Ronzio. Ritmo d’eliche immaginarie. Una spinta – un’attrazione magnetica. Ed ora decisamente in volo attraverso l’oceano per una nuova terra…
Dall’aeroporto Aurora di Città del Guatemala viaggiamo insieme a Raul diretti ad Antigua.
Le basse case nella periferia della capitale mostrano, oltre alle scritte pubblicitarie dipinte sopra i muri, reti e inferriate di protezione murate alle porte e agli sportelli di uffici pubblici: -“I commercianti sono ossessionati dai ladri” - aggiunge Raul.
Il buio avvolgente spadroneggia sulla città; in basso alle nostre spalle, risalendo le colline, appare una distesa di cubicoli debolmente illuminati.
Parlando con Raul scopriamo che la città vive una continua espansione del tutto casuale; la forte immigrazione dalle campagne ha creato un regno di case fatiscenti, un mondo parallelo popolato esclusivamente dai poveri.
Viaggiamo sulla storica Panamericana, annunciata dall’autista con un tono di soddisfazione nella voce, una vena sempre trafficata che ossigena ed uccide il sud di questo continente. Un’arteria che ha visto transitare zucchero e vincitori di colpi di stato, Che Guevara con la sua Poderosa, invasioni di gringos e turisti ladinos.
Raul commenta con parole semplici le ragioni di povertà e sfruttamento del suo popolo; cita più volte lo sfruttamento Nord Americano delle piantagioni di caffè e dei campi petroliferi, rivela gli interessi economici del Giappone e della Corea che spremono risorse e mano d’opera, dice: - “Siamo sopra un ramo di un albero rigoglioso che nessuno ha curato ma che tutti hanno saccheggiato”-.
Le tristi considerazioni mi restano in bocca come aria fritta.
Antigua.
Il guardiano dell’Hotel ostenta un cinturone e cinque pallottole perfettamente lucidate. Il calcio di una pistola sbuca generosamente dal giubbotto di pelle nera e alzando gli occhi incontro il suo sguardo: enormi baffi neri ed un sorriso malcelato a causa del mio stupore. In questo paese “armato”, spesso incontreremo personaggi così; cinque lucide pallottole contro i malintenzionati, e per difesa personale.
Scoprirò ben presto che il cinque è anche un numero sacro.
Terra Maya e polvere da sparo!.
Dopo un giorno di viaggio ecco l’alba guatemalteca e, nella stanza 22 dell’hotel Santa Rita, ascolto da ore penetranti rumori: voci, vibrazioni di carri e autobus che corrono sull’acciottolato coloniale della città.
L’arrivo notturno mi ha lasciato la solita curiosità e non vedo l’ora di uscire in strada per rendermi conto che non è stato tutto un sogno.
La città è un gioiello dell’epoca coloniale e camminare attraverso le basse case colorate trasporta un senso di sogno quasi filmico, è come passeggiare su di un set cinematografico. Indigeni di entità diverse si distinguono dagli abiti di colori differenti e da allegorici disegni ricamati.
Le strade sono invase da un mercato continuo caratterizzato da un irreale silenzio – imbonitori riservati.
La città, fondata nel 1542, è circondata da tre vulcani: Agua, Fuego e Acatenango. I vulcani restano nascosti da fastidiose nuvole basse.
Molti sono i palazzi coloniali, restaurati e rinforzati con gabbie di acciaio, anche se il tempo e i molti terremoti hanno demolito una parte considerevole della struttura originale.
Vagare è stato il verbo della giornata e girovagando scopriamo una collina che sovrasta la città, da qui è possibile godere una splendida vista dell’area circostante. Il grigio delle antiche costruzione ed il bianco punteggiare delle chiese contrasta il verde della foresta: di fronte s’intravede il vulcano Agua. Dalla città, in basso, autobus scarburati ed esplosioni di mortaretti chiamano la notte a prevalere su tutto.
Partiamo per Sololà: non esiste un vero terminal bus, il distributore della Texaco funge da ritrovo per viaggiatori più o meno improvvisati. L’autobus ci trasporta in alto percorrendo la valle di Antigua; la strada attraversa foreste e colline quasi verticali sommariamente coltivate.
Il sole crea una colorazione brillante e mescola i campi di mais alla pinete in un unico panorama continuo - colline irrigate con il sudore…
Dopo due ore di viaggio intravediamo il lago Atitlan contornato dalle montagne.
La nostra attenzione è improvvisamente distolta dalla musica, il lamento delle trombe rimbalza sopra i vetri dell’autobus.
Il paese è in festa e nella piazza principale è allestito un mercato coloratissimo di stoffe e frutta.
Le donne maya vestono abiti ricamati con tutte le tonalità del rosso, gli uomini portano camicie sgargianti e pantaloni neri, e quasi tutti hanno un cappello a larghe tese stile rodeo.
E’ in corso una manifestazione di protesta contro la presenza invadente delle basi militari nelle terre circostanti, gli oratori a turno elencano, prima in spagnolo quindi in dialetto locale, i diritti dei contadini.
L’aria è gioiosa e battagliera, l’aspetto fiero di questo popolo è un bel segnale e mi ritorna alla mente quanto ho letto degli eccidi e delle violenze che subiscono i più poveri.
Rigoberta Menchiù raccontava così negli anni settanta: “…per noi è evidente che gli oltre 400 villaggi distrutti in Guatemala non hanno scosso la coscienza delle Nazioni Unite né quella della comunità internazionale”.
Dal 1974 la situazione non è molto cambiata, ancora oggi non si contano le distruzioni programmate dal governo e la continua negazione dei diritti umani.
Depositiamo lo zaino in un bar e ci caliamo nella centrifuga del popoloso mercato: granatine, chirimoya, succhi di frutta dolcissima e banane, sono un pasto pantagruelico da questa parti.
Sololà / Panajachel Panajachel: uno dei tanti paesi in riva al lago Atitlan. Con un pick-up scassato dirigiamo a Santa Caterina di Palopò, tra sobbalzi ed improvvise visioni dei piccoli villaggi sul lago, conversando con un passeggero scopriamo che è possibile pernottare nella casa della sorella.
Santa Caterina si rivela il vero nulla. Nessun turista e un’aria estremamente rilassata. Le donne vestono di azzurro ed il loro lavoro continuo è tessere stoffe nell’aia delle case, dove i bambini inseguiti dai cani volteggiano senza posa.
Un’ora di cammino e giungiamo a San Antonio.
Si è appena conclusa la funzione religiosa e dalla chiesa escono gli indios vestiti a festa.
A piedi scalzi discendono la scalinata della chiesa accompagnati da un silenzio irreale. Le ombre si stagliano nettamente contro i muri dipinti di bianco accecante.
Restiamo immobili, imbalsamati, ammutoliti e diventiamo parte dell’ambiente.
I bambini non tardano a prodursi in approcci più sfacciati, offriamo caramelle e saluti.
Ritorniamo prima del buio, qui si dice che la notte è molto pericolosa a causa delle bande armate. Nel budello della stanza entrano i rumori esterni: mortaretti, urla di bambini e la musica di un orchestrina approssimativa.
Con un mezzo di fortuna ritorniamo a Panajachel che mostra tutta la sua atmosfera turistica e freak.
Ci sistemiamo in un piccolo hotel concedendoci una colazione continentale, come s’usa dire, dopo giorni di pasti incerti e approssimativi. Il pane, il burro e la frutta diventano miracoli del Signore dei Maya.
Vicino alla spiaggia salpano i barconi diretti alla riva opposta del lago; intravedo in lontananza il villaggio di Santiago e la lunga attraversata permette la visione d’insieme dei vulcani che arginano le acque.
Navighiamo in una scodella di pietra lavica…
Santiago è una piacevole sorpresa; la chiesa in collina è assediata dai venditori di feticci utilizzati nelle cerimonie religiose. Compriamo banane e ananas dividendole poi con i bambini del luogo che, tra un tuffo e un altro, vengono timidamente a fare colazione. Bimbi laceri e simpatici, forse un po’ insistenti nell’offrire continuamente cianfrusaglie di ogni tipo. In riva al lago un gruppo di donne sono intente a lavare le stoffe colorate dei loro abiti, immerse nell’acqua sino alla vita adoperano mastelli di legno e bastoni.
Intorno a noi moli di attracco improvvisati. Barche e bianchi lucenti sorrisi. Sopra le pietre di fiume le stoffe sono distese ad asciugare. La natura rocciosa incombe.
Viaggiamo da Panajachel a Quezaltenango (Xela). Cullato dal bus ripensavo, vedendo le molte chiese intorno, ai danni arrecati a queste popolazioni dalla croce e dalla spada. Istintivamente scrollo il capo e sogno la salvezza…d’amore o di rivolta.
Salvezza per il popolo.
Chiese e confessioni religiose alla ricerca continua di proseliti.
Salvezza per il popolo.
La fortuna involontaria degli indios è racchiusa nella difficoltà di comprensione.
Salvezza per il popolo.
Donne fiere vanno, su strade sconnesse e colorano di rosso - d’azzurro e bianco il mondo attorno.
Salvezza per il popolo.
Popolo prostrato nel duro lavoro al ciglio delle strade.
Salvezza per il popolo.
Campi di mais piegati dall’esercizio del raccolto.
Salvezza per il popolo.
Contadini con machete e cappello di paglia - caporali con pistole e fucili a pompa.
Salvezza per il popolo.
Xela. La stanza è una cella: il letto occupa tutto lo spazio disponibile ed evadere presto all’alba è un obbligo.
Dalla stazione delle corriere, con un mezzo che solo per magia è dotato di movimento, ci dirigiamo a Zunhil. Il villaggio è tranquillo nei pacati ritmi quotidiani, la chiesa è di un bianco abbagliante. Il vulcano omonimo si staglia superbo alle spalle delle case e delle capanne, incombe su stoffe sgargianti ricamate a mano e proietta la sua ombra sopra i campi di mais.
Dalla piazza del paese partono le camionette dirette alle Fuentes Georginas e, dopo un attimo, ci ritroviamo a beccheggiare sulle strade di montagna, pigiati ad una famiglia locale che porta i figli alle fonti.
Le fuentes sono piscine di acqua bollente che fuoriesce dal vulcano, pozze e cascate contornate da una fitta jungla: felci enormi e foglie larghe più di un metro.
Sole cocente e un bagno caldo, il resto si perde nel torpore…
Al ritorno attraversiamo campi coltivati e fitte foreste dove molte sono le piante e i fiori mai visti prima, la strada sterrata vince dolcemente le colline.
I vapori sulfurei si mescolano con le nebbie serali avvolgendoci completamente.
Nella caffetteria “UTZ” di Xela è scritta a caratteri cubitali una frase di Carlos Fuentes : Isolarsi è morire, mescolarsi con le altre culture è rinascere altre volte...ed altre ancora.
Nella caotica stazione dei bus del Terminal Minerva, prendiamo al volo un autobus rabberciato per San Francisco El Alto, meta ambita quest’oggi perché è il giorno di mercato settimanale, il mercato più importante della zona.
San Francisco è uno dei tanti paesini sonnacchiosi e anonimi e ogni venerdì rivoluziona la sua calma.
Il mercato richiama migliaia di persone. Si snoda dalla piazza della chiesa formando un labirinto di banchi e mucchi: pile e montagne di varie mercanzie, stoffe ed animali, cappelli, frutta e attrezzi per il lavoro nei campi.
A parte i tentativi di furto che subiamo, naturali per la calca, la giornata si rivela un’ottima opportunità per osservare il “popolo” dei villaggi sperduti, riunito in una festa di compravendita, raccolto in un mescolio di colori che denunciano le diverse provenienze.
Ritornando verso Xela le corriere sono cariche di mercanzie e di animali stipati all’interno, dividiamo lo spazio vitale con galline e maiali.
Volti e sguardi. Non appena un volto scompare ecco materializzarsene un altro: visi tristi o austeri, volti perduti in pensieri lontani e a volte sorridenti di riso sguaiato e rumoroso. Chissà per quale ilare pensiero un popolo così sfortunato riesce a ridere ancora.
Gentili, ecco la definizione esatta, uomini e donne gentili in una delle tante repubbliche delle banane, come ingloriosamente sono definiti questi luoghi.
La processione religiosa serale, in onore del fratello della Virgen de Guadalupe, è un corteo con bande musicali e mortaretti che percorre la piazza cittadina. In coda alla processione gli assordanti gruppi elettrogeni sono spinti su carretti di legno, oppure trasportati a spalla sopra baldacchini del tutto simili a quelli delle immagini sacre - processione di Santi e di misteri tecnologici a petrolio.
Xela - Chichicastenango detta Chici. Tre ore di viaggio attraversando le piantagioni di mais.
A Chichi incontriamo Tomas, un ragazzino che trascorre la giornata ad aspettare i turisti per indirizzarli negli alberghi del paese e ci offre una sistemazione “mas barato”, come la chiama lui, che fa al caso nostro. Sessantasei queztal per notte: pensione Salvador, salvatore di chi, mi chiedo!
La stanza non è una reggia ma al confronto con quella di Xela è principesca. Le stanze monacali si affacciano ad anfiteatro su di un patio in salita, e le immagini sacre spuntano da ogni piccolo anfratto del muro di cemento.
Occhi di santi e fiori di plastica…
La colazione è a base di uova e fagioli e ci concediamo il lusso di un po’ di formaggio della zona.
Chichi è sospesa in un’atmosfera particolare, forse causata dall’aria umida e piovigginosa, l’aspetto turistico è molto pressante ma i ritmi quotidiani, della vita locale, paiono estranei alla confusione dei giorni di mercato.
Qui si svolge uno dei mercati più famosi del Sud America.
La messa all’interno della chiesa di San Tomas procede disinteressandosi completamente della confusione esterna.
La vita in strada è caratterizzata da un incessante salmodiare di venditori di pollo, banane fritte e suppliche in sordina di chi chiede la carità.
La chiesa è colma di indios, moltissimi scalzi, attenti alla funzione a dir poco atipica. Sacro e profano non hanno riferimenti precisi, ho molti dubbi riguardo a che cosa definire sacro in questa terra…sicuramente non la vita degli indios. Antichi miti si intrecciano ai Santi Cristiani.
L’incenso bruciato all’esterno, sopra la scalinata della chiesa, si disperde dall’oscillare continuo degli incensieri.
L’incenso imbruna l’aria con un umido vapore profumato.
Alcune famiglie circondano, fuori e dentro la chiesa, gli intermediari della fede: emulano il “mediatore” in ogni gesto propiziatorio, non abbandonando mai colui che misteriosamente dialoga con il Signore.
Accendono ceri votivi posti sopra le lastre di pietra scura, tra petali di rosa e alcool versato, accompagnando il rito con preghiere indecifrabili ripetute all’infinito.
La chiesa di San Tomas è ricca di addobbi: enormi tabernacoli di legno ed effigi di Santi, piume d’uccelli, cesti con frutta di plastica e tavolini come altari di riserva.
Petali di fiori e cera disciolta si fondono insieme, aromatizzano l’aria di un profumo dolciastro.
Un piccolo sentiero indirizza ad una collina fuori città dove un sito religioso antichissimo è luogo di riti propiziatori, gli indios ne indicando la via pronunciandone il nome con un’espressione estatica.
Pasqual Abay è avvolta da cortine palpabili di nuvole basse, i pellegrini trovano posto nella parte centrale di un semicerchio di pietre. Una masso di forma fallica è il riferimento magico cui si rivolgono le preghiere di antiche origini.
Un fuoco indica la posizione del “tramite” e al suo fianco gli interessati del responso restano immobili a testa bassa.
Un bimbo in fasce è fatto passare sopra il fuoco attraverso le cortine di fumo. A terra sono riposti tutti gli ingredienti della cerimonia: petali di fiori, pezzi di legno per il fuoco, bottiglie di intrugli alcolici. Il tutto accade in un silenzio rotto solo dalle cantilene propiziatorie e ululati di cani in lontananza.
Da sempre in questa collina avvengono riti e sacrifici animali.
I turisti sono tollerati e molti sono accompagnati da guide improvvisate, quasi sempre bambini che rincorrono come possono l’infanzia negata tra una corsa per gioco ed una mancia.
Nel mercato al coperto di Chici i bimbi ci assediano con fare gentile e insistente allo stesso tempo, vendono piccole scatole colme di minuscole bamboline portafortuna. Il loro è un avvicinamento curioso e circospetto che sfocia in timide risate.
Eccoci di nuovo nei ritmi del viaggio. Partenza per Santa Cruz de Quichè. Un interminabile saliscendi tra le colline “dell’altiplano”: boschi di pini e campi coltivati, dove nella notte le temperature scendono a zero gradi.
Osservando gli indios e le loro capanne, mi rendo conto di quanto è faticosa la vita in questi luoghi; la paura del freddo e della polizia, dei soldati e del padrone…come si può resistere a tanto.
Quichè direzione Sacapulas…
Lo spostamento continua attraverso luoghi di transito sino ad arrivare a Uspatan, dove scopriamo che l’autobus per la nostra meta partirà la mattina successiva.
Non ci resta altro da fare che cercare da dormire alla Casa del Viajero, l’unica possibile sistemazione.
Mi ritorna alla mente Rigoberta Menchù; i racconti che narrano di questi luoghi e degli eccidi del 1980, descritti nel suo libro “I Maya e il mondo”.
La sistemazione per la notte è davvero essenziale: un loculo con bagno esterno, agua fria e nada mas.
La cena superba è composta da un piatto di frijoles, fagioli, e uova fritte, un vero lusso tutto sommato.
Uspatan, con la nebbia in stile invernale, sarebbe sicuramente definita da Lobo Antunes “un vero buco di culo”.
Una landa desertica, fredda, dimessa, con le case eternamente in costruzione e i piccoli negozi bui e malconci. Le osterie del villaggio hanno una paratia all’ingresso, una sorta di paravento che nasconde l’interno - atto di discrezione nei riguardi dei bevitori.
Nel buio totale del mattino parte la corriera per Coban. Ondeggiamenti e sbalzi repentini dal seggiolino, buche e il buio della notte. Le frenate improvvise accolgono all’interno del “carro” anime sonnolente lievitate nel buio: contadini con machete legati in vita e viaggiatori locali.
L’allegra assonnata compagnia sale e scende miraggi di strade sterrate. Intorno a noi unicamente buio e polvere.
All’alba arriviamo a Coban che ci accoglie con una super caotica stazione delle corriere, infangata e approssimativa, e il viaggio non è ancora finito.
Saiaxchè, la nostra meta, sembra più lontana della luna.
La confusione generale ci trottola alla ricerca della corriera giusta, ma è facile solo a dirsi, il nostro non è un percorso frequentato dai turisti; qualcuno parla di un “cruce”, un incrocio che potrebbe fare al nostro caso. Un crocicchio in un punto non ben precisato del Petén.
Tentiamo di identificarlo sulla cartina geografica, ma è impossibile.
Il carro prende il via alle nove del mattino, il suo carico è simile a quello dell’arca di Noè: cani, galline legate in reste di corda, campesinos, donne che allattano e bimbi che ci osservano curiosi.
Le colline verde smeraldo, le case di legno e le capanne di paglia, si susseguono in questo spostamento diretto all’immensa piana di El Petén.
La strada che taglia la foresta è molto stretta e obbliga a soste forzate non appena uno dei tantissimi camion si blocca per problemi meccanici.
Lentamente sgraniamo il rosario delle ore.
Nelle lunghe attese si mangia: tamales, involtini di foglie di mais con all’interno farina e fagioli e poi banane, noccioline e intrugli intraducibili che si comprano ai lati della strada, quando la sosta dà origine a piccoli mercati improvvisati dagli indios delle capanne vicine.
Dopo cinque ore eccoci alla famosa croce: un niente assoluto, un incrocio posto chissà dove in quel mare verde.
Un piccolo spaccio di alimentari, costruito con assi di legno e il tetto di onduline, è l’unico segno di vita - intorno a noi non esiste altro.
Appena scesi a terra scopriamo che il primo mezzo pubblico per Xchè passerà il mattino seguente.
Increduli ci abbandoniamo su di una panca di legno con gli zaini pronti a far da cuscino per la notte imminente.
L’unica alternativa è seguire il consiglio dei pochi abitanti. Ci raggiungono per curiosità nella nostra postazione di attesa e raccomandano: -“Fermate ogni mezzo che transita e chiedete un passaggio”.
Inizia così la corsa diretta ad ogni mezzo su ruote che nel buio arriva e nel buio si dissolve. Con speranzose corse e ritirate infruttuose, riempiamo la serata della famiglia che gestisce la capanna nel nulla. La loro allegria non ha toni di scherno e il capo famiglia, ad ogni nostro tentativo, si batte un pugno nel palmo aperto delle mani per rimarcare l’insuccesso.
La stella del viaggiatore improvvisamente torna a brillare.
Un camion mastodontico si materializza nel buio assoluto. Corriamo nella sua direzione spazzati dalla luce dei fari e l’urlo ferito dei freni è per noi un cantico di vittoria. E’ il carro della salvezza. Il camion trasloca arredi nella nuova casa di Xchè, ha i parapetti altissimi che mettono a dura prova le nostre doti arrampicatorie. Saliti al volo ci incastriamo tra letti e materassi, e ci accorgiamo di non essere gli unici passeggeri della notte.
Tra saluti, presentazioni e risate, riparte l’esultante compagnia di sconosciuti.
La notte del Petén è inchiostro caduto dal cielo. E le rane nel buio si lamentano con un respiro da fumatore incallito.
Sayaxché.
L’alba a Xchè è ritmata dai suoni della foresta: uccelli e scimmie urlatrici, suoni estivi e tropicali nonostante la temperatura invernale e le nuvole basse di questi giorni. Consumiamo una colazione frugale in riva al Rio della Passione, quindi affittiamo una barca per raggiungere il sito archeologico maya-tolteco di Ceibal.
Un’ora e mezzo di navigazione sul fiume arginato sino al cielo dalla foresta pluviale, all'intorno continui voli di uccelli coloratissimi e caimani che fuggono smuovendo piccole onde. La barca ci lascia vicino ad un piccolo sentiero che diparte da una spiaggia; il sito archeologico è distante circa un chilometro e mezzo. Proseguire tra le ceibe e le palme giganti, nel caldo umido popolato di zanzare fameliche, riporta alla mente memorie di Amazzonia e Africa.
Gli scavi archeologici sono immersi nel verde e la foresta impenetrabile produce lievi suoni nel suo instancabile crescere.
L’affascinante piazza centrale è contornata da pilastri di roccia scolpita e nella parte intermedia sorge una piccola piramide; il luogo è percorso da sentieri che tracciano le vie dell’antica città.
Le lunghe soste sono proibitive. Non appena ci si ferma le zanzare voraci pasteggiano a nostre spese e solamente la brezza serale ci salva dalle morsicature degli insetti.
Dalla barca osservo capanne e animali. L’atmosfera tranquilla e il tramonto sono il giusto premio a tutte le buche sofferte per arrivare in questo luogo.
Girovagando per il villaggio incontriamo il comedor del Viajero, uno spettacolo di equilibrismo architettonico: in pratica è una palafitta interamente di legno e i muri divisori sono stoffe tese. La birra, il pollo e le patate fritte ne completano la definizione di “un terribile luogo incantevole”.
Nel resto del paese incontriamo solo locali bui e un’assordante musica natalizia che contrasta con l’arrivo della notte primordiale.
L’alba ci offre un cielo limpidissimo.
Seduti nel patio, in compagnia di un pappagallo rumoroso, osserviamo il Rio della Pasion reso rugoso dal lavoro di uomini che con barconi e chiatte traghettano persone e camion dall’altra parte del fiume. Questo è l’unico sistema per raggiungere Florès; la strada è tagliata nettamente dal Rio e tanto nettamente risorge di fronte a noi.
Traghettiamo con un gruppo di lavoratori locali e con uno di questi dividiamo l’attesa dell’autobus per Florès parlando del duro lavoro dei contadini, delle pensioni, del sistema sanitario, dei diritti negati e della mancanza di futuro per la maggioranza della popolazione.
Ed eccoci nel “Biotopo turistas” di Flores: alberghi, ristoranti, negozi di souvenir, il tutto immerso in un aria rilassata ed efficiente. Sfruttiamo al massimo le comodità inaspettate dell’albergo fantasma, privo di acqua calda ma dotato di una lavanderia che rimette in sesto il nostro zaino.
Partenza all’alba diretti alla grande città maya di Tikal: il sito archeologico più importante di questa cultura.
E’ ancora buio quando arriviamo nei pressi del parco archeologico e muniti di torcia elettrica iniziamo l’avvicinamento.
L’atmosfera è irreale, procediamo nella completa oscurità, la foresta si sveglia lentamente accordando suoni e movimenti di scimmie urlatrici, di pappagalli e tucani.
Il sentiero principale penetra l’intrico della foresta, le piante altissime formano un muro insormontabile verso il cielo e intorno rumori di foglie che cadono, e scricchiolii – sonoro della foresta preistorica.
Nell’aria fresca del mattino la nebbia fa scendere l’altezza del cielo appena sopra gli alberi.
Improvvisamente la nebbia si dipana; riusciamo a intravedere la piramide della Plaza Mayor e quella visione repentina ci lascia ammutoliti. La nebbia e la silhouette della costruzione alta cinquanta metri è un tutt’uno. E’ come osservare una litografia usurata dal tempo, una visione onirica, una città inventata dove camminiamo, come in un labirinto, alla ricerca della Porta del Sole.
La Piazza Centrale ha due grandi piramidi. Risaliamo la piramide ovest in silenzio.
Coppie di uccelli colorati si inseguono svolazzando di ramo in ramo e i richiami delle scimmie preannunciano l’arrivo dei primi raggi del sole. Rimango ammutolito osservando il mondo sottostante.
Si racconta che questa città fu scoperta da un “ciclero”, un raccoglitore di succo di sapodilla, l’antica cingomma per intenderci. Nell’immensa foresta si scava ancora alla ricerca di palazzi e tombe dell’antica Tikal, la foresta è il guardiano naturale di questo luogo e la foresta potrebbe riprendersi in poco tempo tutto quello che noi vediamo.
Luoghi di cerimonia e di vita - perle colorate nella verde distesa del Petèn. Sacrifici - scienze astronomiche - divinazioni e feste.
Forse solo il rumore della foresta è rimasto immutato nel tempo. E’ suggestivo vagare tra le rovine di palazzi e templi, risalire le diverse piramidi maya immaginando i colori e le persone che abitavano questo luogo sette secoli prima di Cristo, e che in seguito abbandonarono misteriosamente lasciando ancora oggi molti dubbi agli archeologi e ricercatori: “ Perché una fuga così repentina? “.
Il tempio più alto è di sessantaquattro metri e vi si accede per mezzo di una scala di legno molto ripida, si sale aiutati dalle radici di enormi alberi che hanno formato un reticolo, e l’intrico casuale nasconde e protegge le pietre antiche.
I colori e le incisioni sono per lo più scomparse, a tratti si notano tracce di scrittura maya, si intravedono Principi guerrieri e calendari astronomici.
Mi siedo ad immaginare il Supremo Principe Ah-Cacau assiso al trono, oppure mentre transita tra le arcate a modiglioni, con l’abito colorato abbellito di piume e collane di giada.
Improvvisa la sua voce rompe il silenzio e chiama il Dio Sole ad impossessarsi di tutto.
Sono trascorse dieci ore. Dopo tanti anni di immagini fotografiche e letture di scoperte archeologiche sembra impossibile ora far parte del panorama di questo luogo. Poter muoversi tra le rocce e i templi, tante volte banalizzati dal catodico vetro casalingo che tutto vede e tutto macina. Anche solo la visita a questo luogo può valere un viaggio di giorni e giorni, assaporando il lento avvicinamento e sopportando scossoni su autobus improbabili.
Flores: ore cinque antimeridiane. Le note di una serenata trasportano allegria nel buio del mattino. Un gruppo di musicisti in strada suona vicino ad una porta, intonano una canzone sdolcinata: è un regalo di compleanno. Increduli sorridiamo a tanta allegria e dirigendoci alla stazione degli autobus passiamo vicino al gruppo in festa, la famiglia ha aperto la porta di casa ed offre da bere ai vicini assonnati. Baci e saluti, aria di casa e per regalo una canzone.
Questa è la visione del Guatemala che ci porteremo dietro per un po’ di tempo, mentre ci prepariamo ad un lungo viaggio diretti in Messico.
Inizia così lo scorrere filmico delle frontiere: Guatemala, Belize, Messico. A Belize City sembra d’essere piombati in una fetta d’America stile New Orleans: una geografia piatta con fiumi, foreste e poi…il mar dei Caraibi.
MEXICO.
Arriviamo a Chetumal in Messico e dirigiamo per Tulum: il mare e le rovine maya dello Yucatàn.
Dopo ore ed ore di viaggio accogliamo con sollievo i tre chilometri a piedi che ci separano da Tulum. Raggiungiamo la spiaggia e affittiamo una capanna. Il luogo assomiglia ad un campeggio con le amache appese ovunque, l’atmosfera ricorda l’epoca degli anni settanta e il film Puerto Escondido di Salvatores.
Capanna numero sei: pali legati uno all’altro, un letto centrale, candele per la notte, insetti da competizione e gli iguana che fanno capolino. Il mare, la sabbia e l’immensità del cielo stellato fanno il resto.
La città fortificata di Tulum: città dell’Alba. Gli indigeni un mattino videro arrivare dal mare i conquistadores e la storia da quel momento si è fermata.
Ora la città giace immobile tra il verde e il mar dei Caraibi.
I palazzi e i templi erano in origine coloratissimi, oggi restano stucchi in rilievo raffiguranti Tlaloc, il dio della pioggia, che fuoriesce dalla struttura centrale come spinto da una volontà di fuga.
Nonostante la presenza umana, di turismo straniero e locale, il luogo è rimasto inalterato nella sua natura. E’ possibile vedere gli iguana prendere il sole nelle stradine che seguono il profilo della costa, ed una vegetazione bassa e continua copre questa terra dello Yucatan.
I voladores in costume tradizionale sono appesi ad un alto palo. Legati per la caviglia volteggiano scendendo lentamente accompagnati dalla musica di un flauto; questa pratica risale al tempo dell’impero maya ed ora è ad uso turistico.
Tulum è un luogo di storia ma certamente non di autentico colore messicano.
Lentamente si fa sera. Le nuvole interrompono il reciproco inseguimento. Le pietre antiche si ritirano nell’oscurità e i viottoli di calcare - lucidati da passi umani - appaiono umidi dall’incidenza del sole.
Xcacel dista sedici chilometri da Tulum, lungo la strada che porta a Cancun: è una riserva integrale sul mare, con un campeggio ed una spiaggia di coralli fossili.
All’interno del parco i piccoli sentieri conducono ad un cenote: un pozzo naturale di acqua dolce, caratteristico di questa terra calcarea. Nell’acqua dolce nuoto con un certo senso di disagio pensando all’utilizzo di questi laghi in miniatura. Qui erano sacrificate le vergini, per propiziare il buon raccolto e accattivarsi le divinità.
Il vento incessante non da tregua. Un pellicano si tuffa nel mare alla ricerca di cibo.
Chitcen-Itzà. La grande Piramide del sole. Kukulcan… Nomi sparsi nella memoria che ora prendono forma.
Il luogo è notevole, ampie radure con piramidi e altari: l’altare dei giaguari e dei teschi, l’osservatorio astronomico e il colonnato scolpito con motivi geometrici e figure di guerrieri, serpenti e aquile raffigurati mentre mangiano il cuore di corpi sacrificati.
La grande piramide ha gradini quasi verticali e centralmente alla scalinata è murata una catena di ferro per aiutare la salita di improvvisati climbers. Il panorama dalla sommità è davvero ripagante, il luogo è completamente circondato da un mare di vegetazione.
La grande piramide si innalza severa in un luogo di magia - di sacrifici e piume di quetzal. Le ombre dei serpenti scolpiti discendono i gradini nelle notti di equinozio…
A Vallalolid visitiamo la chiesa fortificata di San Bernardino da Siena. Noè, la nostra piccola guida, racconta aneddoti sulla natura di tale fortilizio religioso -”E’ stato costruito con tali accorgimenti per difendersi dai contadini maya, giustamente contrari ad ogni presenza straniera che tendeva al loro sfruttamento”-.
Partiamo per Mérida, l’antica Thio. E’ la vigilia di Natale.
La città ci accoglie con una confusione vitale di venditori in strada, scampanellii e un traffico incessante.
All’improvviso un gruppo di soldati entra marciando in pompa magna nello zocalo, la piazza centrale. E’ il momento dell’ammaina bandiera e muniti di sfollagente vanno per il parco e obbligano le persone ad alzarsi in piedi in onore del vessillo nazionale. Il mattino seguente scopriremo, di nuovo, che questa bandiera in Chiapas si fa poco onore, e la notizia riportata dai giornali è terribile: Strage in Chiapas, 45 morti assassinati dalle truppe paramilitari.
Presidi e piccole manifestazioni si svolgono nella città sotto gli occhi attenti e severi di soldati e polizia, l’aria è pesante da smuovere ma soprattutto da respirare.
Si accendono ceri sulla strada, in una improvvisata messa all’aperto di fronte alla cattedrale.
La cattedrale di Merida sorge di fronte alla Plaza Mayor, nello stesso luogo dove i maya per secoli hanno invocato i loro dei. L’edificio sacro è stato edificato utilizzando le pietre di antichi siti religiosi maya; le pietre ancora portano incisi i segni di altri riti e credenze. La cattedrale ingloba nel suo slancio di perfette geometrie due realtà contrapposte all’origine ma in seguito unite, con molta astuzia, in un unico luogo di preghiera.
…ed ora ascolto veglie funebri. Orazioni - fumi di incenso e memorie scomparse. La nudità maya diventa un pregio. I padroni sfruttano quei piedi scalzi - quelle schiene nude alle fruste. Ma quale pace – dov’è la salvezza per i contadini e i poveri?. Guerra di caste e sogni di rivoluzione. Poveri martiri che trascorrono la vita in terre di sudore - e nonostante il sole cocente è sempre poca la luce. Tristemente vivono un mondo di fuoco - di sale e d’angoscia.
Questi poveri - che si trascinano - hanno avuto madri e padri. Questi poveri sono costretti a fuggire dalle bande paramilitari. Questi poveri vivono di sogni.
Prenotiamo i posti per Palenque nel bus notturno. Nell’attesa andiamo al Museo Antropologico che dista cinque cuadras dalla piazza principale: nel vecchio palazzo restaurato la storia archeologica e antropologica è di facile lettura, i reperti sono interessanti e le carte esplicative esaurienti nella loro semplicità. Rivediamo fotografie e planimetrie dei siti archeologici visitati da poco tempo. Interessanti ritrovamenti di teschi “ovali“, modificati per mezzo di legni legati alla scatola cranica: la forma allungata della testa era il simbolo di appartenenza ad una casta elevata.
L’interno del museo è freschissimo, l’esterno è afoso e senza riparo…pensare che è inverno.
Pranziamo al secondo piano del mercato coperto, un mercato zeppo di ogni cosa vendibile o barattabile, così grande da assomigliare ad un quartiere più che ad un luogo di commercio.
Nel palazzo del Governo i murales di Fernando Castro Pacheco, dipinti nelle sale interne, sono una sorpresa. Gli affreschi descrivono la storia Yucateca ed in generale quella maya, le pitture si riferiscono ai conquistadores e alla cultura indigena. Pacheco si rivela un autore attento e sensibile alle problematiche indios e totalmente schierato dalla loro parte. In un pannello l’eroe indio Nachi Cocom, è raffigurato legato e incatenato, è lui il simbolo della resistenza maya contro gli spagnoli. Il salone del palazzo merita una lunga sosta e tristi considerazioni.
Palenque. Chiapas.
Arriviamo a Palenque prima dell’alba e mentre la città si sveglia andiamo alla ricerca di una posada e di un bar per una pasteleta.
Parque Nacional Palenque: la bruma del mattino si trasforma in pioggia. Il luogo conserva un’atmosfera molto particolare, soffusa e intima nonostante la presenza di moltissimi visitatori. La Piramide Maggiore, o Tempio delle Iscrizioni, cela al suo interno la tomba di Pakal, protetta da una lastra sepolcrale scolpita con una rappresentazione che, negli ultimi anni, ha dato adito a molte teorie tra cui una extraterrestre, la pietra è conosciuta con il nome “dell’astronauta di Palenque”. La tomba è raggiungibile tramite una scalinata umida e resa scivolosa dal calpestio continuo dei visitatori.
Il Tempio della Croce è uno dei trentaquattro monumenti riportati alla luce, dei quasi cinquecento ancora celati dalle piante della foresta impenetrabile - foresta di giganti floreali. La pioggia aumenta e ci ripariamo alla meno peggio, gli indios utilizzano enormi foglie come ombrello.
Tentiamo di visitare il Museo Archeologico poco prima della partenza del bus per San Cristobal de Las Casas. Purtroppo il museo è chiuso e riusciamo a vedere solo qualche pietra tombale attraverso le larghe vetrate.
Il viaggio dura cinque ore, la strada sale sino a duemila metri, ci lasciamo alle spalle le brume e la pioggia.
A San Cristobal la giornata è splendida ed il primo approccio soddisfa “i viaggiatori stanchi”.
La camera si affaccia su di un patio con un lavatoio in comune e crea un’atmosfera di casa vissuta.
Seduto all’ombra, scrivo protetto dai piccoli animali in terracotta di Amantenango: piccole ceramiche povere vendute in strada da bimbi e donne dei villaggi vicini.
L’ufficio della ONG che cura l’accreditamento presso i villaggi zapatisti è chiuso e rimandiamo l’incontro tanto atteso a domani.
La cena al Normita è d’obbligo: è un locale prevalentemente per stranieri ma dopo tanti giorni di cene approssimative cediamo alla tentazione.
L’ufficio dell’Organizzazione non Governativa è ancora chiuso, abbiamo l’impressione che non sia per caso, probabilmente gli ultimi avvenimenti hanno represso le associazioni d’appoggio agli zapatisti, tentiamo quindi con l’invio di un fax scritto quasi in codice cifrato allegando il nostro recapito in città. Nell’attesa partiamo per Chamula, un villaggio celebre per i riti che si svolgono nella chiesa e in altri luoghi sacri della campagna circostante.
L’intorno è bruma e pioggia e come dice Edoardo Galeano : - la bruma è il passamontagna della selva e tutto nasconde.
Gli uomini indossano ponchos di pelo nero e stoffa bianca; di fronte alla chiesa a turno restano immobili a far da guardia. L’atmosfera è irreale, congelata in uno scatto fotografico che è obbligo portare solo nella propria memoria.
Devo fare molta attenzione quando fotografo, in alcuni luoghi è tassativamente vietato scattare fotografie o filmare eventi religiosi. Un grande cartello, all’ingresso del paese, riporta minaccioso il divieto e si racconta che le punizioni siano esemplari.
Al “mediodia” esce il sole ed i colori riscoprono improvvisamente la loro vera natura.
Il mercato è affollato ed in piena attività, incessanti sono le offerte dei venditori di stoffe e collane, bracciali e animali, pupazzi che raffigurano il Sub Comandante Marcos con passamontagna e fucile.
San Cristobal è preso d’assalto da turisti su candide corriere di lusso, scendono al volo e risalgono fuggendo i mendicanti. Villaggio di banche e gioiellerie al limitare della dura selva.
I colori sono gli attori principali della città e le chiese sorgono in ordine sparso.
L’atmosfera quest’oggi è all’erta e tesa; i giornali riportano parole d’ordine governative e minacce rivolte ai contadini.
Territori dove la pace è ancora lontana - dove bambini scalzi vendono mercanzie a pesos - ed allo stesso prezzo il potere tenta di comprare la loro dignità…inutilmente.
Il risveglio a San Cristobal ci propone l’ennesimo tentativo all’ufficio di Enlace Civil, ancora una volta infruttuoso. Incontriamo un messicano diretto anche lui ai campi, ed insieme cerchiamo informazioni presso la Diocesi e quindi all’Ufficio dei Diritti Civili. Ritornando alla sede della ONG finalmente incontriamo i responsabili, a quel punto tutto procede velocemente. In poco tempo prepariamo la sacca da depositare all’albergo e ci lanciamo sulla strada alla ricerca di un mezzo di trasporto per Bochil; l’autista consiglia di evitare i soldati e la “migra”.
Ci dirigiamo ad Oventic, un accampamento ad un ora e mezzo da San Cristobal.
Le condizioni meteorologiche peggiorano di chilometro in chilometro e la nebbia è padrona assoluta in questi luoghi di montagna.
Arriviamo ad Oventic con la visibilità ridotta a poche decine di metri. All’ingresso dell’accampamento un ragazzo dal volto coperto ed una stella sul passamontagna controlla l’autorizzazione e il passaporto, rapidamente apre gli zaini avvisando che è vietato introdurre armi e droghe.
Oltre il filo spinato esiste solo la fredda nebbia e non comprendiamo la reale ubicazione delle strutture.
Incontriamo altri stranieri che svolgono funzioni di osservatori, a nostro parere un po’ troppo osservatori, la confusione dello spazio comune e gli sguardi non proprio socievoli ci spingono a cercare una capanna libera, ne scoviamo una decisamente più spartana. L’alcova si riduce ad un tavolato: una struttura di paglia senza porte e intorno al letto sono inchiodate delle strisce di plastica per riparare dal freddo pungente. Incontriamo Nicola, un ragazzo siciliano che lavora presso l’infermeria del campo e chiacchieriamo con lui di tutte le cose rese invisibili dalla notte repentina: un piccolo spaccio di alimentari, lo spazio comune, i servizi igienici fatiscenti.
I murales, che raffigurano Emiliano Zapata e il Che, addobbano le capanne di legno mentre il freddo recita la sua parte migliore.
Dalla nebbia lievita un campo di basket: due squadre locali si improvvisano finaliste della Coppa del Mondo e tutto intorno, seduti sopra gradinate di fortuna, i tifosi seguono in silenzio le umide tattiche, mentre una musica suonata dal vivo rende tutto irreale.
Un tè caldo tonifica un poco e lentamente entriamo nei ritmi serali tra i saluti composti degli indios.
Il sacco a pelo aiuta a combattere il freddo della notte: la temperatura scende a quattro gradi sotto lo zero ed è come dormire all’aperto.
Sogni e repentini risvegli ritmano la notte della selva - il sonno agitato dal freddo non ha tregua. Notte di cani in lontananza e passi affrettati. Profonde voci chiacchierano in dialetti diversi. Nella notte i turni di sorveglianza scandiscono le ore del martoriato Chiapas!
Ultimo giorno dell’anno.
Un particolare ringraziamento al grande sole della montagna; questa mattina splende senza timidezza e rimuove l’umido nelle ossa.
Andiamo alla ricerca di un lavoro utile alla comunità. Ci uniamo ad un gruppo di volontari messicani intenti al trasporto di mattoni destinati alla costruzione della scuola rurale. Un muto passamano, quindi un riassetto provvisorio delle capanne comuni che accolgono famiglie indios e osservatori internazionali.
Il torneo di basket va avanti: le partite cominciano alle otto di mattina e sono intervallate da sostegni musicali con marimbe e chitarroni. Intorno a noi è un lento fluire di campesinos vestiti a festa e mi viene in mente un detto di questi luoghi: “Siamo gli uomini e le donne di mais, siamo mais che alimenta la storia”.
Improvvisamente voci esagitate scuotono l’aria. Seguiamo d’istinto la folla che corre verso la strada esterna dove è atteso il passaggio di un convoglio militare, velocemente si forma un blocco stradale, una catena umana, mano nella mano: i volti nascosti dai fazzoletti rossi, passamontagna, cappelli di paglia e abiti neri ad officiare un lutto continuo.
L’allarme rientra e lentamente rifluiamo nell’accampamento, le partite riprendono ed il sole sulle gradinate è ora cocente.
La giornata prosegue con la sistemazione delle cataste di legna e lo sgombero di detriti dai campi.
Terra di fango. Popoli riuniti a difendersi. Nulla da perdere e forse poco da guadagnare. La libertà è ancora lontana…
Popolo di creature solari e animali notturni, uomini e donne rigidi tanto con il caldo quanto con il gelo, appaiono immortali, ma purtroppo so che non è così.
Non scommettono mai sulla loro vita, il futuro è incerto per questi bimbi così seri nei loro giochi.
Corrono improvvisamente le notizie sulla strage di Acteal. Seguendo i racconti i visi diventano tristi, poi la sera alita buio e pioggia sottile. Il campo di gioco è lasciato libero trasformandosi in una pista da ballo, la musica cessa di colpo e dalla collina, una folla indistinta, scende correndo con le torce accese: zapatisti, uomini e donne con passamontagna e fazzoletti sul volto.
La musica intona una marcia e la corsa diventa una sfilata irreale. I bastoni di legno sono imbracciati come fossero fucili e gli indios disegnano un ampio cerchio passando vicino agli spalti. Lampi di fiaccole accese, urla di festa - augurio di buon anno; sono le undici, gli zapatisti non accettano l’orario del governo messicano e il loro orologio è un’ora avanti.
Questa notte si celebra il quarto anniversario della recente rivoluzione, di quando Marcos e l’esercito zapatista entrarono a San Cristobal. Da allora, paramilitari e soldati, con il silenzio consenso del governo messicano continuano nella repressione indigena, cercando di eliminare la loro presenza ed i loro diritti, perpetrando attentati e stragi…sino ad arrivare alla strage del 23 Dicembre di quest’anno.
Fiaccole nella notte. Selva - piedi scalzi e suole bucate. Gli indios corrono leggeri - come leggero è il loro ballo - come in questo momento è leggero il mio cuore.
Nell’aria evanescente intravedo ombre e sagome, abiti lucidi di pioggia e flosci cappelli, impronte di piedi scalzi nel fango e pozzanghere che riflettono altre pozzanghere e terra.
Il suono dei differenti idiomi si mescola cullato da marimbe scordate e batteristi svogliati.
Ultimo giorno dell’anno - il primo giorno del nuovo anno: tutte parole, solo termini senza senso, il vero senso è solo speranza di vedere calzare a questi piedi nudi un po’ di calore.
Una speranza di vita dignitosa, in territori dove si muore di malattie, di machete, di pallottole e indifferenza.
I canti patriottici e di lotta non sempre mi emozionano e qui nei canti la parola patria è sconosciuta.
Penso che anche noi occidentali dovremmo tramutare “Patria” in “Terra” e non dimenticare il dono del canto e del sogno.
Gli indios dicono: – “Insegna ai tuoi bambini quello che noi abbiamo insegnato ai nostri figli: che la Terra è la nostra madre. Qualsiasi cosa accada alla Terra accade ai figli della Terra. Questo noi sappiamo: la Terra non appartiene all’uomo, l’uomo appartiene alla Terra”.
Le troppe emozioni possono uccidere. La mancanza di esse crea uomini morti.
1 Gennaio.
Parola del giorno: “Fango”.
Alle cinque di mattina ci sveglia un falso allarme, corre la notizia del possibile transito di una colonna di soldati o paramilitari.
Ormai svegli ci avviciniamo al fuoco, protetto da una tettoia di lamiera, in compagnia di una famiglia campesina originaria di Zincatan.
Le note di “Tierra mestiza” di Gerardo Tamez riempiono l’aria, è un brano musicale con violino, basso, chitarra e percussioni che ascoltato una volta è impossibile dimenticare. Una dolce e triste melodia che crea il sonoro alla visione delle famiglie indigene, gli accordi languidi accompagnano i contadini scalzi e infangati e le donne con l’eterno sacco della prole legato alla schiena.
Il freddo è logorante e il corpo vive solo di questo nutrimento sonoro.
Nel pomeriggio inizia l’esodo dei partecipanti alla festa-anniversario e lentamente, sempre in silenzio, risalgono la china fangosa che porta alla strada principale, dove attendono il passaggio di un mezzo per ritornare ai propri villaggi. Quando la giornata scorre segnata da ritmi oramai familiari, avviene l’inaspettato. Avvisano il campo dei movimenti di truppe paramilitari dirette ad Oventic.
La situazione si chiarisce dopo poco tempo: bisogna velocemente lasciare il campo, le azioni repressive non si fermano certo di fronte ad osservatori internazionali.
E’ buio e la pioggia si confonde con la “nulbe”, tutti gli accampamentisti sono chiamati nel luogo di raccolta dello spazio comune. Qui avviene un corso rapido di fuga, le indicazioni sono di tenere le luci rivolte a terra, mantenere il silenzio in fila indiana tenendosi ad una corda tesa di riferimento e seguire gli ordini alla lettera.
Ci sistemiamo nel grande capanno, le donne divise dagli uomini, tutti pronti alla fuga verso la montagna.
Fuori è notte profonda.
L’attesa nel silenzio assoluto dura due ore, qualcuno dorme, altri pregano a mezza voce traditi solo dal movimento delle labbra, altri ancora cercano di sdrammatizzare la situazione raccontando aneddoti divertenti.
Io e Luly siamo lontani, a tratti riusciamo ad incontrarci con lo sguardo, sono quasi certo che l’allarme rientrerà.
Dato il protrarsi dell’attesa cado in un sonno leggero. Improvvisamente una campanella fa scattare tutti in piedi, è il segnale convenuto, zaini in spalla e mano alla corda.
Per primi partono donne e bambini, di seguito gli uomini; gli zapatisti del campo regolano l’andatura e ordinano: avanti, a terra, a destra, più veloci, regresemos.
Inizia così l’esodo in un silenzio rotto solo dalle scariche delle ricetrasmittenti in contatto con la selva.
Gli sguardi sono diretti al buio intorno dove le ombre disegnano paure, ho l’animo stranamente tranquillo a parte l’apprensione per Luly che non vedo dalla partenza.
Quasi cento persone incolonnate in una irreale fila indiana unita dalla corda ombelicale, attraverso la quale si percepiscono le tensioni dei corpi altrui.
Siamo seri e silenziosi come un plotone ben addestrato.
Due fari di auto improvvisamente bucano la nebbia e letteralmente ci buttiamo sulla destra protetti da un terrapieno, per fortuna è un falso allarme.
Dopo un ora di cammino risaliamo le colline inerpicandoci su di un sentiero fangoso, il percorso è reso scivoloso dalla pioggia e dai tentativi equilibristi di quelli che mi hanno preceduto.
Una processione di luci sale la montagna.
Le comunicazioni via radio degli zapatisti sono continue, segnali di via libera si alternano al ronzio delle radio in attesa. C’è chi cade, chi trema dal freddo, chi ansima, c’è chi sta’ pensando che finita quella storia berrà del buon vino rosso. Dopo due ore di buio e dubbi ci avviciniamo decisamente ad un piccolo gruppo di luci soffuse, è un piccolo villaggio di cinque o sei case di legno dove trascorreremo la notte.
Le donne trovano rifugio in un casolare e noi uomini restiamo all’aperto nel fango e nella terra umida.
I piedi gelati non permettono un grande rilassamento, oltretutto il viavai di sentinelle armate non mi distoglie dall’idea che non è una gita del CAI, sorpresa dal brutto tempo in qualche via di lizza delle Alpi Apuane.
Lentamente, una per una, passano le ore.
Buio - cani e movimenti silenziosi - sagome d’uomini muti che vigilano.
L’alba risveglia la truppa e dividiamo le ultime sigarette fumando in silenzio.
Al mattino la riunione generale è quasi una adunata.
Il maggiore in grado del campo, spiega che per sicurezza sono stati evacuati tutti gli accampamenti denominati Aguacalientes, in seguito alla notizia di una possibile rappresaglia da parte dei paramilitari.
Mi guardo intorno e vedo molti bambini rendendomi conto che per tutta la notte hanno dormito in una casa vicino senza fare il minimo rumore.
Stranieri e indios raccolti insieme in un assoluto silenzio di attesa.
Rientriamo tutti a Oventic inneggiando un coro di colpi di tosse: vecchi, bambini, italiani, messicani, abiti indios e giacche da montagna, scarponi e piedi scalzi.
E’ terribile pensare che fughe e ritorni sono cosa naturale per questa gente; persone allenate ad ascoltare i rumori della selva, vanno scivolando senza produrre rumore…“fluttuano”.
E’ sconvolgente ritornare a San Cristobal de las Casas e ritrovare torpedoni di turisti, bar affollati e cibo caldo.
Due mondi discosti di pochi chilometri - eppure secoli di distanza li separano.
Come è diverso ora osservare in città gli indios dei villaggi, è tutto più comprensibile dopo aver visto le loro case isolate, dove il freddo e la fame sono la loro madre e il loro padre.
Visitiamo la casa di Na Bolom, in lingua totzil significa “Casa del giaguaro”. E’ stata costruita dai coniugi Bolom, celebri difensori della causa indigena nella Selva Lacandona. Bolom era un archeologo e la moglie fotografa e giornalista, la casa è una sorta di museo dove è descritto, attraverso le fotografie, l’impegno della coppia olandese.
Na Bolom è divenuta la sede dei progetti di cooperazione e volontariato che seguono la popolazione sopravvissuta, circa quattrocento individui, negli sperduti villaggi della Selva Lacandona.
La selva è ricca di petrolio e legname ed è un enorme polmone che rischia di estinguersi insieme alle comunità indigene. Diversi progetti culturali ed ecologici sono in atto, progetti che riguardano la salvaguardia dei diritti umani e il rimboschimento delle terre, rese desertiche dalla selvaggia raccolta di legno pregiato esportato nelle nostre case…
Tenejapa: uno dei tanti villaggi del Chiapas.
Dopo una lunga attesa troviamo un mezzo per Tenejapa, ventotto chilometri attraverso colline coltivate, un saliscendi continuo.
L’autista ingaggia una chiacchierata, parla dei problemi della zona, della la presenza invadente dei militari e la marijuana, il cui traffico alimenta le bande armate.
Il paese si risolve in una chiesa e nel municipio.
Casualità vuole che nella piazza del municipio è in corso l’incontro domenicale, un gruppo di uomini responsabili della comunità indossano gli splendidi abiti della festa.
L’approccio è timido, poi la curiosità prende il sopravvento e li immortalo con la promessa di spedire loro le fotografie che verranno affisse in comune.
I vestiti locali maschili sono di colore nero, quasi una tunica di pelo che arriva a mezza gamba, sempre gli uomini portano cappelli a più strisce colorate. Le cinture in vita sono formate da medaglie con raffigurazioni di santi e con incise le lettere dell’idioma locale.
L’abito è un insieme di simboli contadini e cristiani: cultura maya e cattolicesimo, contadini e dignitari, fierezza e curiosità.
Partenza all’alba per Tuxla Gutierrez: capoluogo del Chiapas. Dopo due ore di bus arriviamo in piena calura a Tuxla. Tagliando con fatica l’afa raggiungiamo la stazione dei bus per acquistare il biglietto per Villaermosa.
Nell’attesa del bus della notte andiamo a Chiapa de Corzo.
La piccola città è interessante, lo zocalo è contornato da un colonnato bianco e ombrose gallerie, a piedi raggiungiamo l’imbarcadero per il Sumidero Canyon. Una serie di barche con dodici posti, fanno la spola tutto il giorno per traghettare turisti messicani attraverso i trentacinque chilometri del canyon.
Il caldo micidiale mi incolla allo scafo di vetroresina. Nonostante la situazione turistica il percorso sul fiume merita attenzione: le pareti calcaree perfettamente verticali si innalzano per mille metri. Uccelli colorati involano dalle rive disturbati dal motore, il pilota è certo che vedremo piccoli coccodrilli ed esagera promettendo altri incontri a dir poco fantasiosi.
Sostiamo in una grotta naturale dedicata alla madonna; qui hanno innalzato un sito religioso addobbato di offerte e ceri, e le imbarcazioni che transitano si fermano per un omaggio spicciativo.
Il ritorno a Corzo è afosissimo, una pausa per tortas e birra è quello che ci vuole.
La città è formata da un susseguirsi di piccole case, prive di porte interne, con amache che fungono da letto e da divano.
Autobus di mezzanotte per Villaermosa. Stato del Tabasco. Un autobus di seconda classe ci porterà nella terra degli antichi Olmechi.
Nella notte rivedo transitare dal finestrino: San Cristobal, Ocosingo, Palenque e altre soste anonime.
Scossoni improvvisi nella notte che traghetta anima e corpo. Villaermosa è caotica ed estesissima, ma non perdiamo di vista il motivo che ci ha portato qui, il Parco della Venta: la foresta, le teste scolpite degli Olmechi, gli animali liberi di scorrazzare e i coccodrilli racchiusi nei fossati, uccelli colorati e vegetazione da giardino botanico, il tutto di fronte alla Laguna dell’Illusione.
Le teste scolpite in un unico elemento di basalto, sono impressionanti: alte più di due metri pesano in media quindici tonnellate, ed è ancora un mistero come un popolo che non conosceva la ruota abbia potuto spostare queste sculture per centinaia di chilometri.
I visi sono raffigurati con tratti negroidi. Questo è il secondo mistero, la cosa certa è che la cultura Olmeca è tra le più antiche del Messico. Le sculture che raffigurano il jaguaro sono molto frequenti e di mille forme possibili, questo animale sacro per eccellenza era spesso simboleggiato con fattezze umane.
Tra i fiori d’ibisco e le sculture dei giaguari, compio quarant’anni - 40 secondi - 40 battiti - 40 secoli - 40 baci.
Migliaia di volte a dire “non mi interessa”. Ma questo non ha imbambolato l’autista cosmico, non ha frenato il ritmo vorace del tempo - il tempo - tanto lento nel dolore quanto accelerato è nella gioia. Un banale susseguirsi di settimane, di tempi gloriosi, di vittorie e immense felicità, e sgretolamenti di pianti irrefrenabili. Quarant’anni di immagini trascinate dietro dall’infanzia, in un limitato fardello che si è appesantito ed è cresciuto in proporzione al tempo, all’altezza del mio corpo. Si è consolidato da matrimoni, funerali, e inciampi inevitabili. Il risveglio di questi quarant’anni avviene in una città rumorosa, dove la musica rock si mescola all’antica arte Olmeca, e le piazze tranquille alla furia del traffico. I predatori e gli uccelli del paradiso convivono nella stessa gabbia. Forse è il luogo giusto dato il mescolio delle mie impressioni, di questa vita variegata da scienza e coscienza, tradizione e sperimentazione, sogni stellari e acidità di stomaco. Complessità – molteplicità - vita. Questi anni sono stati un volo supersonico tra atterraggi e decolli, bufere e notti stellate. Resistere alle turbolenze che sembravano precedere la fine e poi mesi ed anni di riposo - immerso nel mare dei sogni irraggiungibili. E che dire del sogno? Non so ancora dov’è il sogno. Sorrido - rimando e dentro di me fuggo al domani continuando a vivere la felicità dello stupore.
Arrivo mattutino a Oaxaca, dopo un’intera notte in autobus, ed ora l’alba illumina terreni aridi con cactus e piante di agave. Le colline verdi sono fantasmi lontani.
La città è gradevole, una Firenze nel sud del mondo con chiese e vie acciottolate, palazzi coloniali e vecchi splendori ancora leggibili in porticati e cortili.
Lo zocalo è affollato e gli artigiani in strada vendono animali immaginari di legno: mostri alati, ramarri deformati in creature bizzarre e draghi fantastici.
Terra di geni impazziti e di creature fantasmagoriche.
William Borroughs abitò in questa città e quando gli chiesero, a che cosa era dovuta la sua scelta rispose: - Ma l’hai vista la luce di Oaxaca?
Ed è vero, il cielo privo di nuvole si rispecchia sulle case, la luce è decisa e particolare, l’atmosfera è filtrata e tersa.
Una buona cena vegetariana ed una serie di mezcal trasforma Oaxaca in un sogno del deserto.
Mentre consumiamo la colazione in un bar dello zocalo transita una manifestazione di insegnanti: protestano animosamente difendendo il diritto allo studio ed il riconoscimento delle scuole rurali. Ascoltando le richieste dei manifestanti mi accorgo di quanto il mondo sia piccolo, di come in ogni luogo si sente il bisogno delle stesse cose, di come il nemico giurato non ha altri nomi che neoliberismo.
Oggi lezione di storia; visitiamo il sito archeologico di Monte Alban. Il centro della cultura Zapoteca sorge su di una collina che domina Oaxaca, a circa dieci chilometri di distanza. Il sito è molto esteso e salendo sulle piramidi è possibile leggere l’impianto storico, il tutto sorge in un ambiente assolato e spoglio. Bighellonare al sole cocente è un’impresa non da poco, non so neppure io se invidiare gli antichi ospiti incartapecoriti delle tombe. All’interno del museo è possibile vedere il famoso tesoro della tomba numero Sette.
La piazza calamita turisti e messicani. I mariachi suonano marimbe e chitarroni in ogni angolo.
Intorno alla città l’arido territorio si sviluppa dividendosi in cinque valli e la caratteristica comune è l’erba bruciata dal sole, le acacie, i nopales e i cactus candelaria.
Le colline e le montagne sono irsute di vegetazione bassa e resistente agli sbalzi di temperatura.
I villaggi si susseguono come oasi nel deserto.
Cuilipan: il monastero ricorda San Galgano.
Zachila: il museo Rufino Tamayo mostra una collezione di statuette e figure umane provenienti da tutta l’area messicana; sono notevoli i reperti della cultura Huasteca.
Ripercorriamo la storia dell’aria Mexica: Tlaloc, il dio della pioggia, reperti dello Yucatan maya e sculture Tolteche del tardo periodo. Il rito e mito della morte, dalle sculture antiche alle opere moderne, ovunque si possono notare scheletri che danzano, mangiano oppure portano a spasso scheletri di cani. Proseguiamo per Tlacolula, Yagul e Mitla: villaggi e siti archeologici importanti per l’area Mexica.
Dopo la visita all’interessante mercato domenicale di Tlacolula, ci incamminiamo per il sito archeologico di Yagul. Il sito zapoteco è sicuramente minore, ma la sua posizione in leggera collina lo rende affascinante. Di seguito arriviamo a Mitla che, al contrario, è particolare proprio per la struttura dei suoi edifici addobbati con stucchi geometrici: il palazzo centrale porta ancora accenni dell’originaria colorazione rossa.
Colazione al caffè Jardin e mattinata di spese tra maschere e animali. Pranziamo nel mercato coperto 20 di Novembre, con le specialità oaxaquegne: piatti di carne con “mole negro”, il cacao amaro. Alcune venditrici ambulanti continuano ad offrirci piccoli grilli fritti e piccanti, non è un bel vedere ma così è questa terra, un composto di dolce e amaro, cotto e crudo, tutto insieme nello stesso piatto. Nello stesso luogo assapori tristezza e felicità.
Serata di piazza: palloncini colorati, musiche, manifestazioni pro-Chiapas, lustrascarpe, mendicanti, turisti, camerieri, curiosi, bambini, chitarristi, marimbe. Tutto in una piazza. Una piazza che attutisce i suoni, mescola i significati e vive estranea al tempo. Zapata può essere ieri come domani. E forse il domani è già arrivato.
Prendiamo gli zaini e in silenzio ci allontaniamo nella notte.
Mexico City: “El Monstruo”.
Venti milioni di abitanti in duemila chilometri quadrati, dagli Aztechi ad oggi, è impossibile spiegare Mexico City, si percepisce con l’olfatto, la si odia oppure la si ama profondamente. E’ facile disperdersi in vie e quartieri, dimenticarsi di tutto.
L’enorme città ha la capacità di tradurre il Messico e, nello stesso tempo, di vivere una vita completamente a sé. Poco prima dell’alba appare da lontano con le sue luci ed è come un immenso incendio ondeggiante.
Lo zocalo è immensità lastricata. La piazza è l’antico cuore di un regno costruito sulle acque dei suoi cinque laghi.
All’epoca erano isole ricavate con riempimenti di terra e canne legate le une alle altre, e poi giardini, strade imperiali e piramidi. Era una terra splendente, una città di barche e ponti.
La cattedrale lentamente affonda nel terreno molle; l’approvvigionamento idrico della città avviene tramite il sottosuolo e causa problemi di stabilità agli edifici.
Vicino alla cattedrale sorge il Tempio Mayor Azteco. L’antico è mescolato al moderno, forse è più giusto dire sovrapposto l’uno all’altro.
Un gruppo di ballerini è alle prese con un saggio di danza tribale accompagnata dai tamburi - suoni e abiti piumati.
Per confermare il volo ci spingiamo nel Paseo della Reforma dove acquistiamo il disco Terra Mestiza.
Il Chiapas è lontano, anche se la città è molto viva politicamente e gli universitari sono in prima linea per la lotta alla sopravvivenza delle comunità indigene in Chiapas e in Guerrero.
Il pomeriggio si apre con uno splendido caffè nel bar del Palazzo degli Azulejos, le mattonelle colorate prodotte in Cina e trasportate in Messico da navi di mercanti nel 18° secolo; è un ambiente particolare con affreschi e stucchi, in un patio interno si respira l’aria coloniale di un tempo. Un ottimo posto per una sosta intellettual–caffeinomane.
La notte è rischiarata da una miriade di negozi e cullata da un traffico incessante.
Raggiungere Tula è complicato. Si comincia con la metropolitana e due cambi, poi al Terminal del Norte un autobus giunge a Tula in un ora e mezzo, da qui due chilometri a piedi per le rovine.
Tutto questo andare ha per premio i “Telamoni”. Le gigantesche sculture di pietra sovrastano la piramide principale e sorreggevano il tetto del tempio maggiore. Rappresentano Quetzcoatl il dio supremo dei Toltechi che, in questo luogo, avevano un vasto regno ed in seguito furono assoggettati dagli Aztechi.
Il sito è immerso in una natura arida dove esistono solo cactus e venditori di cocci d’arte.
Le pietre grigie vulcaniche si stagliano contro l’azzurro profondo del cielo.
Ritornando in città visitiamo il museo di Diego Rivera, il grande muralista messicano, purtroppo i lavori in corso non permettono di godere la vista di tutte le opere esposte.
Siamo più fortunati al Palazzo delle Belle Arti dove ritroviamo Rivera e molti altri autori, gli affreschi sono visibili nei vari piani del palazzo completamente costruito di marmo bianco. Pasta fritta e cioccolata calda da El Moro.
San Angel un tempo era un villaggio a sé, ora in pratica è stato inglobato dal Mostro. Lo raggiunge una strada di nove chilometri ininterrotta di case, negozi e quartieri. Al sabato viene allestito il mercato settimanale nel piccolo zocalo che ha mantenuto il vecchio sapore del villaggio originario.
Ritorniamo verso il centro città e andiamo al Santuario della Vergine di Guadalupe, la patrona del Messico, e poi in Piazza Garibaldi dove i mariachi si danno appuntamento e si offrono per serate musicali a pagamento.
Teotihuacan, il cuore del mondo Azteco, nel suo massimo splendore era abitata da duecentocinquantamila persone. Il tempo ha nascosto per sempre molte cose. Civiltà favolose minate da continue guerre interne e in seguito arrivarono i colonizzatori cristiani a decretarne la fine.
Pablo Xeicom giunge nella grande città di Teotihuacan. L’impatto gli rende la gola riarsa improvvisamente. E’ un mese che viaggia dalla lontana costa del Pacifico e ritrovarsi ora nel Viale dei morti, gli sembra impossibile; il Quinto mondo Azteco, così nei racconti di suo padre era descritto quel luogo fantastico. Lentamente percorre la Calzada de Los Muertos, lasciandosi la cittadella alla sua destra con le case dei dignitari. Il suo sguardo è magnetizzato dalla rossa Piramide del Sole: i palazzi colorati intorno, gli affreschi dei Jaguari, i luoghi dei sacrifici. Con lentezza sale i duecentoquarantotto gradini che lo portano alla sommità della Piramide del Sole, il suo sguardo incredulo vaga dalle piazze alla Piramide della Luna in lontananza, dove ballerini piumati danzano una cerimonia religiosa.
-”Come potrò raccontare ciò che è difficile credere di vedere…
Una civiltà d’acqua e vulcani, di sacrifici, di canti e balli, di guerre dei fiori e battaglie sanguinose, responsi stellari, deformazioni craniche, pietre levigate con frammenti di ossidiana e piume di quetzal, le caste di fango, le caste d’oro, e poi scimmie, cani, tatuaggi, tombe d’oro, calzari pregiati, mais, le piramidi colorate e le barche di tronchi, cariatidi, stucchi, maschere, urne, bracieri, cani, colonne, teste enormi, rumori di foresta, jaguari, codici segreti, serpenti di lava e fiumi verdi, tamburi, voladores, tutti tesori misteriosi…nessuno mi crederà mai”-.
Sorvolo un mare di luci che si perdono all’infinito. Blocchi, quadre, tessere di un mosaico appena visibile da questa altezza. Le luci fuggono una dall’altra su strade di periferia intasate dal rientro serale. Vene pulsanti, elettroni nel moto costante dell’avvicinamento e del repentino allontanamento. Un bacio ed uno spintone. Un urto ed una carezza.
Mi alzo in volo sopra l’antico lago di Xocimilco ma non riesco a vederlo.
Sogno l’attesa libertà di altri uomini. La partenza è impressa di risate notturne che accarezzano i vulcani - mescolandosi in colorazioni diluite che si disperdono fluttuando. L’occhio è alla ricerca di una messa a fuoco precisa - tra i fumi d’incenso e fiamme diverse. Un brulicare sonoro di sparse preghiere - tambureggiano l’udito come pioggia insistente. Attendo la notte ancestrale perché interrompa la quotidiana fatica delle sagome colorate e chine. Improvvise frontiere di terra e oceano si materializzano. La realtà si rivela lentamente tra le umide brume. La nebbia e la pioggia ovattano lo stupore che mi sale osservando fiaccole in lontananza. Luci da presepio in una ristretta comunità…e lontano è il mondo conosciuto. Risalgo colline di fango nella notte - trascino i passi dove regna il silenzio. Terra dove governa l’arsura eterna - ed è negata la libertà. Resto muto circondato da piramidi Maya e tombe Azteche - tra le rovine antiche che resistono al tempo e racchiudono storie scolpite in serpenti giganti. I pensieri come le piume del mitico quetzal - sono sospinti da un alito di vento.
Soffoco in un silenzio emozionato e plano nel ritorno.
…aeronautico è il cielo. Paolo Conte.
Dall’aeroporto Aurora di Città del Guatemala viaggiamo insieme a Raul diretti ad Antigua.
Le basse case nella periferia della capitale mostrano, oltre alle scritte pubblicitarie dipinte sopra i muri, reti e inferriate di protezione murate alle porte e agli sportelli di uffici pubblici: -“I commercianti sono ossessionati dai ladri” - aggiunge Raul.
Il buio avvolgente spadroneggia sulla città; in basso alle nostre spalle, risalendo le colline, appare una distesa di cubicoli debolmente illuminati.
Parlando con Raul scopriamo che la città vive una continua espansione del tutto casuale; la forte immigrazione dalle campagne ha creato un regno di case fatiscenti, un mondo parallelo popolato esclusivamente dai poveri.
Viaggiamo sulla storica Panamericana, annunciata dall’autista con un tono di soddisfazione nella voce, una vena sempre trafficata che ossigena ed uccide il sud di questo continente. Un’arteria che ha visto transitare zucchero e vincitori di colpi di stato, Che Guevara con la sua Poderosa, invasioni di gringos e turisti ladinos.
Raul commenta con parole semplici le ragioni di povertà e sfruttamento del suo popolo; cita più volte lo sfruttamento Nord Americano delle piantagioni di caffè e dei campi petroliferi, rivela gli interessi economici del Giappone e della Corea che spremono risorse e mano d’opera, dice: - “Siamo sopra un ramo di un albero rigoglioso che nessuno ha curato ma che tutti hanno saccheggiato”-.
Le tristi considerazioni mi restano in bocca come aria fritta.
Antigua.
Il guardiano dell’Hotel ostenta un cinturone e cinque pallottole perfettamente lucidate. Il calcio di una pistola sbuca generosamente dal giubbotto di pelle nera e alzando gli occhi incontro il suo sguardo: enormi baffi neri ed un sorriso malcelato a causa del mio stupore. In questo paese “armato”, spesso incontreremo personaggi così; cinque lucide pallottole contro i malintenzionati, e per difesa personale.
Scoprirò ben presto che il cinque è anche un numero sacro.
Terra Maya e polvere da sparo!.
Dopo un giorno di viaggio ecco l’alba guatemalteca e, nella stanza 22 dell’hotel Santa Rita, ascolto da ore penetranti rumori: voci, vibrazioni di carri e autobus che corrono sull’acciottolato coloniale della città.
L’arrivo notturno mi ha lasciato la solita curiosità e non vedo l’ora di uscire in strada per rendermi conto che non è stato tutto un sogno.
La città è un gioiello dell’epoca coloniale e camminare attraverso le basse case colorate trasporta un senso di sogno quasi filmico, è come passeggiare su di un set cinematografico. Indigeni di entità diverse si distinguono dagli abiti di colori differenti e da allegorici disegni ricamati.
Le strade sono invase da un mercato continuo caratterizzato da un irreale silenzio – imbonitori riservati.
La città, fondata nel 1542, è circondata da tre vulcani: Agua, Fuego e Acatenango. I vulcani restano nascosti da fastidiose nuvole basse.
Molti sono i palazzi coloniali, restaurati e rinforzati con gabbie di acciaio, anche se il tempo e i molti terremoti hanno demolito una parte considerevole della struttura originale.
Vagare è stato il verbo della giornata e girovagando scopriamo una collina che sovrasta la città, da qui è possibile godere una splendida vista dell’area circostante. Il grigio delle antiche costruzione ed il bianco punteggiare delle chiese contrasta il verde della foresta: di fronte s’intravede il vulcano Agua. Dalla città, in basso, autobus scarburati ed esplosioni di mortaretti chiamano la notte a prevalere su tutto.
Partiamo per Sololà: non esiste un vero terminal bus, il distributore della Texaco funge da ritrovo per viaggiatori più o meno improvvisati. L’autobus ci trasporta in alto percorrendo la valle di Antigua; la strada attraversa foreste e colline quasi verticali sommariamente coltivate.
Il sole crea una colorazione brillante e mescola i campi di mais alla pinete in un unico panorama continuo - colline irrigate con il sudore…
Dopo due ore di viaggio intravediamo il lago Atitlan contornato dalle montagne.
La nostra attenzione è improvvisamente distolta dalla musica, il lamento delle trombe rimbalza sopra i vetri dell’autobus.
Il paese è in festa e nella piazza principale è allestito un mercato coloratissimo di stoffe e frutta.
Le donne maya vestono abiti ricamati con tutte le tonalità del rosso, gli uomini portano camicie sgargianti e pantaloni neri, e quasi tutti hanno un cappello a larghe tese stile rodeo.
E’ in corso una manifestazione di protesta contro la presenza invadente delle basi militari nelle terre circostanti, gli oratori a turno elencano, prima in spagnolo quindi in dialetto locale, i diritti dei contadini.
L’aria è gioiosa e battagliera, l’aspetto fiero di questo popolo è un bel segnale e mi ritorna alla mente quanto ho letto degli eccidi e delle violenze che subiscono i più poveri.
Rigoberta Menchiù raccontava così negli anni settanta: “…per noi è evidente che gli oltre 400 villaggi distrutti in Guatemala non hanno scosso la coscienza delle Nazioni Unite né quella della comunità internazionale”.
Dal 1974 la situazione non è molto cambiata, ancora oggi non si contano le distruzioni programmate dal governo e la continua negazione dei diritti umani.
Depositiamo lo zaino in un bar e ci caliamo nella centrifuga del popoloso mercato: granatine, chirimoya, succhi di frutta dolcissima e banane, sono un pasto pantagruelico da questa parti.
Sololà / Panajachel Panajachel: uno dei tanti paesi in riva al lago Atitlan. Con un pick-up scassato dirigiamo a Santa Caterina di Palopò, tra sobbalzi ed improvvise visioni dei piccoli villaggi sul lago, conversando con un passeggero scopriamo che è possibile pernottare nella casa della sorella.
Santa Caterina si rivela il vero nulla. Nessun turista e un’aria estremamente rilassata. Le donne vestono di azzurro ed il loro lavoro continuo è tessere stoffe nell’aia delle case, dove i bambini inseguiti dai cani volteggiano senza posa.
Un’ora di cammino e giungiamo a San Antonio.
Si è appena conclusa la funzione religiosa e dalla chiesa escono gli indios vestiti a festa.
A piedi scalzi discendono la scalinata della chiesa accompagnati da un silenzio irreale. Le ombre si stagliano nettamente contro i muri dipinti di bianco accecante.
Restiamo immobili, imbalsamati, ammutoliti e diventiamo parte dell’ambiente.
I bambini non tardano a prodursi in approcci più sfacciati, offriamo caramelle e saluti.
Ritorniamo prima del buio, qui si dice che la notte è molto pericolosa a causa delle bande armate. Nel budello della stanza entrano i rumori esterni: mortaretti, urla di bambini e la musica di un orchestrina approssimativa.
Con un mezzo di fortuna ritorniamo a Panajachel che mostra tutta la sua atmosfera turistica e freak.
Ci sistemiamo in un piccolo hotel concedendoci una colazione continentale, come s’usa dire, dopo giorni di pasti incerti e approssimativi. Il pane, il burro e la frutta diventano miracoli del Signore dei Maya.
Vicino alla spiaggia salpano i barconi diretti alla riva opposta del lago; intravedo in lontananza il villaggio di Santiago e la lunga attraversata permette la visione d’insieme dei vulcani che arginano le acque.
Navighiamo in una scodella di pietra lavica…
Santiago è una piacevole sorpresa; la chiesa in collina è assediata dai venditori di feticci utilizzati nelle cerimonie religiose. Compriamo banane e ananas dividendole poi con i bambini del luogo che, tra un tuffo e un altro, vengono timidamente a fare colazione. Bimbi laceri e simpatici, forse un po’ insistenti nell’offrire continuamente cianfrusaglie di ogni tipo. In riva al lago un gruppo di donne sono intente a lavare le stoffe colorate dei loro abiti, immerse nell’acqua sino alla vita adoperano mastelli di legno e bastoni.
Intorno a noi moli di attracco improvvisati. Barche e bianchi lucenti sorrisi. Sopra le pietre di fiume le stoffe sono distese ad asciugare. La natura rocciosa incombe.
Viaggiamo da Panajachel a Quezaltenango (Xela). Cullato dal bus ripensavo, vedendo le molte chiese intorno, ai danni arrecati a queste popolazioni dalla croce e dalla spada. Istintivamente scrollo il capo e sogno la salvezza…d’amore o di rivolta.
Salvezza per il popolo.
Chiese e confessioni religiose alla ricerca continua di proseliti.
Salvezza per il popolo.
La fortuna involontaria degli indios è racchiusa nella difficoltà di comprensione.
Salvezza per il popolo.
Donne fiere vanno, su strade sconnesse e colorano di rosso - d’azzurro e bianco il mondo attorno.
Salvezza per il popolo.
Popolo prostrato nel duro lavoro al ciglio delle strade.
Salvezza per il popolo.
Campi di mais piegati dall’esercizio del raccolto.
Salvezza per il popolo.
Contadini con machete e cappello di paglia - caporali con pistole e fucili a pompa.
Salvezza per il popolo.
Xela. La stanza è una cella: il letto occupa tutto lo spazio disponibile ed evadere presto all’alba è un obbligo.
Dalla stazione delle corriere, con un mezzo che solo per magia è dotato di movimento, ci dirigiamo a Zunhil. Il villaggio è tranquillo nei pacati ritmi quotidiani, la chiesa è di un bianco abbagliante. Il vulcano omonimo si staglia superbo alle spalle delle case e delle capanne, incombe su stoffe sgargianti ricamate a mano e proietta la sua ombra sopra i campi di mais.
Dalla piazza del paese partono le camionette dirette alle Fuentes Georginas e, dopo un attimo, ci ritroviamo a beccheggiare sulle strade di montagna, pigiati ad una famiglia locale che porta i figli alle fonti.
Le fuentes sono piscine di acqua bollente che fuoriesce dal vulcano, pozze e cascate contornate da una fitta jungla: felci enormi e foglie larghe più di un metro.
Sole cocente e un bagno caldo, il resto si perde nel torpore…
Al ritorno attraversiamo campi coltivati e fitte foreste dove molte sono le piante e i fiori mai visti prima, la strada sterrata vince dolcemente le colline.
I vapori sulfurei si mescolano con le nebbie serali avvolgendoci completamente.
Nella caffetteria “UTZ” di Xela è scritta a caratteri cubitali una frase di Carlos Fuentes : Isolarsi è morire, mescolarsi con le altre culture è rinascere altre volte...ed altre ancora.
Nella caotica stazione dei bus del Terminal Minerva, prendiamo al volo un autobus rabberciato per San Francisco El Alto, meta ambita quest’oggi perché è il giorno di mercato settimanale, il mercato più importante della zona.
San Francisco è uno dei tanti paesini sonnacchiosi e anonimi e ogni venerdì rivoluziona la sua calma.
Il mercato richiama migliaia di persone. Si snoda dalla piazza della chiesa formando un labirinto di banchi e mucchi: pile e montagne di varie mercanzie, stoffe ed animali, cappelli, frutta e attrezzi per il lavoro nei campi.
A parte i tentativi di furto che subiamo, naturali per la calca, la giornata si rivela un’ottima opportunità per osservare il “popolo” dei villaggi sperduti, riunito in una festa di compravendita, raccolto in un mescolio di colori che denunciano le diverse provenienze.
Ritornando verso Xela le corriere sono cariche di mercanzie e di animali stipati all’interno, dividiamo lo spazio vitale con galline e maiali.
Volti e sguardi. Non appena un volto scompare ecco materializzarsene un altro: visi tristi o austeri, volti perduti in pensieri lontani e a volte sorridenti di riso sguaiato e rumoroso. Chissà per quale ilare pensiero un popolo così sfortunato riesce a ridere ancora.
Gentili, ecco la definizione esatta, uomini e donne gentili in una delle tante repubbliche delle banane, come ingloriosamente sono definiti questi luoghi.
La processione religiosa serale, in onore del fratello della Virgen de Guadalupe, è un corteo con bande musicali e mortaretti che percorre la piazza cittadina. In coda alla processione gli assordanti gruppi elettrogeni sono spinti su carretti di legno, oppure trasportati a spalla sopra baldacchini del tutto simili a quelli delle immagini sacre - processione di Santi e di misteri tecnologici a petrolio.
Xela - Chichicastenango detta Chici. Tre ore di viaggio attraversando le piantagioni di mais.
A Chichi incontriamo Tomas, un ragazzino che trascorre la giornata ad aspettare i turisti per indirizzarli negli alberghi del paese e ci offre una sistemazione “mas barato”, come la chiama lui, che fa al caso nostro. Sessantasei queztal per notte: pensione Salvador, salvatore di chi, mi chiedo!
La stanza non è una reggia ma al confronto con quella di Xela è principesca. Le stanze monacali si affacciano ad anfiteatro su di un patio in salita, e le immagini sacre spuntano da ogni piccolo anfratto del muro di cemento.
Occhi di santi e fiori di plastica…
La colazione è a base di uova e fagioli e ci concediamo il lusso di un po’ di formaggio della zona.
Chichi è sospesa in un’atmosfera particolare, forse causata dall’aria umida e piovigginosa, l’aspetto turistico è molto pressante ma i ritmi quotidiani, della vita locale, paiono estranei alla confusione dei giorni di mercato.
Qui si svolge uno dei mercati più famosi del Sud America.
La messa all’interno della chiesa di San Tomas procede disinteressandosi completamente della confusione esterna.
La vita in strada è caratterizzata da un incessante salmodiare di venditori di pollo, banane fritte e suppliche in sordina di chi chiede la carità.
La chiesa è colma di indios, moltissimi scalzi, attenti alla funzione a dir poco atipica. Sacro e profano non hanno riferimenti precisi, ho molti dubbi riguardo a che cosa definire sacro in questa terra…sicuramente non la vita degli indios. Antichi miti si intrecciano ai Santi Cristiani.
L’incenso bruciato all’esterno, sopra la scalinata della chiesa, si disperde dall’oscillare continuo degli incensieri.
L’incenso imbruna l’aria con un umido vapore profumato.
Alcune famiglie circondano, fuori e dentro la chiesa, gli intermediari della fede: emulano il “mediatore” in ogni gesto propiziatorio, non abbandonando mai colui che misteriosamente dialoga con il Signore.
Accendono ceri votivi posti sopra le lastre di pietra scura, tra petali di rosa e alcool versato, accompagnando il rito con preghiere indecifrabili ripetute all’infinito.
La chiesa di San Tomas è ricca di addobbi: enormi tabernacoli di legno ed effigi di Santi, piume d’uccelli, cesti con frutta di plastica e tavolini come altari di riserva.
Petali di fiori e cera disciolta si fondono insieme, aromatizzano l’aria di un profumo dolciastro.
Un piccolo sentiero indirizza ad una collina fuori città dove un sito religioso antichissimo è luogo di riti propiziatori, gli indios ne indicando la via pronunciandone il nome con un’espressione estatica.
Pasqual Abay è avvolta da cortine palpabili di nuvole basse, i pellegrini trovano posto nella parte centrale di un semicerchio di pietre. Una masso di forma fallica è il riferimento magico cui si rivolgono le preghiere di antiche origini.
Un fuoco indica la posizione del “tramite” e al suo fianco gli interessati del responso restano immobili a testa bassa.
Un bimbo in fasce è fatto passare sopra il fuoco attraverso le cortine di fumo. A terra sono riposti tutti gli ingredienti della cerimonia: petali di fiori, pezzi di legno per il fuoco, bottiglie di intrugli alcolici. Il tutto accade in un silenzio rotto solo dalle cantilene propiziatorie e ululati di cani in lontananza.
Da sempre in questa collina avvengono riti e sacrifici animali.
I turisti sono tollerati e molti sono accompagnati da guide improvvisate, quasi sempre bambini che rincorrono come possono l’infanzia negata tra una corsa per gioco ed una mancia.
Nel mercato al coperto di Chici i bimbi ci assediano con fare gentile e insistente allo stesso tempo, vendono piccole scatole colme di minuscole bamboline portafortuna. Il loro è un avvicinamento curioso e circospetto che sfocia in timide risate.
Eccoci di nuovo nei ritmi del viaggio. Partenza per Santa Cruz de Quichè. Un interminabile saliscendi tra le colline “dell’altiplano”: boschi di pini e campi coltivati, dove nella notte le temperature scendono a zero gradi.
Osservando gli indios e le loro capanne, mi rendo conto di quanto è faticosa la vita in questi luoghi; la paura del freddo e della polizia, dei soldati e del padrone…come si può resistere a tanto.
Quichè direzione Sacapulas…
Lo spostamento continua attraverso luoghi di transito sino ad arrivare a Uspatan, dove scopriamo che l’autobus per la nostra meta partirà la mattina successiva.
Non ci resta altro da fare che cercare da dormire alla Casa del Viajero, l’unica possibile sistemazione.
Mi ritorna alla mente Rigoberta Menchù; i racconti che narrano di questi luoghi e degli eccidi del 1980, descritti nel suo libro “I Maya e il mondo”.
La sistemazione per la notte è davvero essenziale: un loculo con bagno esterno, agua fria e nada mas.
La cena superba è composta da un piatto di frijoles, fagioli, e uova fritte, un vero lusso tutto sommato.
Uspatan, con la nebbia in stile invernale, sarebbe sicuramente definita da Lobo Antunes “un vero buco di culo”.
Una landa desertica, fredda, dimessa, con le case eternamente in costruzione e i piccoli negozi bui e malconci. Le osterie del villaggio hanno una paratia all’ingresso, una sorta di paravento che nasconde l’interno - atto di discrezione nei riguardi dei bevitori.
Nel buio totale del mattino parte la corriera per Coban. Ondeggiamenti e sbalzi repentini dal seggiolino, buche e il buio della notte. Le frenate improvvise accolgono all’interno del “carro” anime sonnolente lievitate nel buio: contadini con machete legati in vita e viaggiatori locali.
L’allegra assonnata compagnia sale e scende miraggi di strade sterrate. Intorno a noi unicamente buio e polvere.
All’alba arriviamo a Coban che ci accoglie con una super caotica stazione delle corriere, infangata e approssimativa, e il viaggio non è ancora finito.
Saiaxchè, la nostra meta, sembra più lontana della luna.
La confusione generale ci trottola alla ricerca della corriera giusta, ma è facile solo a dirsi, il nostro non è un percorso frequentato dai turisti; qualcuno parla di un “cruce”, un incrocio che potrebbe fare al nostro caso. Un crocicchio in un punto non ben precisato del Petén.
Tentiamo di identificarlo sulla cartina geografica, ma è impossibile.
Il carro prende il via alle nove del mattino, il suo carico è simile a quello dell’arca di Noè: cani, galline legate in reste di corda, campesinos, donne che allattano e bimbi che ci osservano curiosi.
Le colline verde smeraldo, le case di legno e le capanne di paglia, si susseguono in questo spostamento diretto all’immensa piana di El Petén.
La strada che taglia la foresta è molto stretta e obbliga a soste forzate non appena uno dei tantissimi camion si blocca per problemi meccanici.
Lentamente sgraniamo il rosario delle ore.
Nelle lunghe attese si mangia: tamales, involtini di foglie di mais con all’interno farina e fagioli e poi banane, noccioline e intrugli intraducibili che si comprano ai lati della strada, quando la sosta dà origine a piccoli mercati improvvisati dagli indios delle capanne vicine.
Dopo cinque ore eccoci alla famosa croce: un niente assoluto, un incrocio posto chissà dove in quel mare verde.
Un piccolo spaccio di alimentari, costruito con assi di legno e il tetto di onduline, è l’unico segno di vita - intorno a noi non esiste altro.
Appena scesi a terra scopriamo che il primo mezzo pubblico per Xchè passerà il mattino seguente.
Increduli ci abbandoniamo su di una panca di legno con gli zaini pronti a far da cuscino per la notte imminente.
L’unica alternativa è seguire il consiglio dei pochi abitanti. Ci raggiungono per curiosità nella nostra postazione di attesa e raccomandano: -“Fermate ogni mezzo che transita e chiedete un passaggio”.
Inizia così la corsa diretta ad ogni mezzo su ruote che nel buio arriva e nel buio si dissolve. Con speranzose corse e ritirate infruttuose, riempiamo la serata della famiglia che gestisce la capanna nel nulla. La loro allegria non ha toni di scherno e il capo famiglia, ad ogni nostro tentativo, si batte un pugno nel palmo aperto delle mani per rimarcare l’insuccesso.
La stella del viaggiatore improvvisamente torna a brillare.
Un camion mastodontico si materializza nel buio assoluto. Corriamo nella sua direzione spazzati dalla luce dei fari e l’urlo ferito dei freni è per noi un cantico di vittoria. E’ il carro della salvezza. Il camion trasloca arredi nella nuova casa di Xchè, ha i parapetti altissimi che mettono a dura prova le nostre doti arrampicatorie. Saliti al volo ci incastriamo tra letti e materassi, e ci accorgiamo di non essere gli unici passeggeri della notte.
Tra saluti, presentazioni e risate, riparte l’esultante compagnia di sconosciuti.
La notte del Petén è inchiostro caduto dal cielo. E le rane nel buio si lamentano con un respiro da fumatore incallito.
Sayaxché.
L’alba a Xchè è ritmata dai suoni della foresta: uccelli e scimmie urlatrici, suoni estivi e tropicali nonostante la temperatura invernale e le nuvole basse di questi giorni. Consumiamo una colazione frugale in riva al Rio della Passione, quindi affittiamo una barca per raggiungere il sito archeologico maya-tolteco di Ceibal.
Un’ora e mezzo di navigazione sul fiume arginato sino al cielo dalla foresta pluviale, all'intorno continui voli di uccelli coloratissimi e caimani che fuggono smuovendo piccole onde. La barca ci lascia vicino ad un piccolo sentiero che diparte da una spiaggia; il sito archeologico è distante circa un chilometro e mezzo. Proseguire tra le ceibe e le palme giganti, nel caldo umido popolato di zanzare fameliche, riporta alla mente memorie di Amazzonia e Africa.
Gli scavi archeologici sono immersi nel verde e la foresta impenetrabile produce lievi suoni nel suo instancabile crescere.
L’affascinante piazza centrale è contornata da pilastri di roccia scolpita e nella parte intermedia sorge una piccola piramide; il luogo è percorso da sentieri che tracciano le vie dell’antica città.
Le lunghe soste sono proibitive. Non appena ci si ferma le zanzare voraci pasteggiano a nostre spese e solamente la brezza serale ci salva dalle morsicature degli insetti.
Dalla barca osservo capanne e animali. L’atmosfera tranquilla e il tramonto sono il giusto premio a tutte le buche sofferte per arrivare in questo luogo.
Girovagando per il villaggio incontriamo il comedor del Viajero, uno spettacolo di equilibrismo architettonico: in pratica è una palafitta interamente di legno e i muri divisori sono stoffe tese. La birra, il pollo e le patate fritte ne completano la definizione di “un terribile luogo incantevole”.
Nel resto del paese incontriamo solo locali bui e un’assordante musica natalizia che contrasta con l’arrivo della notte primordiale.
L’alba ci offre un cielo limpidissimo.
Seduti nel patio, in compagnia di un pappagallo rumoroso, osserviamo il Rio della Pasion reso rugoso dal lavoro di uomini che con barconi e chiatte traghettano persone e camion dall’altra parte del fiume. Questo è l’unico sistema per raggiungere Florès; la strada è tagliata nettamente dal Rio e tanto nettamente risorge di fronte a noi.
Traghettiamo con un gruppo di lavoratori locali e con uno di questi dividiamo l’attesa dell’autobus per Florès parlando del duro lavoro dei contadini, delle pensioni, del sistema sanitario, dei diritti negati e della mancanza di futuro per la maggioranza della popolazione.
Ed eccoci nel “Biotopo turistas” di Flores: alberghi, ristoranti, negozi di souvenir, il tutto immerso in un aria rilassata ed efficiente. Sfruttiamo al massimo le comodità inaspettate dell’albergo fantasma, privo di acqua calda ma dotato di una lavanderia che rimette in sesto il nostro zaino.
Partenza all’alba diretti alla grande città maya di Tikal: il sito archeologico più importante di questa cultura.
E’ ancora buio quando arriviamo nei pressi del parco archeologico e muniti di torcia elettrica iniziamo l’avvicinamento.
L’atmosfera è irreale, procediamo nella completa oscurità, la foresta si sveglia lentamente accordando suoni e movimenti di scimmie urlatrici, di pappagalli e tucani.
Il sentiero principale penetra l’intrico della foresta, le piante altissime formano un muro insormontabile verso il cielo e intorno rumori di foglie che cadono, e scricchiolii – sonoro della foresta preistorica.
Nell’aria fresca del mattino la nebbia fa scendere l’altezza del cielo appena sopra gli alberi.
Improvvisamente la nebbia si dipana; riusciamo a intravedere la piramide della Plaza Mayor e quella visione repentina ci lascia ammutoliti. La nebbia e la silhouette della costruzione alta cinquanta metri è un tutt’uno. E’ come osservare una litografia usurata dal tempo, una visione onirica, una città inventata dove camminiamo, come in un labirinto, alla ricerca della Porta del Sole.
La Piazza Centrale ha due grandi piramidi. Risaliamo la piramide ovest in silenzio.
Coppie di uccelli colorati si inseguono svolazzando di ramo in ramo e i richiami delle scimmie preannunciano l’arrivo dei primi raggi del sole. Rimango ammutolito osservando il mondo sottostante.
Si racconta che questa città fu scoperta da un “ciclero”, un raccoglitore di succo di sapodilla, l’antica cingomma per intenderci. Nell’immensa foresta si scava ancora alla ricerca di palazzi e tombe dell’antica Tikal, la foresta è il guardiano naturale di questo luogo e la foresta potrebbe riprendersi in poco tempo tutto quello che noi vediamo.
Luoghi di cerimonia e di vita - perle colorate nella verde distesa del Petèn. Sacrifici - scienze astronomiche - divinazioni e feste.
Forse solo il rumore della foresta è rimasto immutato nel tempo. E’ suggestivo vagare tra le rovine di palazzi e templi, risalire le diverse piramidi maya immaginando i colori e le persone che abitavano questo luogo sette secoli prima di Cristo, e che in seguito abbandonarono misteriosamente lasciando ancora oggi molti dubbi agli archeologi e ricercatori: “ Perché una fuga così repentina? “.
Il tempio più alto è di sessantaquattro metri e vi si accede per mezzo di una scala di legno molto ripida, si sale aiutati dalle radici di enormi alberi che hanno formato un reticolo, e l’intrico casuale nasconde e protegge le pietre antiche.
I colori e le incisioni sono per lo più scomparse, a tratti si notano tracce di scrittura maya, si intravedono Principi guerrieri e calendari astronomici.
Mi siedo ad immaginare il Supremo Principe Ah-Cacau assiso al trono, oppure mentre transita tra le arcate a modiglioni, con l’abito colorato abbellito di piume e collane di giada.
Improvvisa la sua voce rompe il silenzio e chiama il Dio Sole ad impossessarsi di tutto.
Sono trascorse dieci ore. Dopo tanti anni di immagini fotografiche e letture di scoperte archeologiche sembra impossibile ora far parte del panorama di questo luogo. Poter muoversi tra le rocce e i templi, tante volte banalizzati dal catodico vetro casalingo che tutto vede e tutto macina. Anche solo la visita a questo luogo può valere un viaggio di giorni e giorni, assaporando il lento avvicinamento e sopportando scossoni su autobus improbabili.
Flores: ore cinque antimeridiane. Le note di una serenata trasportano allegria nel buio del mattino. Un gruppo di musicisti in strada suona vicino ad una porta, intonano una canzone sdolcinata: è un regalo di compleanno. Increduli sorridiamo a tanta allegria e dirigendoci alla stazione degli autobus passiamo vicino al gruppo in festa, la famiglia ha aperto la porta di casa ed offre da bere ai vicini assonnati. Baci e saluti, aria di casa e per regalo una canzone.
Questa è la visione del Guatemala che ci porteremo dietro per un po’ di tempo, mentre ci prepariamo ad un lungo viaggio diretti in Messico.
Inizia così lo scorrere filmico delle frontiere: Guatemala, Belize, Messico. A Belize City sembra d’essere piombati in una fetta d’America stile New Orleans: una geografia piatta con fiumi, foreste e poi…il mar dei Caraibi.
MEXICO.
Arriviamo a Chetumal in Messico e dirigiamo per Tulum: il mare e le rovine maya dello Yucatàn.
Dopo ore ed ore di viaggio accogliamo con sollievo i tre chilometri a piedi che ci separano da Tulum. Raggiungiamo la spiaggia e affittiamo una capanna. Il luogo assomiglia ad un campeggio con le amache appese ovunque, l’atmosfera ricorda l’epoca degli anni settanta e il film Puerto Escondido di Salvatores.
Capanna numero sei: pali legati uno all’altro, un letto centrale, candele per la notte, insetti da competizione e gli iguana che fanno capolino. Il mare, la sabbia e l’immensità del cielo stellato fanno il resto.
La città fortificata di Tulum: città dell’Alba. Gli indigeni un mattino videro arrivare dal mare i conquistadores e la storia da quel momento si è fermata.
Ora la città giace immobile tra il verde e il mar dei Caraibi.
I palazzi e i templi erano in origine coloratissimi, oggi restano stucchi in rilievo raffiguranti Tlaloc, il dio della pioggia, che fuoriesce dalla struttura centrale come spinto da una volontà di fuga.
Nonostante la presenza umana, di turismo straniero e locale, il luogo è rimasto inalterato nella sua natura. E’ possibile vedere gli iguana prendere il sole nelle stradine che seguono il profilo della costa, ed una vegetazione bassa e continua copre questa terra dello Yucatan.
I voladores in costume tradizionale sono appesi ad un alto palo. Legati per la caviglia volteggiano scendendo lentamente accompagnati dalla musica di un flauto; questa pratica risale al tempo dell’impero maya ed ora è ad uso turistico.
Tulum è un luogo di storia ma certamente non di autentico colore messicano.
Lentamente si fa sera. Le nuvole interrompono il reciproco inseguimento. Le pietre antiche si ritirano nell’oscurità e i viottoli di calcare - lucidati da passi umani - appaiono umidi dall’incidenza del sole.
Xcacel dista sedici chilometri da Tulum, lungo la strada che porta a Cancun: è una riserva integrale sul mare, con un campeggio ed una spiaggia di coralli fossili.
All’interno del parco i piccoli sentieri conducono ad un cenote: un pozzo naturale di acqua dolce, caratteristico di questa terra calcarea. Nell’acqua dolce nuoto con un certo senso di disagio pensando all’utilizzo di questi laghi in miniatura. Qui erano sacrificate le vergini, per propiziare il buon raccolto e accattivarsi le divinità.
Il vento incessante non da tregua. Un pellicano si tuffa nel mare alla ricerca di cibo.
Chitcen-Itzà. La grande Piramide del sole. Kukulcan… Nomi sparsi nella memoria che ora prendono forma.
Il luogo è notevole, ampie radure con piramidi e altari: l’altare dei giaguari e dei teschi, l’osservatorio astronomico e il colonnato scolpito con motivi geometrici e figure di guerrieri, serpenti e aquile raffigurati mentre mangiano il cuore di corpi sacrificati.
La grande piramide ha gradini quasi verticali e centralmente alla scalinata è murata una catena di ferro per aiutare la salita di improvvisati climbers. Il panorama dalla sommità è davvero ripagante, il luogo è completamente circondato da un mare di vegetazione.
La grande piramide si innalza severa in un luogo di magia - di sacrifici e piume di quetzal. Le ombre dei serpenti scolpiti discendono i gradini nelle notti di equinozio…
A Vallalolid visitiamo la chiesa fortificata di San Bernardino da Siena. Noè, la nostra piccola guida, racconta aneddoti sulla natura di tale fortilizio religioso -”E’ stato costruito con tali accorgimenti per difendersi dai contadini maya, giustamente contrari ad ogni presenza straniera che tendeva al loro sfruttamento”-.
Partiamo per Mérida, l’antica Thio. E’ la vigilia di Natale.
La città ci accoglie con una confusione vitale di venditori in strada, scampanellii e un traffico incessante.
All’improvviso un gruppo di soldati entra marciando in pompa magna nello zocalo, la piazza centrale. E’ il momento dell’ammaina bandiera e muniti di sfollagente vanno per il parco e obbligano le persone ad alzarsi in piedi in onore del vessillo nazionale. Il mattino seguente scopriremo, di nuovo, che questa bandiera in Chiapas si fa poco onore, e la notizia riportata dai giornali è terribile: Strage in Chiapas, 45 morti assassinati dalle truppe paramilitari.
Presidi e piccole manifestazioni si svolgono nella città sotto gli occhi attenti e severi di soldati e polizia, l’aria è pesante da smuovere ma soprattutto da respirare.
Si accendono ceri sulla strada, in una improvvisata messa all’aperto di fronte alla cattedrale.
La cattedrale di Merida sorge di fronte alla Plaza Mayor, nello stesso luogo dove i maya per secoli hanno invocato i loro dei. L’edificio sacro è stato edificato utilizzando le pietre di antichi siti religiosi maya; le pietre ancora portano incisi i segni di altri riti e credenze. La cattedrale ingloba nel suo slancio di perfette geometrie due realtà contrapposte all’origine ma in seguito unite, con molta astuzia, in un unico luogo di preghiera.
…ed ora ascolto veglie funebri. Orazioni - fumi di incenso e memorie scomparse. La nudità maya diventa un pregio. I padroni sfruttano quei piedi scalzi - quelle schiene nude alle fruste. Ma quale pace – dov’è la salvezza per i contadini e i poveri?. Guerra di caste e sogni di rivoluzione. Poveri martiri che trascorrono la vita in terre di sudore - e nonostante il sole cocente è sempre poca la luce. Tristemente vivono un mondo di fuoco - di sale e d’angoscia.
Questi poveri - che si trascinano - hanno avuto madri e padri. Questi poveri sono costretti a fuggire dalle bande paramilitari. Questi poveri vivono di sogni.
Prenotiamo i posti per Palenque nel bus notturno. Nell’attesa andiamo al Museo Antropologico che dista cinque cuadras dalla piazza principale: nel vecchio palazzo restaurato la storia archeologica e antropologica è di facile lettura, i reperti sono interessanti e le carte esplicative esaurienti nella loro semplicità. Rivediamo fotografie e planimetrie dei siti archeologici visitati da poco tempo. Interessanti ritrovamenti di teschi “ovali“, modificati per mezzo di legni legati alla scatola cranica: la forma allungata della testa era il simbolo di appartenenza ad una casta elevata.
L’interno del museo è freschissimo, l’esterno è afoso e senza riparo…pensare che è inverno.
Pranziamo al secondo piano del mercato coperto, un mercato zeppo di ogni cosa vendibile o barattabile, così grande da assomigliare ad un quartiere più che ad un luogo di commercio.
Nel palazzo del Governo i murales di Fernando Castro Pacheco, dipinti nelle sale interne, sono una sorpresa. Gli affreschi descrivono la storia Yucateca ed in generale quella maya, le pitture si riferiscono ai conquistadores e alla cultura indigena. Pacheco si rivela un autore attento e sensibile alle problematiche indios e totalmente schierato dalla loro parte. In un pannello l’eroe indio Nachi Cocom, è raffigurato legato e incatenato, è lui il simbolo della resistenza maya contro gli spagnoli. Il salone del palazzo merita una lunga sosta e tristi considerazioni.
Palenque. Chiapas.
Arriviamo a Palenque prima dell’alba e mentre la città si sveglia andiamo alla ricerca di una posada e di un bar per una pasteleta.
Parque Nacional Palenque: la bruma del mattino si trasforma in pioggia. Il luogo conserva un’atmosfera molto particolare, soffusa e intima nonostante la presenza di moltissimi visitatori. La Piramide Maggiore, o Tempio delle Iscrizioni, cela al suo interno la tomba di Pakal, protetta da una lastra sepolcrale scolpita con una rappresentazione che, negli ultimi anni, ha dato adito a molte teorie tra cui una extraterrestre, la pietra è conosciuta con il nome “dell’astronauta di Palenque”. La tomba è raggiungibile tramite una scalinata umida e resa scivolosa dal calpestio continuo dei visitatori.
Il Tempio della Croce è uno dei trentaquattro monumenti riportati alla luce, dei quasi cinquecento ancora celati dalle piante della foresta impenetrabile - foresta di giganti floreali. La pioggia aumenta e ci ripariamo alla meno peggio, gli indios utilizzano enormi foglie come ombrello.
Tentiamo di visitare il Museo Archeologico poco prima della partenza del bus per San Cristobal de Las Casas. Purtroppo il museo è chiuso e riusciamo a vedere solo qualche pietra tombale attraverso le larghe vetrate.
Il viaggio dura cinque ore, la strada sale sino a duemila metri, ci lasciamo alle spalle le brume e la pioggia.
A San Cristobal la giornata è splendida ed il primo approccio soddisfa “i viaggiatori stanchi”.
La camera si affaccia su di un patio con un lavatoio in comune e crea un’atmosfera di casa vissuta.
Seduto all’ombra, scrivo protetto dai piccoli animali in terracotta di Amantenango: piccole ceramiche povere vendute in strada da bimbi e donne dei villaggi vicini.
L’ufficio della ONG che cura l’accreditamento presso i villaggi zapatisti è chiuso e rimandiamo l’incontro tanto atteso a domani.
La cena al Normita è d’obbligo: è un locale prevalentemente per stranieri ma dopo tanti giorni di cene approssimative cediamo alla tentazione.
L’ufficio dell’Organizzazione non Governativa è ancora chiuso, abbiamo l’impressione che non sia per caso, probabilmente gli ultimi avvenimenti hanno represso le associazioni d’appoggio agli zapatisti, tentiamo quindi con l’invio di un fax scritto quasi in codice cifrato allegando il nostro recapito in città. Nell’attesa partiamo per Chamula, un villaggio celebre per i riti che si svolgono nella chiesa e in altri luoghi sacri della campagna circostante.
L’intorno è bruma e pioggia e come dice Edoardo Galeano : - la bruma è il passamontagna della selva e tutto nasconde.
Gli uomini indossano ponchos di pelo nero e stoffa bianca; di fronte alla chiesa a turno restano immobili a far da guardia. L’atmosfera è irreale, congelata in uno scatto fotografico che è obbligo portare solo nella propria memoria.
Devo fare molta attenzione quando fotografo, in alcuni luoghi è tassativamente vietato scattare fotografie o filmare eventi religiosi. Un grande cartello, all’ingresso del paese, riporta minaccioso il divieto e si racconta che le punizioni siano esemplari.
Al “mediodia” esce il sole ed i colori riscoprono improvvisamente la loro vera natura.
Il mercato è affollato ed in piena attività, incessanti sono le offerte dei venditori di stoffe e collane, bracciali e animali, pupazzi che raffigurano il Sub Comandante Marcos con passamontagna e fucile.
San Cristobal è preso d’assalto da turisti su candide corriere di lusso, scendono al volo e risalgono fuggendo i mendicanti. Villaggio di banche e gioiellerie al limitare della dura selva.
I colori sono gli attori principali della città e le chiese sorgono in ordine sparso.
L’atmosfera quest’oggi è all’erta e tesa; i giornali riportano parole d’ordine governative e minacce rivolte ai contadini.
Territori dove la pace è ancora lontana - dove bambini scalzi vendono mercanzie a pesos - ed allo stesso prezzo il potere tenta di comprare la loro dignità…inutilmente.
Il risveglio a San Cristobal ci propone l’ennesimo tentativo all’ufficio di Enlace Civil, ancora una volta infruttuoso. Incontriamo un messicano diretto anche lui ai campi, ed insieme cerchiamo informazioni presso la Diocesi e quindi all’Ufficio dei Diritti Civili. Ritornando alla sede della ONG finalmente incontriamo i responsabili, a quel punto tutto procede velocemente. In poco tempo prepariamo la sacca da depositare all’albergo e ci lanciamo sulla strada alla ricerca di un mezzo di trasporto per Bochil; l’autista consiglia di evitare i soldati e la “migra”.
Ci dirigiamo ad Oventic, un accampamento ad un ora e mezzo da San Cristobal.
Le condizioni meteorologiche peggiorano di chilometro in chilometro e la nebbia è padrona assoluta in questi luoghi di montagna.
Arriviamo ad Oventic con la visibilità ridotta a poche decine di metri. All’ingresso dell’accampamento un ragazzo dal volto coperto ed una stella sul passamontagna controlla l’autorizzazione e il passaporto, rapidamente apre gli zaini avvisando che è vietato introdurre armi e droghe.
Oltre il filo spinato esiste solo la fredda nebbia e non comprendiamo la reale ubicazione delle strutture.
Incontriamo altri stranieri che svolgono funzioni di osservatori, a nostro parere un po’ troppo osservatori, la confusione dello spazio comune e gli sguardi non proprio socievoli ci spingono a cercare una capanna libera, ne scoviamo una decisamente più spartana. L’alcova si riduce ad un tavolato: una struttura di paglia senza porte e intorno al letto sono inchiodate delle strisce di plastica per riparare dal freddo pungente. Incontriamo Nicola, un ragazzo siciliano che lavora presso l’infermeria del campo e chiacchieriamo con lui di tutte le cose rese invisibili dalla notte repentina: un piccolo spaccio di alimentari, lo spazio comune, i servizi igienici fatiscenti.
I murales, che raffigurano Emiliano Zapata e il Che, addobbano le capanne di legno mentre il freddo recita la sua parte migliore.
Dalla nebbia lievita un campo di basket: due squadre locali si improvvisano finaliste della Coppa del Mondo e tutto intorno, seduti sopra gradinate di fortuna, i tifosi seguono in silenzio le umide tattiche, mentre una musica suonata dal vivo rende tutto irreale.
Un tè caldo tonifica un poco e lentamente entriamo nei ritmi serali tra i saluti composti degli indios.
Il sacco a pelo aiuta a combattere il freddo della notte: la temperatura scende a quattro gradi sotto lo zero ed è come dormire all’aperto.
Sogni e repentini risvegli ritmano la notte della selva - il sonno agitato dal freddo non ha tregua. Notte di cani in lontananza e passi affrettati. Profonde voci chiacchierano in dialetti diversi. Nella notte i turni di sorveglianza scandiscono le ore del martoriato Chiapas!
Ultimo giorno dell’anno.
Un particolare ringraziamento al grande sole della montagna; questa mattina splende senza timidezza e rimuove l’umido nelle ossa.
Andiamo alla ricerca di un lavoro utile alla comunità. Ci uniamo ad un gruppo di volontari messicani intenti al trasporto di mattoni destinati alla costruzione della scuola rurale. Un muto passamano, quindi un riassetto provvisorio delle capanne comuni che accolgono famiglie indios e osservatori internazionali.
Il torneo di basket va avanti: le partite cominciano alle otto di mattina e sono intervallate da sostegni musicali con marimbe e chitarroni. Intorno a noi è un lento fluire di campesinos vestiti a festa e mi viene in mente un detto di questi luoghi: “Siamo gli uomini e le donne di mais, siamo mais che alimenta la storia”.
Improvvisamente voci esagitate scuotono l’aria. Seguiamo d’istinto la folla che corre verso la strada esterna dove è atteso il passaggio di un convoglio militare, velocemente si forma un blocco stradale, una catena umana, mano nella mano: i volti nascosti dai fazzoletti rossi, passamontagna, cappelli di paglia e abiti neri ad officiare un lutto continuo.
L’allarme rientra e lentamente rifluiamo nell’accampamento, le partite riprendono ed il sole sulle gradinate è ora cocente.
La giornata prosegue con la sistemazione delle cataste di legna e lo sgombero di detriti dai campi.
Terra di fango. Popoli riuniti a difendersi. Nulla da perdere e forse poco da guadagnare. La libertà è ancora lontana…
Popolo di creature solari e animali notturni, uomini e donne rigidi tanto con il caldo quanto con il gelo, appaiono immortali, ma purtroppo so che non è così.
Non scommettono mai sulla loro vita, il futuro è incerto per questi bimbi così seri nei loro giochi.
Corrono improvvisamente le notizie sulla strage di Acteal. Seguendo i racconti i visi diventano tristi, poi la sera alita buio e pioggia sottile. Il campo di gioco è lasciato libero trasformandosi in una pista da ballo, la musica cessa di colpo e dalla collina, una folla indistinta, scende correndo con le torce accese: zapatisti, uomini e donne con passamontagna e fazzoletti sul volto.
La musica intona una marcia e la corsa diventa una sfilata irreale. I bastoni di legno sono imbracciati come fossero fucili e gli indios disegnano un ampio cerchio passando vicino agli spalti. Lampi di fiaccole accese, urla di festa - augurio di buon anno; sono le undici, gli zapatisti non accettano l’orario del governo messicano e il loro orologio è un’ora avanti.
Questa notte si celebra il quarto anniversario della recente rivoluzione, di quando Marcos e l’esercito zapatista entrarono a San Cristobal. Da allora, paramilitari e soldati, con il silenzio consenso del governo messicano continuano nella repressione indigena, cercando di eliminare la loro presenza ed i loro diritti, perpetrando attentati e stragi…sino ad arrivare alla strage del 23 Dicembre di quest’anno.
Fiaccole nella notte. Selva - piedi scalzi e suole bucate. Gli indios corrono leggeri - come leggero è il loro ballo - come in questo momento è leggero il mio cuore.
Nell’aria evanescente intravedo ombre e sagome, abiti lucidi di pioggia e flosci cappelli, impronte di piedi scalzi nel fango e pozzanghere che riflettono altre pozzanghere e terra.
Il suono dei differenti idiomi si mescola cullato da marimbe scordate e batteristi svogliati.
Ultimo giorno dell’anno - il primo giorno del nuovo anno: tutte parole, solo termini senza senso, il vero senso è solo speranza di vedere calzare a questi piedi nudi un po’ di calore.
Una speranza di vita dignitosa, in territori dove si muore di malattie, di machete, di pallottole e indifferenza.
I canti patriottici e di lotta non sempre mi emozionano e qui nei canti la parola patria è sconosciuta.
Penso che anche noi occidentali dovremmo tramutare “Patria” in “Terra” e non dimenticare il dono del canto e del sogno.
Gli indios dicono: – “Insegna ai tuoi bambini quello che noi abbiamo insegnato ai nostri figli: che la Terra è la nostra madre. Qualsiasi cosa accada alla Terra accade ai figli della Terra. Questo noi sappiamo: la Terra non appartiene all’uomo, l’uomo appartiene alla Terra”.
Le troppe emozioni possono uccidere. La mancanza di esse crea uomini morti.
1 Gennaio.
Parola del giorno: “Fango”.
Alle cinque di mattina ci sveglia un falso allarme, corre la notizia del possibile transito di una colonna di soldati o paramilitari.
Ormai svegli ci avviciniamo al fuoco, protetto da una tettoia di lamiera, in compagnia di una famiglia campesina originaria di Zincatan.
Le note di “Tierra mestiza” di Gerardo Tamez riempiono l’aria, è un brano musicale con violino, basso, chitarra e percussioni che ascoltato una volta è impossibile dimenticare. Una dolce e triste melodia che crea il sonoro alla visione delle famiglie indigene, gli accordi languidi accompagnano i contadini scalzi e infangati e le donne con l’eterno sacco della prole legato alla schiena.
Il freddo è logorante e il corpo vive solo di questo nutrimento sonoro.
Nel pomeriggio inizia l’esodo dei partecipanti alla festa-anniversario e lentamente, sempre in silenzio, risalgono la china fangosa che porta alla strada principale, dove attendono il passaggio di un mezzo per ritornare ai propri villaggi. Quando la giornata scorre segnata da ritmi oramai familiari, avviene l’inaspettato. Avvisano il campo dei movimenti di truppe paramilitari dirette ad Oventic.
La situazione si chiarisce dopo poco tempo: bisogna velocemente lasciare il campo, le azioni repressive non si fermano certo di fronte ad osservatori internazionali.
E’ buio e la pioggia si confonde con la “nulbe”, tutti gli accampamentisti sono chiamati nel luogo di raccolta dello spazio comune. Qui avviene un corso rapido di fuga, le indicazioni sono di tenere le luci rivolte a terra, mantenere il silenzio in fila indiana tenendosi ad una corda tesa di riferimento e seguire gli ordini alla lettera.
Ci sistemiamo nel grande capanno, le donne divise dagli uomini, tutti pronti alla fuga verso la montagna.
Fuori è notte profonda.
L’attesa nel silenzio assoluto dura due ore, qualcuno dorme, altri pregano a mezza voce traditi solo dal movimento delle labbra, altri ancora cercano di sdrammatizzare la situazione raccontando aneddoti divertenti.
Io e Luly siamo lontani, a tratti riusciamo ad incontrarci con lo sguardo, sono quasi certo che l’allarme rientrerà.
Dato il protrarsi dell’attesa cado in un sonno leggero. Improvvisamente una campanella fa scattare tutti in piedi, è il segnale convenuto, zaini in spalla e mano alla corda.
Per primi partono donne e bambini, di seguito gli uomini; gli zapatisti del campo regolano l’andatura e ordinano: avanti, a terra, a destra, più veloci, regresemos.
Inizia così l’esodo in un silenzio rotto solo dalle scariche delle ricetrasmittenti in contatto con la selva.
Gli sguardi sono diretti al buio intorno dove le ombre disegnano paure, ho l’animo stranamente tranquillo a parte l’apprensione per Luly che non vedo dalla partenza.
Quasi cento persone incolonnate in una irreale fila indiana unita dalla corda ombelicale, attraverso la quale si percepiscono le tensioni dei corpi altrui.
Siamo seri e silenziosi come un plotone ben addestrato.
Due fari di auto improvvisamente bucano la nebbia e letteralmente ci buttiamo sulla destra protetti da un terrapieno, per fortuna è un falso allarme.
Dopo un ora di cammino risaliamo le colline inerpicandoci su di un sentiero fangoso, il percorso è reso scivoloso dalla pioggia e dai tentativi equilibristi di quelli che mi hanno preceduto.
Una processione di luci sale la montagna.
Le comunicazioni via radio degli zapatisti sono continue, segnali di via libera si alternano al ronzio delle radio in attesa. C’è chi cade, chi trema dal freddo, chi ansima, c’è chi sta’ pensando che finita quella storia berrà del buon vino rosso. Dopo due ore di buio e dubbi ci avviciniamo decisamente ad un piccolo gruppo di luci soffuse, è un piccolo villaggio di cinque o sei case di legno dove trascorreremo la notte.
Le donne trovano rifugio in un casolare e noi uomini restiamo all’aperto nel fango e nella terra umida.
I piedi gelati non permettono un grande rilassamento, oltretutto il viavai di sentinelle armate non mi distoglie dall’idea che non è una gita del CAI, sorpresa dal brutto tempo in qualche via di lizza delle Alpi Apuane.
Lentamente, una per una, passano le ore.
Buio - cani e movimenti silenziosi - sagome d’uomini muti che vigilano.
L’alba risveglia la truppa e dividiamo le ultime sigarette fumando in silenzio.
Al mattino la riunione generale è quasi una adunata.
Il maggiore in grado del campo, spiega che per sicurezza sono stati evacuati tutti gli accampamenti denominati Aguacalientes, in seguito alla notizia di una possibile rappresaglia da parte dei paramilitari.
Mi guardo intorno e vedo molti bambini rendendomi conto che per tutta la notte hanno dormito in una casa vicino senza fare il minimo rumore.
Stranieri e indios raccolti insieme in un assoluto silenzio di attesa.
Rientriamo tutti a Oventic inneggiando un coro di colpi di tosse: vecchi, bambini, italiani, messicani, abiti indios e giacche da montagna, scarponi e piedi scalzi.
E’ terribile pensare che fughe e ritorni sono cosa naturale per questa gente; persone allenate ad ascoltare i rumori della selva, vanno scivolando senza produrre rumore…“fluttuano”.
E’ sconvolgente ritornare a San Cristobal de las Casas e ritrovare torpedoni di turisti, bar affollati e cibo caldo.
Due mondi discosti di pochi chilometri - eppure secoli di distanza li separano.
Come è diverso ora osservare in città gli indios dei villaggi, è tutto più comprensibile dopo aver visto le loro case isolate, dove il freddo e la fame sono la loro madre e il loro padre.
Visitiamo la casa di Na Bolom, in lingua totzil significa “Casa del giaguaro”. E’ stata costruita dai coniugi Bolom, celebri difensori della causa indigena nella Selva Lacandona. Bolom era un archeologo e la moglie fotografa e giornalista, la casa è una sorta di museo dove è descritto, attraverso le fotografie, l’impegno della coppia olandese.
Na Bolom è divenuta la sede dei progetti di cooperazione e volontariato che seguono la popolazione sopravvissuta, circa quattrocento individui, negli sperduti villaggi della Selva Lacandona.
La selva è ricca di petrolio e legname ed è un enorme polmone che rischia di estinguersi insieme alle comunità indigene. Diversi progetti culturali ed ecologici sono in atto, progetti che riguardano la salvaguardia dei diritti umani e il rimboschimento delle terre, rese desertiche dalla selvaggia raccolta di legno pregiato esportato nelle nostre case…
Tenejapa: uno dei tanti villaggi del Chiapas.
Dopo una lunga attesa troviamo un mezzo per Tenejapa, ventotto chilometri attraverso colline coltivate, un saliscendi continuo.
L’autista ingaggia una chiacchierata, parla dei problemi della zona, della la presenza invadente dei militari e la marijuana, il cui traffico alimenta le bande armate.
Il paese si risolve in una chiesa e nel municipio.
Casualità vuole che nella piazza del municipio è in corso l’incontro domenicale, un gruppo di uomini responsabili della comunità indossano gli splendidi abiti della festa.
L’approccio è timido, poi la curiosità prende il sopravvento e li immortalo con la promessa di spedire loro le fotografie che verranno affisse in comune.
I vestiti locali maschili sono di colore nero, quasi una tunica di pelo che arriva a mezza gamba, sempre gli uomini portano cappelli a più strisce colorate. Le cinture in vita sono formate da medaglie con raffigurazioni di santi e con incise le lettere dell’idioma locale.
L’abito è un insieme di simboli contadini e cristiani: cultura maya e cattolicesimo, contadini e dignitari, fierezza e curiosità.
Partenza all’alba per Tuxla Gutierrez: capoluogo del Chiapas. Dopo due ore di bus arriviamo in piena calura a Tuxla. Tagliando con fatica l’afa raggiungiamo la stazione dei bus per acquistare il biglietto per Villaermosa.
Nell’attesa del bus della notte andiamo a Chiapa de Corzo.
La piccola città è interessante, lo zocalo è contornato da un colonnato bianco e ombrose gallerie, a piedi raggiungiamo l’imbarcadero per il Sumidero Canyon. Una serie di barche con dodici posti, fanno la spola tutto il giorno per traghettare turisti messicani attraverso i trentacinque chilometri del canyon.
Il caldo micidiale mi incolla allo scafo di vetroresina. Nonostante la situazione turistica il percorso sul fiume merita attenzione: le pareti calcaree perfettamente verticali si innalzano per mille metri. Uccelli colorati involano dalle rive disturbati dal motore, il pilota è certo che vedremo piccoli coccodrilli ed esagera promettendo altri incontri a dir poco fantasiosi.
Sostiamo in una grotta naturale dedicata alla madonna; qui hanno innalzato un sito religioso addobbato di offerte e ceri, e le imbarcazioni che transitano si fermano per un omaggio spicciativo.
Il ritorno a Corzo è afosissimo, una pausa per tortas e birra è quello che ci vuole.
La città è formata da un susseguirsi di piccole case, prive di porte interne, con amache che fungono da letto e da divano.
Autobus di mezzanotte per Villaermosa. Stato del Tabasco. Un autobus di seconda classe ci porterà nella terra degli antichi Olmechi.
Nella notte rivedo transitare dal finestrino: San Cristobal, Ocosingo, Palenque e altre soste anonime.
Scossoni improvvisi nella notte che traghetta anima e corpo. Villaermosa è caotica ed estesissima, ma non perdiamo di vista il motivo che ci ha portato qui, il Parco della Venta: la foresta, le teste scolpite degli Olmechi, gli animali liberi di scorrazzare e i coccodrilli racchiusi nei fossati, uccelli colorati e vegetazione da giardino botanico, il tutto di fronte alla Laguna dell’Illusione.
Le teste scolpite in un unico elemento di basalto, sono impressionanti: alte più di due metri pesano in media quindici tonnellate, ed è ancora un mistero come un popolo che non conosceva la ruota abbia potuto spostare queste sculture per centinaia di chilometri.
I visi sono raffigurati con tratti negroidi. Questo è il secondo mistero, la cosa certa è che la cultura Olmeca è tra le più antiche del Messico. Le sculture che raffigurano il jaguaro sono molto frequenti e di mille forme possibili, questo animale sacro per eccellenza era spesso simboleggiato con fattezze umane.
Tra i fiori d’ibisco e le sculture dei giaguari, compio quarant’anni - 40 secondi - 40 battiti - 40 secoli - 40 baci.
Migliaia di volte a dire “non mi interessa”. Ma questo non ha imbambolato l’autista cosmico, non ha frenato il ritmo vorace del tempo - il tempo - tanto lento nel dolore quanto accelerato è nella gioia. Un banale susseguirsi di settimane, di tempi gloriosi, di vittorie e immense felicità, e sgretolamenti di pianti irrefrenabili. Quarant’anni di immagini trascinate dietro dall’infanzia, in un limitato fardello che si è appesantito ed è cresciuto in proporzione al tempo, all’altezza del mio corpo. Si è consolidato da matrimoni, funerali, e inciampi inevitabili. Il risveglio di questi quarant’anni avviene in una città rumorosa, dove la musica rock si mescola all’antica arte Olmeca, e le piazze tranquille alla furia del traffico. I predatori e gli uccelli del paradiso convivono nella stessa gabbia. Forse è il luogo giusto dato il mescolio delle mie impressioni, di questa vita variegata da scienza e coscienza, tradizione e sperimentazione, sogni stellari e acidità di stomaco. Complessità – molteplicità - vita. Questi anni sono stati un volo supersonico tra atterraggi e decolli, bufere e notti stellate. Resistere alle turbolenze che sembravano precedere la fine e poi mesi ed anni di riposo - immerso nel mare dei sogni irraggiungibili. E che dire del sogno? Non so ancora dov’è il sogno. Sorrido - rimando e dentro di me fuggo al domani continuando a vivere la felicità dello stupore.
Arrivo mattutino a Oaxaca, dopo un’intera notte in autobus, ed ora l’alba illumina terreni aridi con cactus e piante di agave. Le colline verdi sono fantasmi lontani.
La città è gradevole, una Firenze nel sud del mondo con chiese e vie acciottolate, palazzi coloniali e vecchi splendori ancora leggibili in porticati e cortili.
Lo zocalo è affollato e gli artigiani in strada vendono animali immaginari di legno: mostri alati, ramarri deformati in creature bizzarre e draghi fantastici.
Terra di geni impazziti e di creature fantasmagoriche.
William Borroughs abitò in questa città e quando gli chiesero, a che cosa era dovuta la sua scelta rispose: - Ma l’hai vista la luce di Oaxaca?
Ed è vero, il cielo privo di nuvole si rispecchia sulle case, la luce è decisa e particolare, l’atmosfera è filtrata e tersa.
Una buona cena vegetariana ed una serie di mezcal trasforma Oaxaca in un sogno del deserto.
Mentre consumiamo la colazione in un bar dello zocalo transita una manifestazione di insegnanti: protestano animosamente difendendo il diritto allo studio ed il riconoscimento delle scuole rurali. Ascoltando le richieste dei manifestanti mi accorgo di quanto il mondo sia piccolo, di come in ogni luogo si sente il bisogno delle stesse cose, di come il nemico giurato non ha altri nomi che neoliberismo.
Oggi lezione di storia; visitiamo il sito archeologico di Monte Alban. Il centro della cultura Zapoteca sorge su di una collina che domina Oaxaca, a circa dieci chilometri di distanza. Il sito è molto esteso e salendo sulle piramidi è possibile leggere l’impianto storico, il tutto sorge in un ambiente assolato e spoglio. Bighellonare al sole cocente è un’impresa non da poco, non so neppure io se invidiare gli antichi ospiti incartapecoriti delle tombe. All’interno del museo è possibile vedere il famoso tesoro della tomba numero Sette.
La piazza calamita turisti e messicani. I mariachi suonano marimbe e chitarroni in ogni angolo.
Intorno alla città l’arido territorio si sviluppa dividendosi in cinque valli e la caratteristica comune è l’erba bruciata dal sole, le acacie, i nopales e i cactus candelaria.
Le colline e le montagne sono irsute di vegetazione bassa e resistente agli sbalzi di temperatura.
I villaggi si susseguono come oasi nel deserto.
Cuilipan: il monastero ricorda San Galgano.
Zachila: il museo Rufino Tamayo mostra una collezione di statuette e figure umane provenienti da tutta l’area messicana; sono notevoli i reperti della cultura Huasteca.
Ripercorriamo la storia dell’aria Mexica: Tlaloc, il dio della pioggia, reperti dello Yucatan maya e sculture Tolteche del tardo periodo. Il rito e mito della morte, dalle sculture antiche alle opere moderne, ovunque si possono notare scheletri che danzano, mangiano oppure portano a spasso scheletri di cani. Proseguiamo per Tlacolula, Yagul e Mitla: villaggi e siti archeologici importanti per l’area Mexica.
Dopo la visita all’interessante mercato domenicale di Tlacolula, ci incamminiamo per il sito archeologico di Yagul. Il sito zapoteco è sicuramente minore, ma la sua posizione in leggera collina lo rende affascinante. Di seguito arriviamo a Mitla che, al contrario, è particolare proprio per la struttura dei suoi edifici addobbati con stucchi geometrici: il palazzo centrale porta ancora accenni dell’originaria colorazione rossa.
Colazione al caffè Jardin e mattinata di spese tra maschere e animali. Pranziamo nel mercato coperto 20 di Novembre, con le specialità oaxaquegne: piatti di carne con “mole negro”, il cacao amaro. Alcune venditrici ambulanti continuano ad offrirci piccoli grilli fritti e piccanti, non è un bel vedere ma così è questa terra, un composto di dolce e amaro, cotto e crudo, tutto insieme nello stesso piatto. Nello stesso luogo assapori tristezza e felicità.
Serata di piazza: palloncini colorati, musiche, manifestazioni pro-Chiapas, lustrascarpe, mendicanti, turisti, camerieri, curiosi, bambini, chitarristi, marimbe. Tutto in una piazza. Una piazza che attutisce i suoni, mescola i significati e vive estranea al tempo. Zapata può essere ieri come domani. E forse il domani è già arrivato.
Prendiamo gli zaini e in silenzio ci allontaniamo nella notte.
Mexico City: “El Monstruo”.
Venti milioni di abitanti in duemila chilometri quadrati, dagli Aztechi ad oggi, è impossibile spiegare Mexico City, si percepisce con l’olfatto, la si odia oppure la si ama profondamente. E’ facile disperdersi in vie e quartieri, dimenticarsi di tutto.
L’enorme città ha la capacità di tradurre il Messico e, nello stesso tempo, di vivere una vita completamente a sé. Poco prima dell’alba appare da lontano con le sue luci ed è come un immenso incendio ondeggiante.
Lo zocalo è immensità lastricata. La piazza è l’antico cuore di un regno costruito sulle acque dei suoi cinque laghi.
All’epoca erano isole ricavate con riempimenti di terra e canne legate le une alle altre, e poi giardini, strade imperiali e piramidi. Era una terra splendente, una città di barche e ponti.
La cattedrale lentamente affonda nel terreno molle; l’approvvigionamento idrico della città avviene tramite il sottosuolo e causa problemi di stabilità agli edifici.
Vicino alla cattedrale sorge il Tempio Mayor Azteco. L’antico è mescolato al moderno, forse è più giusto dire sovrapposto l’uno all’altro.
Un gruppo di ballerini è alle prese con un saggio di danza tribale accompagnata dai tamburi - suoni e abiti piumati.
Per confermare il volo ci spingiamo nel Paseo della Reforma dove acquistiamo il disco Terra Mestiza.
Il Chiapas è lontano, anche se la città è molto viva politicamente e gli universitari sono in prima linea per la lotta alla sopravvivenza delle comunità indigene in Chiapas e in Guerrero.
Il pomeriggio si apre con uno splendido caffè nel bar del Palazzo degli Azulejos, le mattonelle colorate prodotte in Cina e trasportate in Messico da navi di mercanti nel 18° secolo; è un ambiente particolare con affreschi e stucchi, in un patio interno si respira l’aria coloniale di un tempo. Un ottimo posto per una sosta intellettual–caffeinomane.
La notte è rischiarata da una miriade di negozi e cullata da un traffico incessante.
Raggiungere Tula è complicato. Si comincia con la metropolitana e due cambi, poi al Terminal del Norte un autobus giunge a Tula in un ora e mezzo, da qui due chilometri a piedi per le rovine.
Tutto questo andare ha per premio i “Telamoni”. Le gigantesche sculture di pietra sovrastano la piramide principale e sorreggevano il tetto del tempio maggiore. Rappresentano Quetzcoatl il dio supremo dei Toltechi che, in questo luogo, avevano un vasto regno ed in seguito furono assoggettati dagli Aztechi.
Il sito è immerso in una natura arida dove esistono solo cactus e venditori di cocci d’arte.
Le pietre grigie vulcaniche si stagliano contro l’azzurro profondo del cielo.
Ritornando in città visitiamo il museo di Diego Rivera, il grande muralista messicano, purtroppo i lavori in corso non permettono di godere la vista di tutte le opere esposte.
Siamo più fortunati al Palazzo delle Belle Arti dove ritroviamo Rivera e molti altri autori, gli affreschi sono visibili nei vari piani del palazzo completamente costruito di marmo bianco. Pasta fritta e cioccolata calda da El Moro.
San Angel un tempo era un villaggio a sé, ora in pratica è stato inglobato dal Mostro. Lo raggiunge una strada di nove chilometri ininterrotta di case, negozi e quartieri. Al sabato viene allestito il mercato settimanale nel piccolo zocalo che ha mantenuto il vecchio sapore del villaggio originario.
Ritorniamo verso il centro città e andiamo al Santuario della Vergine di Guadalupe, la patrona del Messico, e poi in Piazza Garibaldi dove i mariachi si danno appuntamento e si offrono per serate musicali a pagamento.
Teotihuacan, il cuore del mondo Azteco, nel suo massimo splendore era abitata da duecentocinquantamila persone. Il tempo ha nascosto per sempre molte cose. Civiltà favolose minate da continue guerre interne e in seguito arrivarono i colonizzatori cristiani a decretarne la fine.
Pablo Xeicom giunge nella grande città di Teotihuacan. L’impatto gli rende la gola riarsa improvvisamente. E’ un mese che viaggia dalla lontana costa del Pacifico e ritrovarsi ora nel Viale dei morti, gli sembra impossibile; il Quinto mondo Azteco, così nei racconti di suo padre era descritto quel luogo fantastico. Lentamente percorre la Calzada de Los Muertos, lasciandosi la cittadella alla sua destra con le case dei dignitari. Il suo sguardo è magnetizzato dalla rossa Piramide del Sole: i palazzi colorati intorno, gli affreschi dei Jaguari, i luoghi dei sacrifici. Con lentezza sale i duecentoquarantotto gradini che lo portano alla sommità della Piramide del Sole, il suo sguardo incredulo vaga dalle piazze alla Piramide della Luna in lontananza, dove ballerini piumati danzano una cerimonia religiosa.
-”Come potrò raccontare ciò che è difficile credere di vedere…
Una civiltà d’acqua e vulcani, di sacrifici, di canti e balli, di guerre dei fiori e battaglie sanguinose, responsi stellari, deformazioni craniche, pietre levigate con frammenti di ossidiana e piume di quetzal, le caste di fango, le caste d’oro, e poi scimmie, cani, tatuaggi, tombe d’oro, calzari pregiati, mais, le piramidi colorate e le barche di tronchi, cariatidi, stucchi, maschere, urne, bracieri, cani, colonne, teste enormi, rumori di foresta, jaguari, codici segreti, serpenti di lava e fiumi verdi, tamburi, voladores, tutti tesori misteriosi…nessuno mi crederà mai”-.
Sorvolo un mare di luci che si perdono all’infinito. Blocchi, quadre, tessere di un mosaico appena visibile da questa altezza. Le luci fuggono una dall’altra su strade di periferia intasate dal rientro serale. Vene pulsanti, elettroni nel moto costante dell’avvicinamento e del repentino allontanamento. Un bacio ed uno spintone. Un urto ed una carezza.
Mi alzo in volo sopra l’antico lago di Xocimilco ma non riesco a vederlo.
Sogno l’attesa libertà di altri uomini. La partenza è impressa di risate notturne che accarezzano i vulcani - mescolandosi in colorazioni diluite che si disperdono fluttuando. L’occhio è alla ricerca di una messa a fuoco precisa - tra i fumi d’incenso e fiamme diverse. Un brulicare sonoro di sparse preghiere - tambureggiano l’udito come pioggia insistente. Attendo la notte ancestrale perché interrompa la quotidiana fatica delle sagome colorate e chine. Improvvise frontiere di terra e oceano si materializzano. La realtà si rivela lentamente tra le umide brume. La nebbia e la pioggia ovattano lo stupore che mi sale osservando fiaccole in lontananza. Luci da presepio in una ristretta comunità…e lontano è il mondo conosciuto. Risalgo colline di fango nella notte - trascino i passi dove regna il silenzio. Terra dove governa l’arsura eterna - ed è negata la libertà. Resto muto circondato da piramidi Maya e tombe Azteche - tra le rovine antiche che resistono al tempo e racchiudono storie scolpite in serpenti giganti. I pensieri come le piume del mitico quetzal - sono sospinti da un alito di vento.
Soffoco in un silenzio emozionato e plano nel ritorno.
…aeronautico è il cielo. Paolo Conte.