficilmente le persone alzano la voce. E’ una promessa sposa, oppure è stata scacciata, sarà forse una “petite serve” che cambia famiglia. La ragazza ha la piena solidarietà delle altre donne sedute. Il congedo è misterioso. Ripercorriamo la strada al contrario e traghettiamo di nuovo sul fiume, il motore della chiatta stenta a partire. C’è sempre qualche cosa che non funziona: un motore che non parte, una luce che non si accende, una porta che non si chiude, l’acqua che non scorre, un sorriso che non fiorisce nelle terre di sudore.
Nel taxi de brousse una giovane donna allatta il figlio, il bimbo ha legato al collo un amuleto porta fortuna; alla nascita i genitori bruciano una pianta che si chiama “wolo”, sotterrano la placenta e regalano un amuleto da portare tutta la vita. Il bimbo è aggrappato, con le piccole dita, al lungo sacco del seno. Io resto artigliato ad uno dei tubi del tetto per non spaccarmi le ossa. Con la testa china, tento di proteggere la sclera arrossata degli occhi dalla polvere.
San del Deserto; così potremmo chiamare questa città. E’ la vera provincia tranquilla, dove i ritmi sono rilassati e i sorrisi frequenti e disinteressati. Non c’è nulla da visitare. Non è una meta turistica, e qui ci si ferma solamente per andare a Bamako oppure nel Burkina Faso. La moschea è immersa, e quasi invisibile, nella frescura delle acacie frondose. Il nulla. La familiarità. La normalità. Mangiamo un mango con dei bimbi silenziosi e lo sguardo lontano.
Le strade sono ossessioni interminabili sotto il sole.
Ci allontaniamo verso la periferia. Incontriamo Richard; il ragazzino ci mette un po’ in apprensione e continua a snocciolare nomi e date in francese: la data di nascita, l’età dei genitori, l’anno del suo arrivo in città…è inesauribile.
Parla di un’ipotetica famiglia a Bankass, e aggiunge che è allievo della scuola coranica di San. Parla in un modo strano, ed il reale si confonde con il gioco e forse, penso, con la pazzia. Ci accompagna fuori città e diviene una presenza inquietante, non chiede nulla di preciso, ma forse è alla ricerca di una cosa che non possiamo dargli. L’assistenza totale, una figura parentale, un genitore, una madre forse. Una penna e qualche spicciolo interrompono l’inseguimento e il mio imbarazzo. Lascio in sospeso l’ipotetica pazzia e la sua certa sfortuna.
Campement Municipal.
Le stanze hanno le sbarre alla finestra e lo squallore generale è all’apice. I colori delle pareti hanno subito trasformazioni chimiche nel tempo, davanti alla stanza c’è un’aia di cemento assolata, con tavoli rabberciati e sedie rubate all’arredo di una sala d’aspetto d’ospedale degli anni cinquanta. Il resto è vuoto. Migliora solo un poco di notte. Il televisore trasmette il telegiornale in francese e poi lo stesso telegiornale ripetuto in lingua locale. Nel buio si aggirano figuri che si disperdono nelle tenebre circostanti. Ora l’aia-bar si è animata e i tavoli sono occupati da coppie e ragazzi soli. Durante la notte lasciamo la porta spalancata, ma non riusciamo a recuperare neppure un refolo di vento.
San – Sikasso
Il viaggio per Sikasso dura sei ore. Pigiati e sudati. L’arrivo assolato ci porta al Mamelon, un vecchio albergo pretestuoso, con una splendida doccia funzionante e acqua a volontà. Le gioie sono poche, e quelle poche le assaporiamo con calma. Usciamo alla ricerca della stazione dei bus per il Burkina Faso. L’ambiente circostante è decisamente cambiato, è quasi campagna, con gli orti e alberi secolari al lato della strada. Siamo rimasti senza soldi e le banche sono chiuse. Mi ritorna in mente Gianni Celati nel libro “Lettere Africane”; la sua angoscia di non poter cambiare i soldi. La nostra situazione è al momento la stessa. In città non accettano i franchi francesi. Gli autobus sono lontani dal centro, e la via è martellata dalla polvere alzata dai camion che la percorrono senza rallentare un minimo. Intorno il panorama è argilla e verde, finalmente un tono di colore diverso, una natura più socievole. Sikasso è il confine per il Burkina e la Costa d’Avorio…geografie lontane e misteriose: metropoli sul mare e foreste impenetrabili, nell’universo nero dell’Africa Occidentale.
Spostamento d’uomini, la continua peregrinazione da un mercato all’altro, con pacchi e portapacchi dove sono legate le capre sotto il sole. Un auto, con la carrozzeria distrutta, cigola sulla strada e sul tetto trasporta pezzi di carne sanguinolenta. Movimento continuo di popoli, famiglie intere e tristi ragazzi solitari che sorridono timidamente. Ad ogni fermata le urla, i colpi, gli aggiustamenti e i motorini ronzano carichi di fascine di legno e sacchi informi. Ogni cosa è riutilizzata all’infinito, artigiani improvvisati al ciglio delle strade riciclano bicchieri di plastica per fare guarnizioni, spessori, rattoppi.
Chissà che forme assumerà l’anima dispersa.
Il griot canta la notte.
- La luna tratteggia l’ombra degli alberi smossi dal lieve vento notturno. La luce rarefatta dei raggi sonnolenti - getta argento e corallo sulla sabbia. Le tenebre sospingono a contemplare i campi di battaglia sopravvissuti al giorno afoso. E’ un regalo divino - la notte. Presagi e sogni sono in arrivo - cullano la mente allontanandola dai vasti campi insanguinati dal lavoro. Luna - in questa notte priva di rose - profumi ugualmente di primavera. Luna attesa e maledetta. Spiraglio di salvezza - nel tetro mare del cielo. Sbrigati in fretta ad imbandire gli astri a festa - e portami il sonno.
Il griot canta il calore. - Gli alberi riarsi dal calore - in una vita polverosa. Io ti posso capire - riarsa pianura - mentre urli tra gli steli morti l’orizzonte distante. Io ti amo sconfinato spazio – quando resti immobile nella fissità che congela il vuoto.
Antri – rifugi notturni. L’incanto del buio… Sogno dell’hogon.
Nel sogno le parole: - non essere troppo affamato-. Forse questo è tutto, e deve essere normale così. Forse ogni cosa che accade è già decisa da qualche cosa di supremo. Mi chiedo perché non si presenta palesemente. Si nasconde per gioco, oppure mi spia e osserva la mia vita. La risultante dei suoi esperimenti. E nel sonno arriva e dice: - non essere troppo affamato.
Dammi ascolto - sole tormentato - non ti abbandonare all’eclissi eterna.
Sogno della tempesta di sabbia e dell’inferno.
Mi gratto nell’attimo finale, mi tocco l’orecchio, tiro su con il naso. La nube di un esplosione avanza. Il fumo mi raggiunge ed io mi gratto. Sorrido, ghigno, rido sguaiatamente. Mi tormento un incisivo con mezzo fiammifero desolforizzato. Vivo quest’attimo come si attende la pioggia. Come si assiste al tramonto. Il resto non è nulla. Distese a perdita d’occhio di sabbia salata. Osservo le inutili fughe e vivo nel grande rammarico che nessuno, in tutti questi secoli, non ha mai creduto veramente all’inferno. Eppure l’inferno era a due passi.
Sogno del sudore.
Il caldo insopportabile ha sferrato un colpo alla mia nuca. Mi giro di scatto, provo ad afferrare questo peso estraneo. Mi sembra di averlo in pugno, ma la mano sudata lo fa scivolare via. Aspetto un secondo, ne aspetto due, ne aspetto tre, ne aspetto quattro…non succede nulla, forse sto sognando.
Sogno del silenzio.
E’ tutto silenzioso ma non morto. Osservo il mio corpo dall’alto gettare ombre sui i muri di fango. Lo spazio intorno è immoto. Il mondo è completamente silenzioso. Improvvisamente il vergognoso rumore di una chiave girata con forza nell’ingranaggio della porta: -entra pure, ma scuoti dai tuoi piedi la polvere del caos-.
Sogno trasparente.
Ora devo andare. Mia madre tende le braccia verso di me. La palla rotola e rimbalza impazzita. Mi attraversa come fossi etereo. Trasparente sogno.
Sogno del dolore.
Dopo appena tre passi, ecco la detonazione e poi centinaia di microesplosioni interne. Nella schiena si apre una ferita, sento il sangue caldo defluire. A capo chino, nel dolore intenso, provo a rialzare la testa, ma pesa come sei generazioni di uomini grassi. L’aureola di caldo è diventata dolore.
Sogno del sogno.
Ritorno indietro nel tempo, nell’infinita attesa dello stesso taxi de brousse. Nelle terre prive di vento sono stramazzati al suolo i miei sogni. Desidero un mondo dove non esiste il dolore, né la sete e neppure la fame. Voglio ritornare in luoghi dove si ritrovano, come vecchi amici, i sogni di ieri e quelli di domani.
Tramonto di Sikasso.
Il cielo si colora di rosso mattone e una magia argillosa dipinge ogni cosa. Le stecche al neon si accendono sulle porte e vicino ai tavoli dei giardini. I generatori dei campement producono una tosse irrefrenabile che si lacera in lamento lasciando cadere il buio generale.
Partenza per Bobo-Dioulasso.
Partenza alle otto di mattina: centosessanta chilometri, innumerevoli posti di polizia dove i funzionari sono incatenati dentro divise mimetiche vecchissime. Una foratura scompagina l’interno stipato del bus. Ventitré persone fuggono tra gli alberi alla ricerca di qualcosa da bere, o meglio di qualcosa che racchiuda dell’acqua; proviamo con gli alberi di mango, poi un carrubo, ed in fine la miracolosa scoperta di una pianta di anacardi, con i frutti rossi simili al peperone ed un seme arricciato. Ogni frutto contiene una quantità d’acqua inaspettata, lo scopriamo grazie ad uno dei fuggitivi che si è inoltrato nella vegetazione.
Burkina Faso.
Sei ore di sudore. Imprigionati dentro un camioncino arroventato, in una prova di resistenza che sembra senza fine. Poi il miracolo di Bobo. Una doccia al Campement “Le Pacha”, nescafè espresso e acqua potabile a volontà. L’oasi del campement è gestita da una coppia di francesi ed è il regno della gentilezza e della pace.
Le fatiche del viaggio diventano un ricordo. La calma, l’accettazione di un popolo che attende ogni cosa non con rassegnazione, ma con tranquillità. Le risate sono squillanti e l’aperta ilarità africana è contagiosa, è suono di vita. Le occhiate curiose ad ogni sosta penetrano i vetri gialli di polvere, attraversano gli abiti occidentali, indugiano sulla nostra pelle bianca, e poi gli sguardi sembrano addentrarsi nel corpo e sondare l’anima. Questo bimbo, che non mi stacca gli occhi da dosso, non riesce ad immaginare il mio mondo… il pianeta di un’altra galassia. I ragazzini, alle fermate dei minibus, vendono bevande colorate, uova sode, arance legnose, e vigilano pignatte di alluminio ricolme di carne stufata che continua a cuocere sotto il sole. C’è sempre qualcuno che compra, scarta, succhia, morde, sputa, oppure si pulisce i denti con i bastoncini di legno. Le labbra, il contatto orale, il bisogno primario. Intorno il vuoto della pianura non ricorda più gli animali feroci, le magie delle migrazioni.
I ruggiti hanno abbandonato il deserto per rifugiarsi nelle foreste lontane…
Bobo – Dioulasso: il nome significa “casa dei bobo e dei diula”, le due etnie presenti nella zona. E’ la seconda città del Burkina Faso. Bobo è una città molto vasta, ma il centro è visitabile a piedi in poco tempo; la moschea, in stile sudanese, è contornata da alberi frondosi e trafitta da centinaia di tronchi di legno, quasi avesse un’anima d’albero. I pali formano un’impalcatura stabile per restaurare la struttura. Il museo etnografico provinciale è minuscolo, caldo e non molto interessante. Gli strumenti musicali e le maschere delle cerimonie sono ricoperti dalla polvere. All’esterno, le costruzioni disastrate, sono l’esempio delle tre architetture abitative della zona: una casa di banco dei bobo, un’altra capanna fulana e un complesso abitativo a due piani dei senoufo. Il tutto è distrutto dall’incuria e abbandonato a se stesso. Il cuore della città è il Grand Marché, il mercato affollatissimo che si disperde in un area molto vasta. Una parte della città è occupata dal vecchio quartiere popolare di Kibidwe: un’insieme di vecchie case, tra cui la casa più antica chiamata dei “diula”, i fondatori della città. Gli artigiani e le famiglie al fiume, che è più una pozza che altro, animano le strette viuzze nel rione insieme ai griot, fabbri, animisti e mussulmani… il rigagnolo sporco ospita i pesci sacri, poco lontano le donne lavano abiti e piatti tra gli scarichi che segnano la sabbia di vene nere.
I viali si intersecano in un bazar continuo, le piazze sono agghiaccianti spianate asfaltate. Le strade dipartono dal centro città e penetrano quartieri-paesi, dove tra la terra argillosa ritrovo i ritmi delle piane desertiche del Nord. Quartieri di meccanici e di ragazzi che spingono carretti con i bidoni di benzina: sono i distributori viaggianti. Nelle strade ammassi di ricambi d’auto, cumuli di scarpe e borse usate, sarti, impastatori di mattoni. I barbieri sono pubblicizzati da grandi cartelli pitturati, una storia a fumetti dei possibili tagli alla moda. Un gruppo di donne, sedute a terra, friggono tortine di miglio e spiedini. I perdigiorno sono appostati alla ricerca di turisti. La stazione ferroviaria è una cattedrale nel deserto ed è costruita seguendo l’architettura del Sahel, sembra una moschea di un bianco abbagliante, c’è solo un treno senza orari precisi che da Abidjan, nella costa d’Avorio, arriva a Ouagadougou.
Burrasca serale. Incredibilmente piove. Piove sopra le capanne sperdute. E piove sulle case abbattute dopo la morte del capo famiglia. Il figlio deciderà se ricostruirla nel solito luogo. Cumuli di sabbia, paglia e mattoni. Piove sopra i tronchi d’albero della casa implosa. La pioggia è un veloce intermezzo. La città ben presto si ricompone in cubi di terra, strade senza ombra, polvere che s’alza in vortici e rumori svenuti. Neppure i cani o le mosche si muovono. Incontriamo stranieri innamorati di quest’Africa severa: la signora sarda insegna la lingua inglese in una scuola privata, altri francesi sono in città a seguito dei progetti di solidarietà, qualcun altro gestisce negozi e locande.
La radiolina è un mito da queste parti; spesso rotte in più punti e incollate alla peggio, sono tenute insieme da spago legato e le antenne rabberciate con il nastro isolante. Ronzano sempre e le continue scariche elettrostatiche accompagnano notiziari in lingua francese e musiche locali.
Un’altra alba - sudata pure questa. Un altro giorno di allenamento alla vita.
…nel sud del paese, diretti a Banfora.
La strada discende in una piana che a prima vista sembra un lago, in realtà sono i campi coltivati a canna da zucchero. E’ un altro mondo; la collaborazione con la Cina ha importato modi di coltivazione e organizzazione del lavoro cooperativo nelle risaie. Le piantagioni irrigate disegnano un ambiente totalmente diverso dal resto del paese. L’orizzonte verde è un fenomeno stupefacente.
Dopo un primo momento di scoramento dovuto al caldo e alla desolazione di quello che altro non è che un villaggio un po’ più grande, contrattiamo un driver per raggiungere le cascate di Karfiguela. Alberi secolari e frescure inaspettate. Il fiume ha scavato la roccia della piccola falesia e formato laghetti e cascate. Rincuorandoci a vicenda sull’assenza della bilharzia, ci immergiamo colpiti dallo scorrere dell’acqua fresca. I lavoratori, di ritorno dai campi di canna da zucchero attendono i camion diretti in città, dopo una giornata di fatiche sotto il sole.
La speranza ha modificato la natura. Il sogno - la realtà. Gocce di sudore – linfa che stilla.
Matrimonio al tramonto, festa di colori.
Le donne passano dalla fatica alla gioia con una naturalezza che disarma. Una signora anziana, vista la mia incertezza, mi chiama assicurandomi che se voglio posso fotografare.
Vestiti colorati, acconciature dei capelli come sculture di legno, i bambini si avvicinano per farsi fotografare, musica di percussioni, xilofoni e flauti africani suonano senza sosta. Semplici passi di danza e poi regali di stoffe sulle spalle della sposa, semi di miglio sul viso sudato e monete appoggiate alla fronte, quindi recuperate da un amica al seguito. Un cerchio ondeggiante ed intorno famiglie sedute sulle sedie in strada. Colore. Calore. La danse des femmes d’Afrique…
Djembé - potere della musica.
Non fermare il tuo assolo ora - il mio piede ballerino è impazzito. Batte ripetutamente al di fuori del mio corpo - della mia volontà – incontrollabile. Se ti fermi ora - torno a casa zoppo.
La notte è buia nelle strade di Banfora, le poche luci dei minuscoli spacci alimentari segnano sommariamente l’ossatura di una città-villaggio. Gruppi di bambini giocano a calcio balilla; i biliardini mastodontici di legno sono sotto i rari lampioni. Le famiglie sedute al ciglio della strada chiacchierano con un fil di voce. Qualcuno dorme vicino alle cunette di scarico. Dormono profondamente incuranti del luogo dello svenimento. Un posto vale l’altro nella ricerca di fresco; anche l’aria spostata dal transitare di un camion è sollievo.
La notte si dipinge addosso e nasconde le cicatrici rituali dei visi… Da Banfora al lago di Tengrela.
Gli ippopotami tanto decantati, in realtà sono rari avvistamenti. La strada argillosa costeggia la campagna lavorata, risaie in secca e villaggi. Una fila ininterrotta di persone percorre la strada diretti in città. Il lago è contornato da boschi di manghi e palme da cocco rachitiche, alberi di kapok e céibe africane. Il silenzio assoluto è spezzato dal rumore delle foglie, dalle mucche al pascolo e uccelli colorati. Camminando stacchiamo i frutti del mango ed il dolce mieloso per un po’ di tempo disseta. Nel lago le piroghe salpano le nasse. L’aria è immobile, è l’una del pomeriggio e il sole si accanisce contro la terra. Le foglie secche delle palme, smosse dal vento caldo, producono un rumore di scheletri danzanti.
Viaggi interiori nelle terre vuote. Un passo - ancora un passo. La terra si piega al passaggio - si allea con i piedi - sollecita a muoversi. Crea il ritmo. Completa i destini.
Salutiamo il tassista con una bevuta dei succhi locali: tamarindo, canna da zucchero, zenzero e il bisap, una bevanda estratta dalle foglie di ibisco. Continuo a stringere piccole mani, fantasmi di bimbi, moccio e occhi sorridenti…
Banfora – Bobo – Ouagadougou.
Dalla piana verde sorgono, come isole misteriose, una serie di colline e nello spazio enorme un bimbo lega una fascina di legni sul dorso di un asino. L’autobus corre veloce: gli scarti, le frenate, le uscite dalla carreggiata. Viaggio in un pianeta proibito. Il caldo crepita fuori dal finestrino rotto. Un palazzone marrone e sgraziato appare sopra un mare di case-cubo; la capitale Ouaga sonnecchia con quaranta gradi all’ombra. Piazze anonime, le statue di una semplicità disarmante sopra piedistalli di cemento e sassi, segnano il cuore delle rotatorie. Il caldo è il fulcro di ogni azione. L’esodo dalle campagne ha dilatato la città disperdendola in quartieri-villaggi, il centro è segnato dalla grande struttura del mercato, posta in una costruzione “moderna”, e la casa del partito è diventata la casa del popolo. Più famoso è sicuramente il festival cinematografico panafricano conosciuto come FESPACO, e ha luogo in città ogni due anni.
Alle cinque del pomeriggio la città si colora di nuvole polverose e le folate di vento impastano l’aria. Il cielo diventa rosso e una piccola tempesta vortica tra le scarne piante del giardino. I fiori della buganvillea cadono a terra e gli uccelli annunciano l’allarme generale che anticipa la notte.
Fattezze – sembianze - ricordi di vite composite. Residui – resti. Rimasugli – briciole d’anima.
Il coraggio di quest’uccello canterino andrebbe premiato. Che cosa lo spinge a produrre un suono tanto dolce? In questa natura immaginavo uccelli rochi e cascate silenziose. Pensieri di sabbia. Anche baciare è fatica disumana. Sedimentazioni di millenni in un mondo al contrario. Le presenze umane si materializzano all’improvviso, immobili ombre in luoghi inospitali: - Ehi blanc ca va bien ?-.
Partiamo da Ouaga diretti a Gorom-Gorom, per visitare il mercato del giovedì: uno dei mercati più affascinanti del Sahel, al confine con il Niger. E’ mercoledì. Decidiamo di arrivare a Oursì, quaranta chilometri oltre Gorom-Gorom, passare la notte e domani andare al mercato. La strada da Ouaga diviene pista transitabile, poi solo sabbia. Il tracciato misterioso taglia la zona desertica e si avvicina alle Grandi Dune. Acacie e massi di granito, sabbia e villaggi sperduti di tuareg, bella, fulani e songhai…donne al fiume e cammelli lungo la strada. Continue immagini fuori dal mondo, un mondo lontano. La duna appare con un colore arancio intenso; è l’ora del tramonto. Il fuoristrada mugghia, s’impantana, riparte.
L’autista ha la pessima idea di chiedere se qualcuno vende i mortai di legno e in poco tempo tutto il villaggio risale la duna trascinandosi dietro i vecchi mortai. Nella confusione che si è creata, tentiamo di spiegare che non sono per noi, e abbandoniamo l’autista alla contrattazione e al carico. Un gruppo di ragazzi si avvicina e ci propongono un tè nella serata, davanti al fuoco. Decidiamo di dormire sulle dune. Nel buio arrivano i ragazzi del villaggio con tutto l’occorrente per il “tè nel deserto”: legni per il fuoco, tè verde, zucchero, caraffe e acqua del pozzo. Durante la preparazione parliamo dell’avanzamento del deserto, del continuo tentativo di arginare le dune, e dell’emigrazione dei giovani da quel territorio inospitale. I ragazzi hanno organizzato una piccola associazione locale per favorire la cura e lo sviluppo del villaggio.
I ragazzi in silenzio si inoltrano nel buio - il fuoco resta acceso - l’umido sale dalla sabbia - la luna è ovattata da nuvole cotonate. L’abbaiare insistente di un cane - accompagna i miei sogni agitati.
Il risveglio del mondo al confine del mondo.
Partiamo per il mercato di Gorom. Perdiamo la pista più volte, poi seguiamo una fila di tuareg diretti al villaggio. Il Mali e il Niger sono a due passi, oltre quel nulla davanti. Prendere una pista qualsiasi vorrebbe dire disperdersi per sempre, nella fantasia monotona di una natura severissima. Il mercato è all’inizio della preparazione, mercanti e acquirenti stanno arrivando da ogni luogo e le strade sono percorse da cammelli, asini, mucche. La gente trasporta chincaglierie, stoffe, tappeti vegetali, sacchi di foglie di eucalipto. Calabasse sulla testa, giare di terracotta, contenitori di plastica, secchi di alluminio, fascine di canne, legna da ardere, animali macellati al sole. L’argento di collane e bracciali, orecchini e conciature con fili colorati, donne elegantissime, tuareg con la spada, caffettani, litham, zucchetti arabi.
Il griot canta il ricordo di Marvis.
Sono figlia del mercato di Gorom-Gorom, una creatura partorita in un cesto, nella polvere che sconvolge il confine tra il Burkina Faso, il Mali e il Niger. In un punto minuscolo del mondo dell’assenza. Il mercato africano è l’incontro di gente disparata che mescola cammelli agli asini, i sari gialli a tuniche arabe, i bracciali d’argento al pesce secco. E poi la polvere, il deserto, il sale. Mio padre ha incontrato qui la futura sposa, la fanciulla che divenne mia madre. Rivivo la scena: lei avanza avvolta nel suo abito coloratissimo e i capelli sono una complicata scultura, un vezzo costato ore di preparazione. L’uomo la vede avanzare imponente e leggiadra al contempo, e immagina le proporzioni del corpo studiando le pieghe del vestito luminoso. Sospira pensando al seno pieno, alle gambe lunghe e ai fianchi promettenti. Un’apparizione in mezzo al fango. Lo sguardo potrebbe assomigliare al pastore che valuta un gregge, ma in realtà non è così. Il battito accelerato del cuore tradisce la classica freddezza di un allevatore al mercato delle capre. La donna è nera come un frammento della notte più nera…il luccichio degli orecchini focalizza il riverbero del sole. La collana d’argento scivola altalenando sulla pelle liscia, il collo è perfettamente ritto, a mantenere in equilibrio una fascina di canne d’acqua al di sopra delle spalle immobili. Solo gli occhi non perdono nulla di quello che accade intorno, guizzano da una parte all’altra, dai cesti di manghi e polveri colorate alle stoffe, dalle donne che vendono carbonella al macellaio che squarta un capretto sotto il sole. Il movimento oculare ha un attimo di incertezza, non è ancora certa ma quel ragazzo la sta guardando insistentemente; è seduto su di un carro e aiuta una donna anziana a riporre gli acquisti sopra il pianale. Il ragazzo si avvicina al cavallo, accarezza il collo sudato dell’animale senza smettere un istante di guardarla. Rivedo quello sguardo, e a volte mi chiedo se incontrerò il mio destino sotto questo sole che frantuma i mattoni di fango, chissà se ripeterò l’esperienza di mia madre. Chissà se il deserto mi porterà fortuna, giovedì prossimo.
Sulla strada del ritorno ci fermiamo a Bani. Sulla collina piatta le moschee risaltano come lance puntate al cielo, i minareti fuoriescono dalla base quadrata di pietre e fango. La moschea centrale è contornata da un alto muro merlato. La maggioranza della popolazione, in questo minuscolo villaggio, è mussulmana, e i ragazzi giovani vicino alla moschea leggono i passi del corano scritto su tavolette di legno. Il caldo è pungente e il villaggio giace sonnolento protetto dai luoghi di culto. Alcuni templi islamici sono in ricostruzione, e con questo caldo il restauro durerà secoli.
Vicino Bani, lungo la strada, un gruppo di uomini e di donne sono intenti a scavare e setacciare sabbia e sassi, poco più in alto una glabra collina è forata in più punti da pozzi di scavo. I minatori sterrano a una profondità di quaranta metri per cercare l’oro, con metodi preistorici. Nei volti bianchi di polvere non manca un sorriso rivolto alla curiosità dei bianchi di natura. Le donne, abili a setacciare il miglio, qui si sono attrezzate al lavoro di spolvero della terra alla ricerca dei diamanti. I grandi giacimenti hanno interessi anglo-americani…e in questo nulla qualcuno si arricchisce.
Nella luce serale i baobab diventano soggetti ricercati. Non sono mai isolati, appena ti fermi per fotografarli da luoghi misteriosi arrivano bimbi nudi e curiosi – neri folletti ignudi – e mentre il sole scompare tra le nuvole e la polvere, a un metro dall’orizzonte reale, i colori si dissolvono nel fumo del traffico della città che si avvicina. Neppure i sorpassi incauti mi strappano dal tacito osservare. Il liquido di fissaggio è al lavoro, reagisce alla giusta temperatura, colora di tatuaggi indelebili le pareti di ogni organo interno. Esternamente sono una bianca apparizione a centodieci l’ora.
Ouaga.
Una signora francese, in un negozio protetto da cancellate, vende costosi souvenir per i turisti danarosi e le autorità di ogni stato. Con orgoglio annuncia che possiede “porte dogon autentiche” e altri pezzi antichi. Lo spolpamento delle tradizioni è in atto da molti anni.
La dispersione - l’annullamento - i pensieri riempiono il vuoto. Il nulla è avvolgente - ondeggia con le spalle immobili e si aggrazia di colori accesi.
Rue De La Libertè.
La bicicletta avanza. Una ragazza, con il figlio annodato alla schiena, ha una pentola di frittelle di miglio legata al portapacchi. Pedala lentamente diretta al Grand Marchè. L’ombra cigola sulle ruote non perfettamente concentriche, e la testa del bimbo ritma la pedalata con la precisione di un metronomo. Il fischio del treno fantasma è un rumore fuori luogo e la prima sigaretta del mattino ha il sapore della polvere.
Il griot canta il destino africano.
- Nous sommes des coureurs boiteux dans un monde de sprinteurs olympioniques -.
- Siamo corridori zoppi, in un mondo di velocisti olimpionici -.
Parigi- Bamako- Ouagadougou.
Monsieur Baba osserva il panorama dall’oblò dell’aereo. Immagino che il suo profondo sospiro sia causato dall’idea di quanta strada, tutte le volte, lo separa dalla propria casa. Il viaggio da Parigi è un rimbalzo, è l’ovattato senso del ritorno privo di sorprese, sperimentato più volte, così classicamente legato alle ferie del suo lavoro all’estero. Baba fa parte di un gruppo di maliani che occupano le poltrone di fronte a me, e non appena consegnano i moduli di sbarco diviene il personaggio più importante della compagnia. Ipotizzo che è l’unico a saper scrivere, il resto del gruppo gli consegna a turno passaporto e la carta da compilare. Veste un caffettano e pantaloni verde bottiglia, un ricamo sul davanti gli raggiunge il petto con un disegno che ricorda la croce tuareg, la Croix d’Agadez, ma sicuramente è un bambara di Bamako che lavora in Francia. Sul capo ha uno zuccotto stile arabo, ricamato con fili colorati, e lo sgargiante copricapo gli allontana quell’aria feroce che traspare a causa dell’imponente corporatura, e lo trasforma in un bimbo troppo cresciuto in vena di travestimenti. Nero, alto, due denti d’oro e gli occhiali da vista cerchiati di metallo lucido. A volte si blocca ed ascolta le precisazioni dei più anziani di quella tribù che si è assiepata a metà aereo, un gruppo di africani che sembra contrattare qualcosa, oppure seduti intorno al fuoco alla ricerca di una soluzione ad un problema della comunità. Gli altri lo guardano con attenzione profonda, alcuni si immobilizzano in una tipica postura: in piedi con una mano che trattiene l’altro braccio all’altezza del gomito, dietro la schiena.
Neri d’Africa. Neri di Francia. Le mogli, poco discoste, sono sprofondate nelle loro poltrone e avvolte in abiti preziosi, in turchese e ricami sgargianti. Restano distaccate dalla discussione dei maschi e chiacchierano tra loro con la mano davanti alle labbra. A tratti, scosse da un lieve sorriso, gettano il capo all’indietro in un gesto veloce che interpretato da loro assume un significato fuori luogo, troppo simile a gesti occidentali. E’ solo un lampo, la posizione ritorna composta e austera un attimo dopo. Le stoffe lasciano intravedere i complicati intrecci dei capelli. In mezzo a loro, una ragazza vestita alla moda occidentale stride come una frenata durante l’adagio di Albinoni. L’aereo fa scalo a Bamako e dopo un’ora riparte per Ouagadougou.
Gli emigranti hanno lasciato i loro posti ed un profumo di fiori nell’aria.
Burkina Faso. Ex Alto Volta.
Ouagadougou è immersa nel vapore di una pentola in ebollizione, e quel vapore mi investe e penetra i muscoli accartocciati dalle lunghe ore di attesa. La luce, nell’arida città, è colpita a morte da rumori assordanti. L’aria è spessa di un calore invisibile. Ed eccoci gettati sulla strada per il primo incontro, quasi inevitabile, con un autista che caracolla al Pavillon Vert in un’automobile del periodo giurassico. Le memorie riprendono forma al ciglio della strada polverosa; gli abiti sgargianti delle donne, i fuochi accesi con misteriosi animali arrosto, pile di radici, traffico e confusione. Uomini e donne non hanno nulla da difendere nelle loro case, e la strada diviene terrazzo, aia, fabbrica e posto di lavoro, dove si mescolano storie e lezioni di vita. Chi vende, chi compra? Il mercanteggiare, regolato dell’economia povera, è simile ai giochi dei bimbi che scambiano figurine con conchiglie. Motorini, decisamente nuovi, sfrecciano con ragazzi e ragazze usciti da giornali patinati di moda etnica; occhiali a specchio sopra i visi di pece. L’ingorgo africano è ubriacante. La città giace composta da una periferia continua. L’autista arrischia una fermata nel campement di un suo amico, ma il nostro rifiuto è secco, scegliamo un posto per dormire vicino alla stazione degli autobus che partono per il confine con il Mali.
Campement Pavillon Vert.
Il verde è nascosto dalla polvere accumulatasi ovunque. Il giardino è un incubo surrealista, un mondo alla rovescia. L’albero di papaia sembra una creatura d’argilla e gli arbusti intrecci di fil di ferro. I ragazzi della locanda spazzano la polvere sopra la polvere; al di fuori di questa ombra fortuita la temperatura è altissima. La stanza è una cella con le imposte di ferro, una tenda di plastica sostituisce la porta del bagno, il resto dello spazio resta occupato da un letto matrimoniale ed un extrabed rabberciato. Nel buio serale andiamo alla stazione delle corriere per informarci del bus di domani, la torcia elettrica è indispensabile in quelle stradine buie e sconosciute. Ceniamo con un filetto di dinosauro nel black-out che ha imbalsamato il ventilatore. Nel buio il dialetto morè è intercalato dal francese…
La notte è un bagno di sudore e risvegli improvvisi. Alle cinque del mattino il muezzin si lamenta lontano.
Partenza per Ouahigouya, nel nord del paese.
La piana è monotona. Arbusti bassi e spinosi, baobab, polvere e capanne. Alcuni insediamenti sono costruiti a forma di recinto: le capanne hanno una struttura conica, con i tetti di paglia, e sono collegate le une alle altre da muri di banco.
Piccoli sentieri si avviano verso agglomerati dispersi senza un senso logico apparente; l’ubicazione segue la logica della vicinanza al pozzo, ed è raro vedere le capanne all’ombra degli alberi…come fosse la scelta di un’ulteriore sofferenza. A tratti il terreno cambia colore e si trasforma in piccoli crateri di sabbia più scura, sono i barrages, le riserve d’acqua piovana. In questo periodo, il più caldo dell’anno, alcuni avvallamenti trasportano l’umidità in superficie. Vicino alla sabbia scura i cumuli di mattoni d’argilla impilati induriscono al sole.
Le ombre delle acacie e dei manghi frondosi accolgono uomini e donne solitarie, assieme agli animali spaesati e ubriachi di caldo in fuga dal sole rovente. Il panorama resta identico per chilometri. Il viaggio si anima solamente alle soste del bus, e richiama frotte di bambini che vendono la frutta, polli arrostiti, oppure l’acqua in sacchetti annodati di plastica trasparente.
Un venditore resta in disparte – lo sguardo è vuota fissità – sembra non accorgersi della presenza del bus – della frenata rumorosa – del vortice di polvere sollevata. Non si accorge che il mondo ha ripreso ad essere simile a se stesso, anche questa mattina. Non si riprende dall’immobile postura - ha deciso di dimenticare quel luogo. La maglietta europea è logorata da strappi che modificano i nomi di capitali lontane - “Amstdam” - “Ldon” - “Rma” - “arigi”. Il suo profilo ci ignora - continua a guardare la strada dalla quale siamo arrivati - negli occhi ha un regolo in ritardo ed ancora è immobile ad aspettarci. Oppure siamo noi troppo in anticipo. Afflitto da un virus telematico - che lo ha imbalsamato e gli ha divorato le lettere della maglia - non si desta neppure alla partenza…
Dopo il villaggio di Yako la pianura diventa ordinatamente arata, intorno agli alberi interrati a filare vi sono argini di piccole pietre per trattenere il più possibile la pioggia estiva. Le capanne solidarizzano diventando piccoli paesi. Sotto un albero gigante una folla vestita a festa è assiepata attorno ad un religioso che, con le palme delle mani rivolte al cielo, racconta la pace, la sofferenza, la celebrazione accorata dell’aldilà.
Il marabutto tributa lodi al signore. Il paradiso è decantato gloriosamente - mentre intorno è solo inferno…
Ouahigouya.
La polvere di laterite ha lasciato spazio ad un soffice tappeto di sabbia bianca da dove estraggo il mio zaino. Le impronte di piedi e delle ruote dei camion rivoluzionano il velluto adagiato al suolo. L’autobus ci ha scaricato a Ouahigouya, nel terrore dell’una del pomeriggio.
Dimostrazioni d’affetto - sorrisi dei poveri e dei sofferenti. Io appartengo ai sorrisi degli stupiti. Ciascuno ha le proprie maledizioni.
Deserto – ombre. I bufali silenziosi inseguono l’ombra magra degli animali che li precedono. Vuoto – solitudine. Isolamento primordiale. Nullità - immutabilità – inesistenza. Il pieno di vuoto.
All’Auberge Libertè ci accolgono con una frase buttata lì: -“l’eau c’est coupée”-. Noi sognavamo una doccia storica, ed invece siamo costretti a sbicchierarci sul corpo l’acqua del pozzo. L’occidentale rimane stupito. Poi realizzi che il sogno è finito e l’Africa si è materializzata in tutte le negazioni, le privazioni, le assenze. Le mancanze sono raccontate sempre con un sorriso splendente e l’accompagnamento di una risata.
Vide ancestral…vuoto ancestrale.
Il nostro ricovero è un recinto di cemento, identico al colore argilloso del piazzale desolato di fronte. Ancora sabbia e polvere; gli alberi scheletrici più che crescere sembrano scendere in basso, retrocedono nel suolo per fuggire all’afa, al fuoco che si respira.
La stazione degli autobus diretti in Mali è un mare di creta percorso da schiene lucide, di marmo nero…alabastro inumidito dal sudore. Altre ombre indossano magliette sgualcite delle squadre europee di calcio; spiccano i numeri colorati sulle schiene al lavoro, trasformano la fatica in un’idea di gara, un gioco dalle regole ignote. Sull’autobus, una donna bellissima sale con il bimbo in fasce legato alla schiena, i movimenti sono lenti e accorti…“Madame la panthère”.
Le preghiere escono dall’altoparlante interno. Un’adunata radiofonica. Una lista di nomi, quasi ad indicare uno per uno tutti i passeggeri, quindi senza sosta l’elenco continua scandendo i nomi di tutta la piazza, di tutta la città, e quella voce elenca per ore il mondo intero.
Prevedo polvere alla polvere… Durante la preghiera radiotrasmessa, un bimbo fuori del bus intercala la sua richiesta d’attenzione fissandomi insistentemente, non so se resistere alla tentazione di guardarlo, per accettare o contrattare qualsiasi cosa.
La strada asfaltata ben presto è inghiottita dalla pista nel deserto. Sopra gli alberi sono ammucchiati cumuli di paglia al sicuro dalle capre affamate. Dai vetri rotti la polvere entra e ricopre tutto, le soste nel nulla sottraggono persone al sole famelico.
Frontiera con il Mali.
Alla frontiera di Koro riempiamo i moduli e la confusione ci rende marziani lontani da casa. Lasciamo il regno dell’assenza per ricadere in un altro regno dell’assenza. La burocrazia è mitigata dal sorriso che mi suscita dover scrivere, nel foglio di transito, il nome di mio padre e di mia madre. Il funzionario ci osserva incuriosito. Alle sue spalle, da un’apertura che funge da finestra, osservo un bimbo inseguire le galline e le capre sotto il sole accecante…pastore nudo.
La notizia dell’apparizione di tre stranieri è un comunicato di guerra, è la scoperta di una nuova cometa. Le mosse strategiche, organizzate per sfuggire a guide improvvisate, ci portano ad un camioncino Peugeot 504, che si mantiene ritto sulle ruote solo per merito della forza di gravità. Sedici posti in due metri quadrati. La magia degli incastri impossibili avviene sotto i nostri occhi, ed anche noi partecipiamo al gioco, siamo tessere da posizionare ora qui, ora li. Sembra impossibile che pressati a quel modo, quando ci muoviamo diretti a Bankass qualcuno riesca a dormire, altri osservano di sottecchi i bianchi alieni, una donna allatta un bimbo minuscolo, e la polvere, inutile dirlo, penetra ogni piega, ogni ruga, ogni pensiero. Il taxi de brousse, taxi della savana, è in avaria. Durante la sosta forzata le persone scendono, distendono una stoffa nella terra polverosa e pregano rivolti alla Mecca. I meno religiosi chiacchierano distrattamente all’ombra del tetto dell’auto.
Il lamento della preghiera è il rimpianto della savana verde e rigogliosa.
Soulimane è l’apparizione di un santo poliomielitico. Un santo dogon che si presta a farci da guida per i villaggi della falesia.
Notte di Bankass.
Dormiamo sul tetto di fango del campement per cercare sollievo al caldo. Il nulla e la notte stanno festeggiando insieme. In quel punto imprecisato dello spazio resto in ascolto del ritmo caramellato del dialetto sangha.
Nel chiarore del giorno i recinti di fango delle case riprendono il loro ruolo di labirinto, in una scacchiera delimitata da viottoli polverosi. Le donne vanno a lavarsi al pozzo con piccoli recipienti, le giare più grosse sono per l’acqua destinata alla cucina. L’acqua nelle case è tenuta dentro i canari, recipienti di terracotta sotterrati per metà nel terreno.
Da Bankass alla falesia ci sono dodici chilometri.
Non esistono strade asfaltate, soltanto piste di sabbia adatte ai carri trainati da cavalli ed altri sentieri da percorrere a piedi.
Galli e uccelli ritmano il risveglio accompagnati dal ragliare di asini disperati. Il sole in realtà non sorge dall’orizzonte, resuscita da un banco di polvere alta nel cielo. I raggi stampano un rosso acceso su di un carrubo che cresce oltre il tetto piatto, le foglie ed i fiori sono ancora rilassati dalle brezze notturne. Tra poco tempo la temperatura toccherà i quarantacinque gradi.
La parete rocciosa è lunga più di centocinquanta chilometri e alta trecento metri. Appare come una diga che si erge improvvisamente dalla pianura, è da questo punto che si sente parlare di “roccia”.
Al di sopra della scarpata l’altipiano degrada nella direzione del fiume Niger e dell’immenso deserto. Tra gli enormi massi caduti dalla falesia sorgono molti villaggi, altri sono incastonati in alto: le capanne di fango, i granai e i luoghi di culto, si mimetizzano con il colore delle rocce. Vicino alla falesia crescono i baobab ed il terreno è inciso da sentieri che si inoltrano nella piana. Nei campi si coltiva il miglio e altri cereali.
Un tempo la zona era abitata dai pigmei, soppiantati in seguito da una popolazione misteriosa: i theleme o tellem. Una popolazione di struttura molto piccola e dalla carnagione rossastra; sulle pareti a strapiombo della falesia sono ancora visibili le grotte del primo insediamento. I tellem usavano corde e pali per raggiungere le grotte e le tombe, superando passaggi molto arditi. I dogon scacciarono la popolazione locale. In fuga dall’islamizzazione si rifugiarono in questo mondo a parte, divennero agricoltori e cominciarono ad organizzarsi nella costruzione di barrage e orti a terrazzamenti. Attualmente solo il 35% della popolazione pratica la religione dell’Islam, gli altri seguono i culti animisti legati a due principi fondamentali: la vibrazione della materia e il moto perpetuo del cosmo. In alcune capanne e nelle pareti di roccia spesso si incontrano decorazioni a spire, che traducono l’idea dell’universo nel suo moto continuo…la spirale senza fine. Nella cosmogonia dei dogon l’essere supremo si chiama Amma, creò la terra e ne fece la sua sposa. Diede origine all’uomo e alla donna, due esseri perfettamente uguali, l’anima di ciascuno era femminile e maschile al contempo. Quindi si incarnò in Nommo che rappresenta l’acqua, la vita. Come in tutte le genesi religiose, i problemi non tardarono a venire; per risolverli Nommo decise di assegnare a ciascuna creatura soltanto un’anima, circoncise l’uomo e recise il clitoride alla donna. La mutilazione genitale è attualmente condannata dal governo, e nei villaggi è una pratica quasi scomparsa. I ragazzi segnano ancora oggi l’ingresso nell’età adulta sottoponendosi alla circoncisione. Spesso si vedono bambini di dieci anni cantare in gruppo nell’attesa dell’intervento. Negli anni trenta l’etnologo francese Marcel Griaule studiò in maniera approfondita la religione dogon. Nel 1948 scrisse il celebre libro “Dio d’acqua”, che ancora oggi è un testo importante per capire la complessità delle tradizioni locali. La sua ricerca portò alla conoscenza del mondo questo popolo. Visse molti anni a contatto con la realtà dei villaggi; studiò la religione, i riferimenti esoterici, la grande conoscenza delle stelle del popolo dogon, il significato degli amuleti, le piante medicinali e gli animali sacri. La costruzione dei villaggi segue la forma del corpo umano. La testa è il togu-na: il luogo della parola. Il tronco del corpo è rappresentato dalle case con i granai, mentre la casa delle donne, frequentata nel periodo mestruale, è la mano destra. Le donne si ritrovano in questa casa senza differenza religiosa o sociale. Il frantoio del villaggio simboleggia l’organo genitale femminile. Amma e il seno femminile sono i simboli di vita e Amma creò anche le stelle. I dogon, come gli egiziani, conoscono Sirio da sempre. Sirio è stata figurata da tre punti che rappresentano tre stelle, qui inizia il mistero, la terza stella, non visibile, è stata scoperta con un radiotelescopio solo nel 1995. Per ritornare sulla terra, bisogna dire che attualmente i villaggi sono organizzati con la pratica della famiglia allargata, la coltivazione dei campi avviene attraverso un lavoro cooperativistico. Villaggio di Kuiatomo.
Le donne dogon battono il miglio nei mortai di legno, inventano una melodia percussiva che sembra seguire una base sonora prestabilita, in scale discendenti. I lunghi bastoni, ripetutamente alzati e abbassati con forza, producono un magico intontimento di tam-tam. Di fronte alla piccola moschea di fango sorge il togu-na, il luogo della parola: una tettoia di canne sovrapposte, non più alta di un metro. I dogon si giustificano dell’altezza dicendo che in quel luogo non è possibile ergersi in piedi e quindi venire alle mani. I legni intagliati a ipsilon formano un colonnato, diventato quasi minerale dalla stagionatura del sole. La struttura è priva di pareti per permettere alle brezze la libera circolazione. I granai di fango sono di forma squadrata, la porta intarsiata è minuscola, e la costruzione è rialzata dal suolo di venti centimetri per isolarla dal terreno.
L’identico sole indurisce legni - mattoni - uomini…
Donne a passo lento, avanti e indietro, a seguire e ripercorrere la strada di tutta una vita. Sotto l’albero di mango, un ragazzo legge ad alta voce le sure del corano. Mulinelli di polvere e parole si innalzano, svaniscono nella cappa spessa del caldo.
La fontana dei toubab.
L’afa è una lama circolare sopra la testa. Una mano gigantesca preme il corpo a terra. Un limite alla fantasia, una pressa di ferro, brace e fuoco. Non puoi ergerti troppo, altrimenti rimani schiacciato dal peso del caldo, si fatica anche a respirare. Immobili, sorseggiamo l’acqua da una brocca di plastica multicolore. Soulimane ci offre una zucca colma di “dolo”, la birra di miglio. L’intero villaggio, a turno, sbircia l’interno del recinto di famiglia dove sostiamo.
Il canto triste del griot.
Dolori. Non vi capita mai di sentire su di voi i mali del mondo intero, di ascoltare i lamenti scomposti di agonie, di origine estranee… Un ragazzo è stato investito in una strada di Bamako, eppure sono lontanissimo da quella frenata improvvisa, come sono estraneo al dolore di questa donna peul che arranca sotto il sole con il figlio legato alla schiena, e altrettanto distante dal ragazzo tuareg, disperso nel centro di Ouagadougou a vendere chincaglierie, privato del deserto. Dolori. Una serie di dolori forti, dolori che non mi appartengono, ma che aspettano una sosta dei pensieri per salire alla luce. Improvvisamente sono sconvolto, anche se di fronte a me non ho dolori consanguinei di madri doloranti, di funerali familiari. Dolori lontani. Succede, deve accadere, oppure è solo questione di istanti, di odori che ricordano all'improvviso disinfettati ospedali, oppure visi resi trasparenti dall’umiltà. Dimmi dov’è il dolore degli altri. Dimmi se sorge nella mia mente a portarmi coraggio, oppure a ricordarmi che non ho pagato abbastanza. Ancora per quanto tempo sentirò il pianto del bimbo di Bankass. E’ più forte della mia volontà, non riesco a tenere lontano il senso simultaneo di dolore e felicità. Il lamento arriva e trascina un caldo struggimento, e partecipo al dolore di ombre sconosciute che lievitano nella piana assolata…
Soulimane racconta il sogno dei maliani: andare in Europa, lavorare, guadagnare un po’ di soldi e ritornare ricchi…
Che cosa ci si aspetta da un luogo così; qui è un miracolo solo sopravvivere, figurarsi muoversi o lavorare.
I bambini mocciosi sbucano dalle case, afferrano le dita delle mani e trascinano chissà dove. Molti hanno l’ernia ombelicale in rilievo sul piccolo corpo. Le bambine più grandi tengono in braccio i fratellini, con la sicurezza delle loro madri. Piccole donne a impratichirsi, in un destino segnato tra l’allattamento e il miglio nel mortaio, da far diventare farina prima di sera…e oggi osservano l’ennesimo toubab che scrive.
La dama di Bankass è un verde ramarro sinuoso - lucertola colorata. Nella musica acquista leggerezza. Il ventre piatto trasporta anime ancora lontane…
Il canto del griot innamorato.
…respiro lontano, essenza remota, penso a te in questo momento. Che cosa sarà domani, un domani incerto e vicino. Quali saranno le regole ora ignote: il fortuito, il casuale, la gioia, la tristezza. Resto immobile in questo caldo, e l’attesa rilancia lontano ogni cambiamento sostanziale. Un dialogo segnato dallo stravolgersi della sabbia in polvere. Questa è una clessidra piatta, orizzontale, che spinge il tempo in addossamenti e dune, dove il cumulo di selci è la data precisa della libertà, ed un altro è il ricordo dell’ultima siccità. Il tempo è scandito da meridiane di alberi ossuti; i baobab appaiono soldati disarmati, apparentemente vincibili, ma in realtà vivono un’attesa defogliata. L’acqua riposa nel tronco massiccio… Un baobab lontano forma un angolo retto con il suolo, è stato colpito da un fulmine che ha annerito la ferita nel corpo legnoso. I rami sono urla rattrappite.
La sera riporta i ritmi soliti. Le ombre si riposizionano tirando un sospiro di sollievo. La tregua al caldo riporta il senso di essere vivi.
Incontriamo per strada l’hogon, un capo villaggio, il suo viso resta all’ombra di un cappello tondo ornato da conchiglie e fili colorati. La bimba dogon indossa una maglietta azzurra bucata, raccoglie l’acqua del pozzo in un secchio che, con la maestria di anni d’esperienza, con un semplice movimento posiziona sulla testa per trasportarlo. Osserva di nascosto un tavolo completamente ricoperto di bottiglie vuote di birra. Lo sguardo trascina secoli di distanza. Intorno allo stesso tavolo, che ospita il riposo dei turisti-viaggiatori, ruotano dinastie di guide, caste di pulitori e cuochi. Il rumore di un generatore elettrico restituisce la visione reale: pratiche animiste, feticci, animali sacri, modernità tecnologiche.
Alle cinque del mattino - il brusio della rinascita è un bisbiglio di vita nell’ennesima creazione.
Il villaggio di Teli sorge direttamente sotto alla falesia. La parte vecchia è abbarbicata a metà della scarpata rocciosa, incastonata tra le rocce e le pareti verticali. I granai delle donne: all’interno sono separati i frutti del baobab dalle cipolle, il miglio dalla farina, e un buco centrale raccoglie le monete. Granai e case sono costruite di fango impastato con gli scarti della battitura del miglio. Per le tombe sono utilizzati gli anfratti della falesia; i cadaveri degli hogon e delle persone importanti sono innalzati con complicati sistemi di pali e corda, accomodati in posizione seduta e poi murati con il fango per difendere il corpo dagli uccelli. Nella parete sono visibili i luoghi di sepoltura ed ancora infissi i pali per poterli raggiungere. Nella parte alta del villaggio seguiamo i sentieri tra le case e i luoghi di culto: la casa dello sciamano, i granai abbelliti da riporti di fango in rilievo. Molti edifici sono in rovina. Soulimane ci spiega il significato di un disegno che raffigura il mondo circondato da un serpente, con il corpo a spirale: - per i dogon il mondo è sempre stato rotondo, e quando il serpente arriverà a mordersi la coda, sarà la fine della terra -.
Le cicogne nidificano vicino alle vecchie tombe della falesia. Sono animali protetti, e il loro arrivo segna l’inizio delle piogge. Radio Mali, a Bamako, ad ogni cambio di stagione segue in diretta l’arrivo degli uccelli. La pioggia è vita recuperata, il ritorno delle nuvole segna il raccolto.
Le voci lontane dei bimbi mi ricordano le spiagge affollate - ma qui il mare è un’entità imprecisa.
Le porte delle capanne sono scolpite con figure maschili e femminili, dai corpi stilizzati. Riparati dal togu-na, aspettiamo che il sole scenda un poco per continuare e raggiungere il villaggio di Ende. La doccia è un vano squadrato privo di tetto e non appena l’acqua scivola sul corpo evapora immediatamente, il piacere di fresco dura pochissimo. La fontana “ufficiale” è un secchio di plastica con una brocca. Le giare di terracotta sono colme d’acqua, dentro galleggiano al fresco le nostre bottiglie potabilizzate. Non sappiamo quanta autonomia avremo, beviamo di continuo la soluzione di cloro. Assaggiamo la birra locale: è molto annacquata ed il sapore ricorda il mosto.
La brezza è un lieve ricordo sfuggito alla sabbia arroventata.
Gli alberi, per difendersi dal caldo, hanno una scorza spessa come la pelle di un coccodrillo. Il sacro baobab è come se avesse le radici rovesciate; la leggenda dice che una divinità arrabbiata ha sradicato l’albero per poi ripiantarlo al contrario. Il baobab è intagliato e le strisce di corteccia sono impiegate per produrre cordami. Dalla cenere dei rami caduti e bruciati, si ricava il potassio per concimare la terra. Nelle cavità dell’albero un tempo si seppellivano i griot; ancora oggi, per molte culture africane, l’albero ha poteri magici e non viene mai tagliato. I grossi baccelli diventano ciotole, dalle foglie tritate si ricava una salsa alimentare, i fiori sono utilizzati per decotti e a scopo decorativo.
Ende.
Le piccole rondini scendono dalla falesia in silenziosi voli leggeri. Nel villaggio il risveglio preistorico è accompagnato dal lamento di asini sconsolati. Un rapace, marrone e nero, è a caccia tra i vecchi granai e i luoghi dei sacrifici animali. Nel villaggio la casa dell’hogon ha affreschi a triangolo: bianco per la vita terrena, il nero per la morte, il rosso per il sacrificio.
Qui non si è mai soli sulla terra. Ogni giorno si partecipa alla rinascita…
Yabatalu: l’attesa nel pollaio.
Le ore passano lente e fuori della tettoia il caldo è opprimente. Il tempo rallenta spaventato dall’arsura. Il pranzo è cucinato da una donna dogon; è completamente vestita di verde e bianco, dall’abito al turbante, ci ha ospitato con naturalezza, tra galline e pulcini. Ha preparato cuscus e pollo in salsa di cipolle. Nulla riesce ad entrare nel mio stomaco, solo acqua, l’acqua è il sogno e bisogno ricorrente. Minuti, ore… le guide alla spicciolata vanno e vengono. I bambini con le magliette occidentali e i piedi scalzi, sono incuriositi dal nostro pallore europeo. Resto sdraiato a terra su di una stuoia che odora di orina, polvere e sudore. Le mosche seguono il profumo del tè verde. Un insieme assurdo e vissuto contemporaneamente da tutto ciò che ci circonda: le galline inseguono il pianto di un bimbo, il rumore del tè versato ripetutamente, il suono di parole incomprensibili. La donna allatta una miniatura d’uomo; la testa del bimbo è nera come la cenere, come è scuro il seno, le spalle e gli occhi. Una macchia di nero notte. I due corpi si fondono assieme ritornando ad essere un unico corpo. Le ossa del pollo arrosto rendono combattive le galline intorno a noi, si inseguono tra i nostri piedi e le bottiglie vuote di birra del Mali. Vetro disciolto al sole. Ambiente terrifico e magnifico, semplicemente vita.
Gli uccelli migratori volano intorno alla falesia. Osservano increduli il vuoto circostante. Nei loro occhi è ancora vivo il ricordo della Francia e della Spagna. Ed ora solo vuoto e bollore…
Arriviamo a Beniamatu da un sentiero che taglia la falesia. Attraversiamo una valletta circondata da pareti verticali, torri, diedri e camini nella roccia. Lo zoccolo della falesia è inciso da piccoli canyon e gole. Avvicinandoci al villaggio vediamo orti e piantagioni minuscole di tabacco e poi un invaso d’acqua limacciosa e fiori acquatici. Lungo la strada incontriamo gli scolari che ritornano a casa nei villaggi del deserto. Ogni giorno chilometri e chilometri per venire quassù. Rumori nelle cave di sasso a cielo aperto; la mazza vibra nell’aria e il percuotere impasta polvere e sudore sotto il sole. Un viandante, con una borraccia ricavata da una zucca e l’abito dei colori della polvere e delle rocce intorno, ridiscende silenzioso e lento. Il pellegrino ci osserva, ed io ho il dubbio che non sia reale ma il frutto della nostra immaginazione, una sorta di illusione ottica. Al di sopra della falesia, si distende l’altopiano frastagliato di massi d’arenaria scolpiti dal tempo, frantumati dal caldo.
Siamo ospitati in un recinto di famiglia, al centro del villaggio. Al nostro arrivo ogni cosa si anima. Le gentilezze, i sorrisi, l’offerta continua del niente, del poco, di un po’ di riposo. Bambini, madri, padri, e il maestro del villaggio cui consegniamo quaderni e penne per gli scolari. La scuola è direttamente gestita dalla comunità del villaggio.
Ci mostrano il tetto su cui dormiremo. Sulle pareti delle capanne sono appesi gli amuleti, una radiolina a transistor, e teschi di scimmie per allontanare il male. Il cacciatore del villaggio, vestito di tutto punto, è attratto dalla polaroid e viene a mettersi in posa fiero e sorridente, con il fucile avancarica. Sembra un gioco e noi partecipiamo a questo divertimento collettivo; scatto polaroid a tutta la famiglia. Poi mi accorgo che per alcuni la polaroid è uno “specchio”, chissà quanto tempo è passato dall’ultima volta che si sono riconosciuti attraverso un immagine di loro stessi. Le donne rientrano nelle capanne con i bimbi legati alla schiena, altre con i secchi d’acqua raccolta al pozzo lontano. Al tramonto andiamo al limitare dell’altopiano ed osservo la piana che si scurisce lentamente, le acacie ad ombrello tendono ad un viola pastello e la sabbia, non più abbagliante, si è travestita di tranquillità. La fiammella di una lampada a petrolio indugia su di un tavolo basso, di tronchi legati assieme. Il buio volteggia tra il tavolo ed un piatto di pollo. Le ombre delle donne sono masse informi contro le pareti nere, qualcuno si è sdraiato a terra, i bimbi più piccoli si sono addormentati. Vita di sole terrifico e poi ombre, la via di mezzo non esiste. Ora nell’oscurità la pace è completa.
Luce di una lampada. Fiamme del fuoco. Ombre indistinte. I seni ritornano a coprirsi e il padrone di casa si cambia la maglietta. La nostra presenza riesce a non essere ingombrante. Per noi è il ritorno al passato sconosciuto.
Il sole è velato e l’aria è spessa di calore. Otto chilometri di altopiano sabbioso. Una sosta sotto un mango gigantesco; il leggero vento invade le fronde e produce un suono di acqua che scorre.
Dourou.
Uomini all’ombra e donne al lavoro. Qui arriva la strada e gli atteggiamenti sono diversi, la simpatia è dote rara. Al Campement Terita arriva l’acqua. Una bimba spinge un carretto, di ritorno dal pozzo, carico di taniche traballanti, dietro di se lascia una scolicciatura che impasta la sabbia del colore di regioni sotterranee. Sotto il sole i bambini improvvisano una partita di calcio, polvere e corse. Poco lontano il villaggio antico risente della vicinanza della strada, la presenza del turista è cosa di sempre: stoffe e souvenir impolverati…
La notte nasconde alla vista questa casa zingara. L’acqua contiene piccoli insetti che vibrano. Colombe e galline, eruttate nell’aia della casa, salgono sul tetto dove siamo baraccati.
Le mosche si risvegliano, la luce delle stelle diluisce nel cielo e la luna lentamente si dissolve. E’ l’alba. Un alba marrone chiaro luminoso, dal tetto osservo il mondo in basso, come fosse ai miei piedi…ma il sovrano è giorni che non si lava e la gommapiuma del suo trono è un ammasso informe di plastica, cotta dal caldo e sfibrata dalla polvere.
Il mantenimento del nulla è scopo di vita. Bandiagara.
Il Centro di Medicina Tradizionale è la premessa alla città. Nel centro di cura mentale, lavorano medici italiani in stretto contatto con i medici dogon. Il caldo è tagliente. Oggi è giorno di mercato; i mercati si effettuano a rotazione nei diversi villaggi: pesce secco, manghi, banane, corde di corteccia di baobab, tazze e bicchieri.
Il giardino di un campement ci ospita per un po’ di tempo, il fresco sotto un melograno e un gelsomino è una vera sorpresa.
Siamo nella attesa di un taxi de brousse. Sino a quando la macchina sarà stipata non si potrà partire. Nel frattempo il mondo si è dato convegno intorno a noi, e le donne continuano a vagare sotto il sole con le ceste di manghi sul capo. I sorrisi a turno ripronunciano la mia presenza, poi scompaiono lasciandomi frammenti di immagini. Neppure l’ultima sorsata d’acqua mi lascia un preciso ricordo. Il tremolio dell’aria e della mente è un moto continuo. Scocca mezzogiorno e l’ombra è inesistente nel piazzale polveroso. Le persone si salutano con una sequela di parole pronunciate alternativamente; allontanandosi continuano a ripetere ringraziamenti ed auguri.
Attesa. L’attesa è arte; saper aspettare in ogni condizione. Il bigliettaio dei taxi de brousse, armeggia con una calcolatrice che blippa di continuo. E’ intento a giocare, seduto su di una sedia di ferro e plastica riparata più volte, le mani in grembo con quell’aggeggio che suona fastidioso e lo sguardo riparato da occhiali scuri. Rimane ore ed ore immobile, ad attendere l’arrivo di persone da spingere sopra i cassoni ammaccati. Le striature di sabbia, tra le rughe dei piedi, sembrano ancorarlo alla palude di polvere. L’attesa. Ombra, tempo, pioggia, alba, partenza, arrivo. Un tuareg con il tipico vestito azzurro, procede timidamente sotto il sole. Una donna vestita a festa, ha intorno alle labbra un tatuaggio che le scurisce la bocca ed una linea discende sul mento. L’attesa della partenza per Sévaré si prolunga a causa della preghiera. Partiamo alle tre del pomeriggio ed i settanta chilometri sono un’orgia di polvere. E’ incredibile, ma dopo poco rimaniamo senza benzina.
Confine tra stati, paesi, regioni; definizioni che segnano di vuoto il vuoto. La strada di sabbia e ciottoli, è bloccata da un cartello che sancisce la fine di uno stato. Una bandiera svolazzante, un soldato sfaccendato, una scrivania di legno tarlato e alle spalle la foto del presidente attuale. Oltre le spalle e la foto, la piana tremolante è un quadro materico formato da pietre taglienti, uno schermo che trasmette lo stesso fotogramma inceppato. In tutto questo, mi perdo seguendo le linee incerte dei bassi arbusti e delle acacie. Un enorme anello sorge dal pugno chiuso dell’Ufficiale di Dogana, l’altra mano tenta di nascondere lo strappo ad una manica della camicia. Davanti a lui i fogli riposano impilati disordinatamente attendendo il mio modulo. Contro una parete scrostata, da pitture sovrapposte, una panca di ferro ha tre manette assicurate alle sbarre. Il controllo dei visti nel passaporto, è un esame approfondito al microscopio e non aspetto altro che riaverlo nelle mie mani.
Sévaré.
La città è di nuovo distruzione e vita innestate insieme, in un legame forzato. Il tempo e la natura la sfaldano lentamente. Quanto incatena la città, quanto obbliga a incunearsi in profondità, dimenticando pianure originarie e deserti noti. Abbandonare il vuoto risaputo, antico, essenziale, per un altro vuoto…il vuoto della demolizione. I saluti a Soulimane mi ricordano altri incontri di “percorso”. L’emozione degli adulti è uscita con tranquillità, senza freno. Ora è più vicina la vita di un’altra persona, una vita spesso immaginaria, in una terra di continue difficoltà. La nuova casa, come la chiama lui, ed una moglie incinta lo aspettano a Koro. Il resto lo ha con sé in una borsetta di tessuto che porta al collo, nascosta sotto l’abito di stoffa grezza impastato da anni con l’argilla polverizzata.
La stanza numero due è un altoforno pitturato d’azzurro. Il ventilatore da pavimento, penzola da uno stelo di alluminio instabile, come la testa di un impiccato.
Mopti è a dodici chilometri da Sévaré. La si raggiunge percorrendo una strada rialzata tra i campi e le risaie che si allagano durante la stagione della piogge. La città sorge vicino ai fiumi Niger e Bani. Qui i barconi salpano per Timbuctu, quando il fiume è in piena, e per i villaggi posti nelle rive sabbiose di fronte alla città: villaggi di capanne tondeggianti, villaggi di profughi ed altri ancora occupati dai tuareg. Vicino al porto la costa degrada acciottolata verso la riva ed in questo periodo è occupata da un mercato giornaliero.
Blocchi di sale luminescente trasportato dal deserto… La grande moschea non è visitabile, e i perimetri della costruzione sono affollati dalle guide locali. Mercati e caldo. La strada è macchiettata da abiti della festa, bubu e magliette occidentali strappate.
Mimetismo umano, e i disperati assumono il colore delle povere cose che vendono. Al ciglio della strada i richiami e i saluti di bimbi che, con i secchielli di plastica legati al collo, vanno in cerca di offerte. Di fianco al fiume fangoso il viale alberato è un miraggio che si allontana dal caos. Una mucca è affogata nel fiume, una zampa esce dall’acqua e indica il cielo. Le corna sbucano un poco dalla superficie dello specchio fangoso, una pinasse a vela transita senza produrre onde, le donne sulle rive lavano le stoffe per poi sdraiarle nella polvere ad asciugare.
I bimbi si tuffano di continuo. Le mandrie. I passaggi di persone e barche… i giochi sono muti. La distanza ha congelato i suoni.
Alla sera il tramonto colora di un arancione luminoso. L’interno della stanza ha una temperatura insopportabile. Dormiamo nel giardino polveroso del Campement Oasis. Il sonno arriva con difficoltà dopo le battaglie contro insetti e zanzare.
Mopti – Djenné.
Il bus incontra il fiume Bani, ed una chiatta trasporta i mezzi di trasporto all’altra riva, noi proseguiamo guadando il fiume. Qualcuno immerge un bicchiere nell’acqua e beve, intorno le secche arenano i barconi e le mucche sono pigramente sdraiate nel verde delle rive. Seguiamo la fila che guadagna la riva di fronte: tuareg elegantemente vestiti, donne fulane, africani con le radioline che ascoltano notiziari e musiche locali; il blues del deserto. Il taxi de brousse ci scarica di fronte alla moschea di fango, costruita seguendo lo stile tradizionale del Sahel, ed ora che la vedo realmente sembra improvvisamente piccola.
Moschea di sabbia e legno - indurita dal sole – trasformata in marmo…
Djenné un tempo era il punto di riferimento per i commerci al sud del Sahara, la città non ha cambiato molto del suo aspetto originario. Le guide locali sono appostate a caccia di turisti, glissiamo enfatizzando oltremodo la stanchezza. Chez Baba è un recinto di famiglia trasformato in campement. Al centro dell’aia c’è il pozzo del quartiere con l’inevitabile via vai di ragazzine con i secchi. I ragazzi preferiscono ronzare intorno ai turisti per farsi offrire una birra. E’ l’una del pomeriggio e l’atmosfera è rallentata sino all’immobilismo. Il “bersò del buon riposo”, nome di battesimo improvvisato, è popolato da piccioni e agama.
Mitica - Santa Djenné …recita una preghiera.
La città vecchia è un susseguirsi di case demolite e canali di scolo. Le costruzioni più antiche appaiono restaurate, e in alcuni quartieri l’architettura originale è stata importata dai mercanti che arrivavano dal Marocco. Le case e i magazzini sono in stile moresco, altre in mattoni di fango a più piani con colonne di legno e portali scolpiti. Alcuni palazzi hanno le imposte di legno intarsiato e incisioni di motivi arabi. In uno slargo, un gruppo di donne vestite a festa sono sedute a terra in due file, una di fronte all’altra. Le loro voci sono pigolii di piccoli uccelli. Una macina a scoppio è al lavoro in una strada e sfarina il miglio per il mercato di domani, nel frattempo i contadini restano in attesa del loro turno, con i sacchi appoggiati a terra. La preparazione è continua, e così pure il fermento. Domani è lunedì, il giorno del mercato settimanale…uno tra i più famosi dell’Africa Occidentale.
Dal tetto osservo le terre d’ombre notturne. I pinnacoli della grande moschea e delle case in stile arabo - variano il panorama dei tetti piatti - dei cubi marrone di una monotonia a volte angosciante.
Il mercato viene allestito molto lentamente. Il ponte all’ingresso della città è percorso da una moltitudine di persone proveniente dai villaggi; arrivano a bordo di carri, motorini, taxi de brousse, moltissimi a piedi. I carri straboccano di sacchi di farina, stuoie intrecciate, calabasse di ogni dimensione. Transitano intere famiglie con piccole mandrie di pecore e capre, da giorni sulla strada. Passi, chilometri, giorni di cammino, piedi scalzi e asini bastonati violentemente per raggiungere la città prima di altri.
Mercato di polvere - mercato di scambi. Gli odori si mescolano alla sabbia…
I piccoli bimbi si impossessano della mia mano e mi sorridono in silenzio. Le donne sono seriamente comprese nelle pratiche di compravendita. Faticano di continuo, con i figli legati alla schiena, lavorano e masticano per spezzettare finemente il cibo per i figli più grandi. Sistemano cumuli di manghi e allattano, impilano stuoie e cullano. Giovani donne, forti come solo l’abitudine alla fatica può far diventare, hanno ancora la voglia di essere belle con i capelli acconciati da perline, da fili colorati e vestite da reine du sable…i piedi tatuati con l’henné per i giorni di festa e le grandi cerimonie, anelli d’oro al naso, e orecchini enormi delle donne fulane…
Donne emancipate anche nella fatica.
Gli arrivi continuano, le mercanzie aumentano il volume della piazza e fanno apparire la moschea sempre più piccola. Il grand marché è quasi al completo. La fatica, il patimento e i sorrisi contagiosi, sono le cose che nessuno può acquistare.
I colori e la folla aumentano ed aumenta il brusio che si allontana sempre di più dalla piazza e oltrepassa la città vecchia. Alle tre del pomeriggio il sole è ancora fortissimo, ogni singolo passo alza la polvere che moltiplicata per migliaia di piedi, provoca un alone flou offuscante.
Giorno di festa e dolore collettivo. Terra di Allah, riti animisti e il pericolo della malaria. Un cumulo di pesce secco è appoggiato su di una stuoia; scheletri fossili, blocchi di minerali, noci di cola, sabbie colorate, spezie e il sale del deserto. Le frittelle di farina di miglio sfrigolano dentro padelle a coppe incavate.
Il sole si è scomposto in piccoli aghi che fanno sanguinare. Solo la notte può lenire il dolore e trascinare con sé la luce di Venere -bassa all’orizzonte…
I rumori inseguono rumori. Bong – stub. Il miglio nel mortaio. Sfish è l’apertura di una bibita sognata per ore. Bee – ray – poh: suoni del dialetto sangha…e mi perdo tra il miele e il caldo. Say-oh è il sole metallico che fa scricchiolare la terra indurita. Bah – bu sono timbri di voci bambara. Le ombre si uniscono tra i sacchi di polveri magiche. Ah – jang. Manghi e banane cuociono al sole.
Inspiro il nulla e divento un’altra semplice creatura del silenzio…ed in questo silenzio resto in attesa.
Alle nove dovrebbe partire un mezzo pubblico per San, ma gli orari sono incerti. Il vento della notte ha raffreddato le ossa, e certamente quest’umido che regala un’idea di fresco non durerà per molto tempo.
La piazza oggi è sgombra di persone e banchi. I ragazzini, con i secchielli di plastica, vanno alla ricerca di semi o altre cose cadute dalle sponde dei carri. Ispezionano i cumuli di sacchetti di plastica, raspano il patchwork di detriti e spazzatura. I taxi de brousse per San sono pieni di gente, inizia l’incertezza di una partenza che pensavamo molto più semplice, in realtà è tutto complicato. Scegliamo l’alternativa di andare sino al carrefour, e da lì proseguire per San. Sul camioncino caricano a forza una ragazzina nascosta da una stoffa. Non riesco a vedere il suo viso. Dietro di lei una folla rumorosa la segue, la tocca, qualcuno sembra volerla mandar via, mentre altri la trattengono. Non capisco se è un momento di gioia oppure di dolore, è un aspetto insolito questa agitazione perché difficilmente le persone alzano la voce. E’ una promessa sposa, oppure è stata scacciata, sarà forse una “petite serve” che cambia famiglia. La ragazza ha la piena solidarietà delle altre donne sedute. Il congedo è misterioso. Ripercorriamo la strada al contrario e traghettiamo di nuovo sul fiume, il motore della chiatta stenta a partire. C’è sempre qualche cosa che non funziona: un motore che non parte, una luce che non si accende, una porta che non si chiude, l’acqua che non scorre, un sorriso che non fiorisce nelle terre di sudore.
Nel taxi de brousse una giovane donna allatta il figlio, il bimbo ha legato al collo un amuleto porta fortuna; alla nascita i genitori bruciano una pianta che si chiama “wolo”, sotterrano la placenta e regalano un amuleto da portare tutta la vita. Il bimbo è aggrappato, con le piccole dita, al lungo sacco del seno. Io resto artigliato ad uno dei tubi del tetto per non spaccarmi le ossa. Con la testa china, tento di proteggere la sclera arrossata degli occhi dalla polvere.
San del Deserto; così potremmo chiamare questa città. E’ la vera provincia tranquilla, dove i ritmi sono rilassati e i sorrisi frequenti e disinteressati. Non c’è nulla da visitare. Non è una meta turistica, e qui ci si ferma solamente per andare a Bamako oppure nel Burkina Faso. La moschea è immersa, e quasi invisibile, nella frescura delle acacie frondose. Il nulla. La familiarità. La normalità. Mangiamo un mango con dei bimbi silenziosi e lo sguardo lontano.
Le strade sono ossessioni interminabili sotto il sole.
Ci allontaniamo verso la periferia. Incontriamo Richard; il ragazzino ci mette un po’ in apprensione e continua a snocciolare nomi e date in francese: la data di nascita, l’età dei genitori, l’anno del suo arrivo in città…è inesauribile.
Parla di un’ipotetica famiglia a Bankass, e aggiunge che è allievo della scuola coranica di San. Parla in un modo strano, ed il reale si confonde con il gioco e forse, penso, con la pazzia. Ci accompagna fuori città e diviene una presenza inquietante, non chiede nulla di preciso, ma forse è alla ricerca di una cosa che non possiamo dargli. L’assistenza totale, una figura parentale, un genitore, una madre forse. Una penna e qualche spicciolo interrompono l’inseguimento e il mio imbarazzo. Lascio in sospeso l’ipotetica pazzia e la sua certa sfortuna.
Campement Municipal.
Le stanze hanno le sbarre alla finestra e lo squallore generale è all’apice. I colori delle pareti hanno subito trasformazioni chimiche nel tempo, davanti alla stanza c’è un’aia di cemento assolata, con tavoli rabberciati e sedie rubate all’arredo di una sala d’aspetto d’ospedale degli anni cinquanta. Il resto è vuoto. Migliora solo un poco di notte. Il televisore trasmette il telegiornale in francese e poi lo stesso telegiornale ripetuto in lingua locale. Nel buio si aggirano figuri che si disperdono nelle tenebre circostanti. Ora l’aia-bar si è animata e i tavoli sono occupati da coppie e ragazzi soli. Durante la notte lasciamo la porta spalancata, ma non riusciamo a recuperare neppure un refolo di vento.
San – Sikasso
Il viaggio per Sikasso dura sei ore. Pigiati e sudati. L’arrivo assolato ci porta al Mamelon, un vecchio albergo pretestuoso, con una splendida doccia funzionante e acqua a volontà. Le gioie sono poche, e quelle poche le assaporiamo con calma. Usciamo alla ricerca della stazione dei bus per il Burkina Faso. L’ambiente circostante è decisamente cambiato, è quasi campagna, con gli orti e alberi secolari al lato della strada. Siamo rimasti senza soldi e le banche sono chiuse. Mi ritorna in mente Gianni Celati nel libro “Lettere Africane”; la sua angoscia di non poter cambiare i soldi. La nostra situazione è al momento la stessa. In città non accettano i franchi francesi. Gli autobus sono lontani dal centro, e la via è martellata dalla polvere alzata dai camion che la percorrono senza rallentare un minimo. Intorno il panorama è argilla e verde, finalmente un tono di colore diverso, una natura più socievole. Sikasso è il confine per il Burkina e la Costa d’Avorio…geografie lontane e misteriose: metropoli sul mare e foreste impenetrabili, nell’universo nero dell’Africa Occidentale.
Spostamento d’uomini, la continua peregrinazione da un mercato all’altro, con pacchi e portapacchi dove sono legate le capre sotto il sole. Un auto, con la carrozzeria distrutta, cigola sulla strada e sul tetto trasporta pezzi di carne sanguinolenta. Movimento continuo di popoli, famiglie intere e tristi ragazzi solitari che sorridono timidamente. Ad ogni fermata le urla, i colpi, gli aggiustamenti e i motorini ronzano carichi di fascine di legno e sacchi informi. Ogni cosa è riutilizzata all’infinito, artigiani improvvisati al ciglio delle strade riciclano bicchieri di plastica per fare guarnizioni, spessori, rattoppi.
Chissà che forme assumerà l’anima dispersa.
Il griot canta la notte.
- La luna tratteggia l’ombra degli alberi smossi dal lieve vento notturno. La luce rarefatta dei raggi sonnolenti - getta argento e corallo sulla sabbia. Le tenebre sospingono a contemplare i campi di battaglia sopravvissuti al giorno afoso. E’ un regalo divino - la notte. Presagi e sogni sono in arrivo - cullano la mente allontanandola dai vasti campi insanguinati dal lavoro. Luna - in questa notte priva di rose - profumi ugualmente di primavera. Luna attesa e maledetta. Spiraglio di salvezza - nel tetro mare del cielo. Sbrigati in fretta ad imbandire gli astri a festa - e portami il sonno.
Il griot canta il calore. - Gli alberi riarsi dal calore - in una vita polverosa. Io ti posso capire - riarsa pianura - mentre urli tra gli steli morti l’orizzonte distante. Io ti amo sconfinato spazio – quando resti immobile nella fissità che congela il vuoto.
Antri – rifugi notturni. L’incanto del buio… Sogno dell’hogon.
Nel sogno le parole: - non essere troppo affamato-. Forse questo è tutto, e deve essere normale così. Forse ogni cosa che accade è già decisa da qualche cosa di supremo. Mi chiedo perché non si presenta palesemente. Si nasconde per gioco, oppure mi spia e osserva la mia vita. La risultante dei suoi esperimenti. E nel sonno arriva e dice: - non essere troppo affamato.
Dammi ascolto - sole tormentato - non ti abbandonare all’eclissi eterna.
Sogno della tempesta di sabbia e dell’inferno.
Mi gratto nell’attimo finale, mi tocco l’orecchio, tiro su con il naso. La nube di un esplosione avanza. Il fumo mi raggiunge ed io mi gratto. Sorrido, ghigno, rido sguaiatamente. Mi tormento un incisivo con mezzo fiammifero desolforizzato. Vivo quest’attimo come si attende la pioggia. Come si assiste al tramonto. Il resto non è nulla. Distese a perdita d’occhio di sabbia salata. Osservo le inutili fughe e vivo nel grande rammarico che nessuno, in tutti questi secoli, non ha mai creduto veramente all’inferno. Eppure l’inferno era a due passi.
Sogno del sudore.
Il caldo insopportabile ha sferrato un colpo alla mia nuca. Mi giro di scatto, provo ad afferrare questo peso estraneo. Mi sembra di averlo in pugno, ma la mano sudata lo fa scivolare via. Aspetto un secondo, ne aspetto due, ne aspetto tre, ne aspetto quattro…non succede nulla, forse sto sognando.
Sogno del silenzio.
E’ tutto silenzioso ma non morto. Osservo il mio corpo dall’alto gettare ombre sui i muri di fango. Lo spazio intorno è immoto. Il mondo è completamente silenzioso. Improvvisamente il vergognoso rumore di una chiave girata con forza nell’ingranaggio della porta: -entra pure, ma scuoti dai tuoi piedi la polvere del caos-.
Sogno trasparente.
Ora devo andare. Mia madre tende le braccia verso di me. La palla rotola e rimbalza impazzita. Mi attraversa come fossi etereo. Trasparente sogno.
Sogno del dolore.
Dopo appena tre passi, ecco la detonazione e poi centinaia di microesplosioni interne. Nella schiena si apre una ferita, sento il sangue caldo defluire. A capo chino, nel dolore intenso, provo a rialzare la testa, ma pesa come sei generazioni di uomini grassi. L’aureola di caldo è diventata dolore.
Sogno del sogno.
Ritorno indietro nel tempo, nell’infinita attesa dello stesso taxi de brousse. Nelle terre prive di vento sono stramazzati al suolo i miei sogni. Desidero un mondo dove non esiste il dolore, né la sete e neppure la fame. Voglio ritornare in luoghi dove si ritrovano, come vecchi amici, i sogni di ieri e quelli di domani.
Tramonto di Sikasso.
Il cielo si colora di rosso mattone e una magia argillosa dipinge ogni cosa. Le stecche al neon si accendono sulle porte e vicino ai tavoli dei giardini. I generatori dei campement producono una tosse irrefrenabile che si lacera in lamento lasciando cadere il buio generale.
Partenza per Bobo-Dioulasso.
Partenza alle otto di mattina: centosessanta chilometri, innumerevoli posti di polizia dove i funzionari sono incatenati dentro divise mimetiche vecchissime. Una foratura scompagina l’interno stipato del bus. Ventitré persone fuggono tra gli alberi alla ricerca di qualcosa da bere, o meglio di qualcosa che racchiuda dell’acqua; proviamo con gli alberi di mango, poi un carrubo, ed in fine la miracolosa scoperta di una pianta di anacardi, con i frutti rossi simili al peperone ed un seme arricciato. Ogni frutto contiene una quantità d’acqua inaspettata, lo scopriamo grazie ad uno dei fuggitivi che si è inoltrato nella vegetazione.
Burkina Faso.
Sei ore di sudore. Imprigionati dentro un camioncino arroventato, in una prova di resistenza che sembra senza fine. Poi il miracolo di Bobo. Una doccia al Campement “Le Pacha”, nescafè espresso e acqua potabile a volontà. L’oasi del campement è gestita da una coppia di francesi ed è il regno della gentilezza e della pace.
Le fatiche del viaggio diventano un ricordo. La calma, l’accettazione di un popolo che attende ogni cosa non con rassegnazione, ma con tranquillità. Le risate sono squillanti e l’aperta ilarità africana è contagiosa, è suono di vita. Le occhiate curiose ad ogni sosta penetrano i vetri gialli di polvere, attraversano gli abiti occidentali, indugiano sulla nostra pelle bianca, e poi gli sguardi sembrano addentrarsi nel corpo e sondare l’anima. Questo bimbo, che non mi stacca gli occhi da dosso, non riesce ad immaginare il mio mondo… il pianeta di un’altra galassia. I ragazzini, alle fermate dei minibus, vendono bevande colorate, uova sode, arance legnose, e vigilano pignatte di alluminio ricolme di carne stufata che continua a cuocere sotto il sole. C’è sempre qualcuno che compra, scarta, succhia, morde, sputa, oppure si pulisce i denti con i bastoncini di legno. Le labbra, il contatto orale, il bisogno primario. Intorno il vuoto della pianura non ricorda più gli animali feroci, le magie delle migrazioni.
I ruggiti hanno abbandonato il deserto per rifugiarsi nelle foreste lontane…
Bobo – Dioulasso: il nome significa “casa dei bobo e dei diula”, le due etnie presenti nella zona. E’ la seconda città del Burkina Faso. Bobo è una città molto vasta, ma il centro è visitabile a piedi in poco tempo; la moschea, in stile sudanese, è contornata da alberi frondosi e trafitta da centinaia di tronchi di legno, quasi avesse un’anima d’albero. I pali formano un’impalcatura stabile per restaurare la struttura. Il museo etnografico provinciale è minuscolo, caldo e non molto interessante. Gli strumenti musicali e le maschere delle cerimonie sono ricoperti dalla polvere. All’esterno, le costruzioni disastrate, sono l’esempio delle tre architetture abitative della zona: una casa di banco dei bobo, un’altra capanna fulana e un complesso abitativo a due piani dei senoufo. Il tutto è distrutto dall’incuria e abbandonato a se stesso. Il cuore della città è il Grand Marché, il mercato affollatissimo che si disperde in un area molto vasta. Una parte della città è occupata dal vecchio quartiere popolare di Kibidwe: un’insieme di vecchie case, tra cui la casa più antica chiamata dei “diula”, i fondatori della città. Gli artigiani e le famiglie al fiume, che è più una pozza che altro, animano le strette viuzze nel rione insieme ai griot, fabbri, animisti e mussulmani… il rigagnolo sporco ospita i pesci sacri, poco lontano le donne lavano abiti e piatti tra gli scarichi che segnano la sabbia di vene nere.
I viali si intersecano in un bazar continuo, le piazze sono agghiaccianti spianate asfaltate. Le strade dipartono dal centro città e penetrano quartieri-paesi, dove tra la terra argillosa ritrovo i ritmi delle piane desertiche del Nord. Quartieri di meccanici e di ragazzi che spingono carretti con i bidoni di benzina: sono i distributori viaggianti. Nelle strade ammassi di ricambi d’auto, cumuli di scarpe e borse usate, sarti, impastatori di mattoni. I barbieri sono pubblicizzati da grandi cartelli pitturati, una storia a fumetti dei possibili tagli alla moda. Un gruppo di donne, sedute a terra, friggono tortine di miglio e spiedini. I perdigiorno sono appostati alla ricerca di turisti. La stazione ferroviaria è una cattedrale nel deserto ed è costruita seguendo l’architettura del Sahel, sembra una moschea di un bianco abbagliante, c’è solo un treno senza orari precisi che da Abidjan, nella costa d’Avorio, arriva a Ouagadougou.
Burrasca serale. Incredibilmente piove. Piove sopra le capanne sperdute. E piove sulle case abbattute dopo la morte del capo famiglia. Il figlio deciderà se ricostruirla nel solito luogo. Cumuli di sabbia, paglia e mattoni. Piove sopra i tronchi d’albero della casa implosa. La pioggia è un veloce intermezzo. La città ben presto si ricompone in cubi di terra, strade senza ombra, polvere che s’alza in vortici e rumori svenuti. Neppure i cani o le mosche si muovono. Incontriamo stranieri innamorati di quest’Africa severa: la signora sarda insegna la lingua inglese in una scuola privata, altri francesi sono in città a seguito dei progetti di solidarietà, qualcun altro gestisce negozi e locande.
La radiolina è un mito da queste parti; spesso rotte in più punti e incollate alla peggio, sono tenute insieme da spago legato e le antenne rabberciate con il nastro isolante. Ronzano sempre e le continue scariche elettrostatiche accompagnano notiziari in lingua francese e musiche locali.
Un’altra alba - sudata pure questa. Un altro giorno di allenamento alla vita.
…nel sud del paese, diretti a Banfora.
La strada discende in una piana che a prima vista sembra un lago, in realtà sono i campi coltivati a canna da zucchero. E’ un altro mondo; la collaborazione con la Cina ha importato modi di coltivazione e organizzazione del lavoro cooperativo nelle risaie. Le piantagioni irrigate disegnano un ambiente totalmente diverso dal resto del paese. L’orizzonte verde è un fenomeno stupefacente.
Dopo un primo momento di scoramento dovuto al caldo e alla desolazione di quello che altro non è che un villaggio un po’ più grande, contrattiamo un driver per raggiungere le cascate di Karfiguela. Alberi secolari e frescure inaspettate. Il fiume ha scavato la roccia della piccola falesia e formato laghetti e cascate. Rincuorandoci a vicenda sull’assenza della bilharzia, ci immergiamo colpiti dallo scorrere dell’acqua fresca. I lavoratori, di ritorno dai campi di canna da zucchero attendono i camion diretti in città, dopo una giornata di fatiche sotto il sole.
La speranza ha modificato la natura. Il sogno - la realtà. Gocce di sudore – linfa che stilla.
Matrimonio al tramonto, festa di colori.
Le donne passano dalla fatica alla gioia con una naturalezza che disarma. Una signora anziana, vista la mia incertezza, mi chiama assicurandomi che se voglio posso fotografare.
Vestiti colorati, acconciature dei capelli come sculture di legno, i bambini si avvicinano per farsi fotografare, musica di percussioni, xilofoni e flauti africani suonano senza sosta. Semplici passi di danza e poi regali di stoffe sulle spalle della sposa, semi di miglio sul viso sudato e monete appoggiate alla fronte, quindi recuperate da un amica al seguito. Un cerchio ondeggiante ed intorno famiglie sedute sulle sedie in strada. Colore. Calore. La danse des femmes d’Afrique…
Djembé - potere della musica.
Non fermare il tuo assolo ora - il mio piede ballerino è impazzito. Batte ripetutamente al di fuori del mio corpo - della mia volontà – incontrollabile. Se ti fermi ora - torno a casa zoppo.
La notte è buia nelle strade di Banfora, le poche luci dei minuscoli spacci alimentari segnano sommariamente l’ossatura di una città-villaggio. Gruppi di bambini giocano a calcio balilla; i biliardini mastodontici di legno sono sotto i rari lampioni. Le famiglie sedute al ciglio della strada chiacchierano con un fil di voce. Qualcuno dorme vicino alle cunette di scarico. Dormono profondamente incuranti del luogo dello svenimento. Un posto vale l’altro nella ricerca di fresco; anche l’aria spostata dal transitare di un camion è sollievo.
La notte si dipinge addosso e nasconde le cicatrici rituali dei visi… Da Banfora al lago di Tengrela.
Gli ippopotami tanto decantati, in realtà sono rari avvistamenti. La strada argillosa costeggia la campagna lavorata, risaie in secca e villaggi. Una fila ininterrotta di persone percorre la strada diretti in città. Il lago è contornato da boschi di manghi e palme da cocco rachitiche, alberi di kapok e céibe africane. Il silenzio assoluto è spezzato dal rumore delle foglie, dalle mucche al pascolo e uccelli colorati. Camminando stacchiamo i frutti del mango ed il dolce mieloso per un po’ di tempo disseta. Nel lago le piroghe salpano le nasse. L’aria è immobile, è l’una del pomeriggio e il sole si accanisce contro la terra. Le foglie secche delle palme, smosse dal vento caldo, producono un rumore di scheletri danzanti.
Viaggi interiori nelle terre vuote. Un passo - ancora un passo. La terra si piega al passaggio - si allea con i piedi - sollecita a muoversi. Crea il ritmo. Completa i destini.
Salutiamo il tassista con una bevuta dei succhi locali: tamarindo, canna da zucchero, zenzero e il bisap, una bevanda estratta dalle foglie di ibisco. Continuo a stringere piccole mani, fantasmi di bimbi, moccio e occhi sorridenti…
Banfora – Bobo – Ouagadougou.
Dalla piana verde sorgono, come isole misteriose, una serie di colline e nello spazio enorme un bimbo lega una fascina di legni sul dorso di un asino. L’autobus corre veloce: gli scarti, le frenate, le uscite dalla carreggiata. Viaggio in un pianeta proibito. Il caldo crepita fuori dal finestrino rotto. Un palazzone marrone e sgraziato appare sopra un mare di case-cubo; la capitale Ouaga sonnecchia con quaranta gradi all’ombra. Piazze anonime, le statue di una semplicità disarmante sopra piedistalli di cemento e sassi, segnano il cuore delle rotatorie. Il caldo è il fulcro di ogni azione. L’esodo dalle campagne ha dilatato la città disperdendola in quartieri-villaggi, il centro è segnato dalla grande struttura del mercato, posta in una costruzione “moderna”, e la casa del partito è diventata la casa del popolo. Più famoso è sicuramente il festival cinematografico panafricano conosciuto come FESPACO, e ha luogo in città ogni due anni.
Alle cinque del pomeriggio la città si colora di nuvole polverose e le folate di vento impastano l’aria. Il cielo diventa rosso e una piccola tempesta vortica tra le scarne piante del giardino. I fiori della buganvillea cadono a terra e gli uccelli annunciano l’allarme generale che anticipa la notte.
Fattezze – sembianze - ricordi di vite composite. Residui – resti. Rimasugli – briciole d’anima.
Il coraggio di quest’uccello canterino andrebbe premiato. Che cosa lo spinge a produrre un suono tanto dolce? In questa natura immaginavo uccelli rochi e cascate silenziose. Pensieri di sabbia. Anche baciare è fatica disumana. Sedimentazioni di millenni in un mondo al contrario. Le presenze umane si materializzano all’improvviso, immobili ombre in luoghi inospitali: - Ehi blanc ca va bien ?-.
Partiamo da Ouaga diretti a Gorom-Gorom, per visitare il mercato del giovedì: uno dei mercati più affascinanti del Sahel, al confine con il Niger. E’ mercoledì. Decidiamo di arrivare a Oursì, quaranta chilometri oltre Gorom-Gorom, passare la notte e domani andare al mercato. La strada da Ouaga diviene pista transitabile, poi solo sabbia. Il tracciato misterioso taglia la zona desertica e si avvicina alle Grandi Dune. Acacie e massi di granito, sabbia e villaggi sperduti di tuareg, bella, fulani e songhai…donne al fiume e cammelli lungo la strada. Continue immagini fuori dal mondo, un mondo lontano. La duna appare con un colore arancio intenso; è l’ora del tramonto. Il fuoristrada mugghia, s’impantana, riparte.
L’autista ha la pessima idea di chiedere se qualcuno vende i mortai di legno e in poco tempo tutto il villaggio risale la duna trascinandosi dietro i vecchi mortai. Nella confusione che si è creata, tentiamo di spiegare che non sono per noi, e abbandoniamo l’autista alla contrattazione e al carico. Un gruppo di ragazzi si avvicina e ci propongono un tè nella serata, davanti al fuoco. Decidiamo di dormire sulle dune. Nel buio arrivano i ragazzi del villaggio con tutto l’occorrente per il “tè nel deserto”: legni per il fuoco, tè verde, zucchero, caraffe e acqua del pozzo. Durante la preparazione parliamo dell’avanzamento del deserto, del continuo tentativo di arginare le dune, e dell’emigrazione dei giovani da quel territorio inospitale. I ragazzi hanno organizzato una piccola associazione locale per favorire la cura e lo sviluppo del villaggio.
I ragazzi in silenzio si inoltrano nel buio - il fuoco resta acceso - l’umido sale dalla sabbia - la luna è ovattata da nuvole cotonate. L’abbaiare insistente di un cane - accompagna i miei sogni agitati.
Il risveglio del mondo al confine del mondo.
Partiamo per il mercato di Gorom. Perdiamo la pista più volte, poi seguiamo una fila di tuareg diretti al villaggio. Il Mali e il Niger sono a due passi, oltre quel nulla davanti. Prendere una pista qualsiasi vorrebbe dire disperdersi per sempre, nella fantasia monotona di una natura severissima. Il mercato è all’inizio della preparazione, mercanti e acquirenti stanno arrivando da ogni luogo e le strade sono percorse da cammelli, asini, mucche. La gente trasporta chincaglierie, stoffe, tappeti vegetali, sacchi di foglie di eucalipto. Calabasse sulla testa, giare di terracotta, contenitori di plastica, secchi di alluminio, fascine di canne, legna da ardere, animali macellati al sole. L’argento di collane e bracciali, orecchini e conciature con fili colorati, donne elegantissime, tuareg con la spada, caffettani, litham, zucchetti arabi.
Il griot canta il ricordo di Marvis.
Sono figlia del mercato di Gorom-Gorom, una creatura partorita in un cesto, nella polvere che sconvolge il confine tra il Burkina Faso, il Mali e il Niger. In un punto minuscolo del mondo dell’assenza. Il mercato africano è l’incontro di gente disparata che mescola cammelli agli asini, i sari gialli a tuniche arabe, i bracciali d’argento al pesce secco. E poi la polvere, il deserto, il sale. Mio padre ha incontrato qui la futura sposa, la fanciulla che divenne mia madre. Rivivo la scena: lei avanza avvolta nel suo abito coloratissimo e i capelli sono una complicata scultura, un vezzo costato ore di preparazione. L’uomo la vede avanzare imponente e leggiadra al contempo, e immagina le proporzioni del corpo studiando le pieghe del vestito luminoso. Sospira pensando al seno pieno, alle gambe lunghe e ai fianchi promettenti. Un’apparizione in mezzo al fango. Lo sguardo potrebbe assomigliare al pastore che valuta un gregge, ma in realtà non è così. Il battito accelerato del cuore tradisce la classica freddezza di un allevatore al mercato delle capre. La donna è nera come un frammento della notte più nera…il luccichio degli orecchini focalizza il riverbero del sole. La collana d’argento scivola altalenando sulla pelle liscia, il collo è perfettamente ritto, a mantenere in equilibrio una fascina di canne d’acqua al di sopra delle spalle immobili. Solo gli occhi non perdono nulla di quello che accade intorno, guizzano da una parte all’altra, dai cesti di manghi e polveri colorate alle stoffe, dalle donne che vendono carbonella al macellaio che squarta un capretto sotto il sole. Il movimento oculare ha un attimo di incertezza, non è ancora certa ma quel ragazzo la sta guardando insistentemente; è seduto su di un carro e aiuta una donna anziana a riporre gli acquisti sopra il pianale. Il ragazzo si avvicina al cavallo, accarezza il collo sudato dell’animale senza smettere un istante di guardarla. Rivedo quello sguardo, e a volte mi chiedo se incontrerò il mio destino sotto questo sole che frantuma i mattoni di fango, chissà se ripeterò l’esperienza di mia madre. Chissà se il deserto mi porterà fortuna, giovedì prossimo.
Sulla strada del ritorno ci fermiamo a Bani. Sulla collina piatta le moschee risaltano come lance puntate al cielo, i minareti fuoriescono dalla base quadrata di pietre e fango. La moschea centrale è contornata da un alto muro merlato. La maggioranza della popolazione, in questo minuscolo villaggio, è mussulmana, e i ragazzi giovani vicino alla moschea leggono i passi del corano scritto su tavolette di legno. Il caldo è pungente e il villaggio giace sonnolento protetto dai luoghi di culto. Alcuni templi islamici sono in ricostruzione, e con questo caldo il restauro durerà secoli.
Vicino Bani, lungo la strada, un gruppo di uomini e di donne sono intenti a scavare e setacciare sabbia e sassi, poco più in alto una glabra collina è forata in più punti da pozzi di scavo. I minatori sterrano a una profondità di quaranta metri per cercare l’oro, con metodi preistorici. Nei volti bianchi di polvere non manca un sorriso rivolto alla curiosità dei bianchi di natura. Le donne, abili a setacciare il miglio, qui si sono attrezzate al lavoro di spolvero della terra alla ricerca dei diamanti. I grandi giacimenti hanno interessi anglo-americani…e in questo nulla qualcuno si arricchisce.
Nella luce serale i baobab diventano soggetti ricercati. Non sono mai isolati, appena ti fermi per fotografarli da luoghi misteriosi arrivano bimbi nudi e curiosi – neri folletti ignudi – e mentre il sole scompare tra le nuvole e la polvere, a un metro dall’orizzonte reale, i colori si dissolvono nel fumo del traffico della città che si avvicina. Neppure i sorpassi incauti mi strappano dal tacito osservare. Il liquido di fissaggio è al lavoro, reagisce alla giusta temperatura, colora di tatuaggi indelebili le pareti di ogni organo interno. Esternamente sono una bianca apparizione a centodieci l’ora.
Ouaga.
Una signora francese, in un negozio protetto da cancellate, vende costosi souvenir per i turisti danarosi e le autorità di ogni stato. Con orgoglio annuncia che possiede “porte dogon autentiche” e altri pezzi antichi. Lo spolpamento delle tradizioni è in atto da molti anni.
La dispersione - l’annullamento - i pensieri riempiono il vuoto. Il nulla è avvolgente - ondeggia con le spalle immobili e si aggrazia di colori accesi.
Rue De La Libertè.
La bicicletta avanza. Una ragazza, con il figlio annodato alla schiena, ha una pentola di frittelle di miglio legata al portapacchi. Pedala lentamente diretta al Grand Marchè. L’ombra cigola sulle ruote non perfettamente concentriche, e la testa del bimbo ritma la pedalata con la precisione di un metronomo. Il fischio del treno fantasma è un rumore fuori luogo e la prima sigaretta del mattino ha il sapore della polvere.
Il griot canta il destino africano.
- Nous sommes des coureurs boiteux dans un monde de sprinteurs olympioniques -.
- Siamo corridori zoppi, in un mondo di velocisti olimpionici -.