Che balzi prodigiosi si concede chi sogna…
Sigmund Freud.
Da qualche notte ho un sogno ricorrente: seduto nel patio malandato di una casa color “bianco sporco” impilo sassi e legni in un gioco d’incerti equilibri. La voce di mia madre interrompe l’ingenuo divertimento. Mi volto e rimango a bocca aperta. E’ corazzata in un voluminoso vestito a fiori, ma lo stupore maggiore è che la “mama” è nera. Il sorriso smisurato, luminoso raggio di sole tra le nuvole, si dischiude sopra il viso africano. Le braccia tese attendono in risposta la mia corsa a raggiungerle. Mi ritrovo sprofondato nelle sottane di cotone, in un mare di fiori, e nuoto estasiato nella primavera di stoffa.
La pioggia è compagna stabile. Atterrando a Parigi l’aereo fatica enormemente a mantenersi in bolla con l’orizzonte grigio. Per me, che odio il ballo, quel fox-trot diviene travolgente allacciamento con le nuvole e viatico incerto.
L’attesa all’aeroporto si protrae più del previsto; il ritardo accumula ore alle ore e l’attesa avviene in una sala d’aspetto arredata in modo futurista. Sdraiato su di un divano-lettino godo la comodità francese e mi protendo all’analisi dei rumori intorno. Confesso ai neon accecanti tutti i pensieri interni, psicanalizzato dai lumen non nascondo più nulla. Lo sguardo si perde nei poster che reclamizzano immagini di terre lontane, poi dall’alto osservo il mio corpo sdraiato e non capisco se è un fenomeno di catarsi, oppure l’effetto del terzo Pernod.
Le partenze sono una sferzata – stimolo – febbre e l’intorno diviene nutrimento. L’astronauta guarda fuori dalla navicella spaziale. Il desiderio maggiore è interrompere la rivoluzione attorno a un punto preciso e giunge una sorta di spinta esterna alla volontà. L’incitamento è una scossa che muove in avanti e l’andare toglie la patina di noia che solo ora si accorge di aver accumulato. D’improvviso sale il desiderio di fare a pezzi gli schemi soliti. L’astronauta apre il portello ed il passo è breve. In questo modo, semplicemente, si materializza un altro mondo.
Dal vetro del finestrino Nairobi è una macchia di pulviscolo più scuro…
La telefonata al Norfolk Hotel di Nairobi è infruttuosa e l’autobus diretto al confine con la Tanzania è partito in anticipo. Un ragazzo, impacciato dentro un completo giacca e pantalone, mi offre un passaggio sino a Namanga per un prezzo accettabile.
La macchina ha visto tempi migliori ma nonostante gli attacchi d’asma continui riesce a non venire meno. L’interno di pelle marrone è il risultato di decenni di maltrattamenti, la carrozzeria nera ben presto si mimetizza con la sabbia e la polvere intorno.
I posti di blocco s’intensificano vicino alla frontiera e l’autista timidamente dispensa banconote ad ogni illecita richiesta dei poliziotti.
Il cielo è scuro di nuvole basse. L’ambiente gradualmente si trasforma in piana sabbiosa dove il vento innalza ventagli di polvere. Il rumore dell’auto mette in fuga una coppia di struzzi e allerta la gente vicino alla strada: abiti colorati, visi neri come le tenebre. I masai vicino alle mandrie sono snelle presenze austere e restano immobili con le lance in mano a osservare un punto imprecisato dell’orizzonte.
Arriviamo a Negombo in una confusione incredibile. La frontiera è trafficata all’inverosimile e le donne masai vendono bracciali e collane. Sulla terra argillosa gli abiti e la pelle scura si fondono formando un unico manto vitale. La superficie è in continuo movimento. Le esortazioni all’acquisto si mescolano con il persistente altalenare dei saluti: jambo – jambo. Entro nell’ufficio di frontiera per timbrare il passaporto dopo aver salutato il ragazzo vestito con un modello d’abito “grigio mondo civile”, e lui immediatamente si precipita alla ricerca di passeggeri che ritornano in Kenya.
Il sole sbuca timidamente tra le nuvole. Elias elenca gli animali feroci e le meraviglie dei parchi naturali del suo paese, è molto orgoglioso di abitare in Tanzania e guidando non smette mai di parlare. Le acacie spinose lasciano posto a verdi radure e quindi all’infoltirsi della foresta. Sulla strada una iena investita da un auto è contornata dagli avvoltoi e sopra gli enormi massi granitici, perfettamente levigati, mi aspetto di vedere comparire da un momento all’altro i grandi felini. La varietà animale e vegetale s’intensifica: babbuini, manguste, facoceri, piantagioni di banani, di caffè, e alberi di stelle di natale. Tutto è spropositato e le piante esotiche d’appartamento qui sono alberi.
Mercati di frutta e sari coloratissimi segnano l’ingresso nel villaggio di Arusha. Mi abbandono alla confusione, allo sbalordimento e alla stanchezza.
Le donne trasportano le giare sul capo incedendo con una grazia che noi bianchi raggiungiamo solo con la danza.
Preparo lo zaino per salire il Kilimanjaro. Da Arusha mi dirigo a Moshi e quindi a Marangu. Al Marangu Gate incontro Cristopher che lavora come guida locale. Il suo viso tradisce l’appartenenza al gruppo dei Chaggia, una tribù tra le più organizzate: abili commercianti e agricoltori, hanno fondato un concilio e un’organizzazione di trentaduemila iscritti, la loro stabilità economica è favorita dalla terra fertile che ha permesso lo sviluppo delle coltivazioni di caffè e frutta.
All’ingresso del parco riempio una sfilza di moduli, assumendomi la completa responsabilità per eventuali incidenti e comunico le generalità della guida.
La vetta del Kilimanjaro dista quarantotto chilometri. Il sentiero acciottolato si distacca dal piazzale attraversando la fitta foresta di cedri, canfori, ginepri, liane e orchidee pendenti. La temperatura è calda e umida. Lentamente saliamo al Mandara Hut, il primo campo. Mi sistemo nel rifugio e visito il Maudi Crater: un piccolo cratere vulcanico ricoperto completamente da un vello di erica.
Bocche spalancate dei fiori e suoni della foresta che si scurisce nel veloce tramonto. Scimmie – bufali - rinoceronti - elefanti. Gli animali fantasma salutano il calare del sole.
La cucina in comune profuma di carbone, sudore e pelle conciata. Ad attendermi c’è un semplice piatto di riso e pollo. La guida conosce poco l’inglese ed io pochissime parole di swahili. La comunicazione avviene attraverso gli sguardi e gentilezze reciproche. Cristopher si siede a tavola. Nel suo sguardo regna un’umile fierezza, nel mio immagino traspaia emozione e rispetto.
L’alba si presenta con i rumori della foresta più nitidi e squillanti. Tra le nuvole appare il monte Samba. Le nebbie si dissolvono lentamente nell’aria e gli alberi sono contornati da un’aureola di vapore.
La salita ad un monte è la via di mezzo tra una processione e un rito di iniziazione per diventare veri uomini: la divisa dai colori sgargianti è una corazza per soldati di ventura, sempre pronti allo scontro in terre di miscredenti. La vestizione racchiude segrete strategie e si abbellisce di portafortuna, oggetti scaramantici, per vincere eventuali difficoltà, e superare l’insuperabile.
Saliamo gradualmente transitando nel mezzo di una foresta che si complica in surreali evoluzioni arboree. Dopo circa mezz’ora il sentiero incontra una radura da cui è possibile godere la vista del Kibo e del monte Mawenzi. Una breve sosta e poi la salita a Horombo: lontano quattordici chilometri. I seneci, senecio cottoni è il nome scientifico, sono gli abitanti alieni di queste alte terre, assomigliano a palme nane ramificate a candelabro e il sentiero s’inoltra tra i fusti in miniatura. Nella pianura sottostante i rettangoli dei campi coltivati si stagliano con diverse tonalità di giallo contrastando il verde zoccolo del monte.
Durante la salita, una guida ha tenuto accesa la radio che per tutto il giorno ha trasmesso musiche africane ad alto volume. Le canzoni e le danze hanno accompagnato la fatica. Il campo di Horombo assomiglia ad un paesino onirico, inventato per ospitare viaggiatori di passaggio, e tra le minuscole stradine si ripercuotono i frenetici rumori del lavoro incessante nelle cucine da campo. E’ come se una comune avesse deciso di vivere nella mancanza di ossigeno, isolandosi in un villaggio immaginario.
All’alba salgo all’ultimo campo prima della vetta. Il Kibo Hut è posto a 4750 metri. Impieghiamo ore di cammino lentissimo e le guide ripetono di continuo “pole-pole”, piano-piano. Il pianoro sempre più arido diviene ben presto un deserto di sabbia e sassi. Le rocce si presentano scure di minerale vulcanico e la terra è gialla, grigia e rossa. I massi lanciati dalle eruzioni si ergono come sentinelle appostate al limitare del deserto.
Lo scorrere delle lingue laviche si è congelato per sempre in striature rosso mattone.
Incontriamo l’ultima sorgente e riempiamo le borracce d’acqua potabile. Il Mawenzi è arrossato dal tramonto e seduti a consumare la cena avverto le “ondate” causate dall’altitudine.
Piccoli esseri innalzano idee oltre l’orizzonte - minuscoli insetti strisciano negli anfratti del monte enorme. La montagna non avverte nessun calpestio.
La salita è prevista per l’una di notte. Gli escursionisti si aggirano fuori del rifugio, quasi nessuno dorme e un’aspirina vale milioni. M’inoltro solitario tra le ombre di rocce gigantesche e nel buio assoluto il sentiero è una lieve vena chiara sbiancata dal continuo passaggio degli uomini. Per aggirare gli enormi massi perdo la direzione più volte. L’aria è calma, regna un silenzio primordiale; le luci nella pianura sottostante sono l’unico segno di vita. Ogni passo è misurato, accorto e i movimenti hanno una lentezza subacquea. Il risparmio di energia diviene basilare, un passo troppo lungo costa una fatica sovrumana. Il fascio di luce della torcia elettrica è l’unico contatto con il reale.
Il vento aumenta d’intensità e il monte si presenta completamente sgombro dalle nubi. Dopo due ore un chiarore suggerisce la direzione. Le balconate di ghiaccio indicano la posizione del cratere. La popolazione locale, un tempo credeva che la montagna fosse abitata da un essere misterioso. Il re mandò delle guide per scoprire che cosa fosse quello strato di bianco che si vedeva sulla cima: era il mistero della neve.
La salita è ancora più lenta e la solitudine completa, poi alcuni colpi di tosse svelano che non sono completamente solo. Altri uomini-insetti stanno soffrendo tra le rughe del gigante. Il sentiero punta in lieve salita verso la sommità. Le nuvole in basso sagomano guglie immaginarie ricoperte da uno strato di zucchero filato.
La punta Gilmar e poi la vetta. Dal Picco Uhuru, Picco Libertà, lo sguardo ruota per trecentosessanta gradi e l’emozione si mescola alla fatica.
La luce ha allontanato le ombre e il vento freddo è pungente. Accetto l’offerta di una sigaretta offerta dalla guida di un giapponese che, seduto a terra, continua a vomitare.
Il ritorno ad Arusha è simile al risveglio dopo una nottata alcolica. Il villaggio sorge accostato alle colline coltivate a caffè e cotone, e i sentieri in terra battuta raggiungono piccoli agglomerati di capanne sparse nel verde.
Recupero familiarità con la vita normale: il caldo, gli odori, il movimento magmatico delle persone accalcate nei mercati. Il villaggio di case basse riporta finalmente una dimensione umana dopo quattro giorni di ambienti abnormi.
Il mercato è un miscuglio di batik e stoffe dell’India, coltelli, bicchieri e piatti provenienti dalla Cina, piramidi di zucche intagliate e cesti di foglie di banano.
I trucioli d’ebano si staccano dalle sculture makonde lavorate al ciglio della strada da mani sapienti, artisti con i pantaloni strappati e i volti assorti. Il groviglio dei corpi scolpiti fuoriescono dal legno, lievitano tra la corteccia e la lama dello scalpello.
Le donne masai vendono collane di perline e bracciali di rame battuto. Lungo la strada, un ragazzo dispone in bella mostra scarpe e ciabatte realizzate con la gomma delle ruote dei camion. Dai piccoli chioschi, tra i vapori di fritto, fuoriesce una musica assordante. Le musicassette artigianali riportano il nome dell’autore scritto con un pennarello direttamente sulla confezione ingiallita dal sole.
La comunità proveniente dall’India è molto forte, gestiscono i negozi e fanno i manager. In questa terra la scaltrezza vale quanto la nobiltà.
In città il cippo-orologio di pietra segna il luogo perfettamente equidistante tra Città del Capo e Il Cairo. Il monte Meru sovrasta l’abitato. Risalgo lentamente le pendici del monte di villaggio in villaggio. Tra capanne e povere case i bimbi nudi si disperdono nei sentieri mentre altri ritornano da scuola, una fila di persone silenziose scende nella direzione del mercato con tutto ciò che riescono a portare sulla testa. Le sensazioni fruttificano a grappoli.
Sono bianco in un mondo di neri e me ne rendo conto improvvisamente.
Raggiungo la missione della diocesi di Arusha. La scelta inizialmente è dettata dall’aspetto economico, poi subentra la curiosità e l’innamoramento per uno spazio tranquillo, distaccato dal centro. La piccola stanza ha le pareti smaltate di verde; isola sperduta in un mare di flutti rabbiosi e i rumori soffocati dalla distanza. Il luogo è un’oasi di pace e silenzio che contrasta con la palpitante vita della città. Le pareti di una saletta della missione, adibita a mensa, sono tappezzate di fotografie del Papa e centrini sotto vetro ricamati con motivi floreali.
In un angolo spicca la gran carta geografica della Tanzania. Sulla mappa le piccole croci stampate segnano le diocesi disperse in uno spazio enorme. Presenze cristiane - enclave d’invocazioni. Un cero elettrico lampeggia su di uno scranno da preghiera. Le immagini dei santi e i crocifissi fanno da sfondo a religiose e aiutanti africani.
Il nero della pelle diviene ombra sulle pareti smaltate.
Il sole cala in un attimo e la temperatura scende vertiginosamente; questo è il motivo dell’assenza di zanzare, il rischio più temuto. La cena al centro missionario avviene in una sala comune, io e una coppia d’olandesi siamo gli unici visitatori stranieri. Apparecchiamo la tavola tutti insieme, qualcuno si fa il segno della croce mentre altri aspettano solo la fine del ringraziamento per iniziare a mangiare. Un minuscolo pesce alla griglia, carote, patate fritte, pomodori e una papaia è il lusso di fine pasto. Sorrisi e parole sottovoce accarezzano il cibo nei piatti.
Lo spazio comune accoglie le pratiche serali di ciascuno: una suora rammenda, la coppia gioca a carte.
I suoni del dialetto swahili ammorbidiscono l’aria e i profumi la impastano dolcificandola.
Il buio, il nero, la notte; riferimenti naturali in luoghi dove il buio è davvero nero e profondo, avvolgente con i suoni della foresta che lambisce la strada d’argilla. Nel buio le ombre di case e capanne lasciano immaginare la vita interna - piccoli lumini impercettibili diventano lucciole immobili. Nelle strade le sagome delle persone cavalcano le tenebre con una sicurezza da gatto.
Alle sei di mattina i primi colpi di tosse e porte che sbattono. Il bagno in comune ingurgita fantasmi addormentati per poi resuscitarli sbarbati e pettinati. Gli uccelli riemergono festaioli e un machete al lavoro ritma il risveglio. La foresta di banani, mangostani, papaie, eucalipti secolari e mangrovie, svogliatamente lascia il passo al fiume sonnacchioso che si apre a fatica uno spiraglio nella terra rossa.
Riesco a scovare una jeep scassata e un autista disponibile per raggiungere i parchi; Jaffet consiglia di trovare altre persone per dividere la spesa. L’idea è buona e così vado nella stazione delle corriere alla ricerca di due turisti, possibilmente simpatici. Mi trasformo in un procacciatore locale.
La situazione è comica: seduto in un bar valuto da lontano a chi fare la proposta. Si aggiudicano il primo posto una coppia di francesi appena scaricati nello spiazzo polveroso dove arrivano e partono le corriere malandate. Li raggiungo serpeggiando tra i pacchi e i vestiti colorati delle donne enormi con le ceste di frutta in equilibrio sul capo. La proposta e l’itinerario è di loro gradimento.
Al mercato compriamo i viveri e l’attrezzatura per il camp-safari: pentole, machete, riso, uova, bruciatori per cucinare e cibi in scatola. Siamo pronti alla partenza per i Parchi del Nord. Puntiamo su Tarangire e dopo pochi chilometri l’impianto elettrico della jeep va a fuoco: cominciamo bene. Le nuvole basse sono scure di pioggia. A tratti i lampi di un sole enorme rischiarano la grande pianura segnata dai sentieri che s’inoltrano tra le acacie spinose.
Il Tarangire National Park prende il nome dal fiume che lo attraversa. Ci accampiamo con la tenda canadese in uno spazio spoglio, in mezzo alla savana, e tra i bassi cespugli il primo incontro con l’Africa selvaggia è il magico procedere lento di un elefante enorme. Il parco è popolato da zebre, gnu, giraffe e babbuini.
Accendiamo il fuoco per tenere lontano le iene. Detto così sembra strano, ma s’interiorizzano subito, in maniera naturale, i nuovi ritmi dettati dalla natura e dal senso innato di sopravvivenza dell’uomo. Il tempo peggiora e comincia a piovere.
La notte attira elettricità palpabile ed eccitazione. I rumori sconosciuti non intaccano la grande pace interna.
L’alba è scandita da un ruggito lontano e fuori della tenda gli uccelli tessitori osservano incuriositi. La guida-autista ha dormito nell’auto e con un gesto eloquente ci ha trattato da pazzi, cerca di capire perché non vogliamo dormire nei lodge per turisti. Partiamo per il lago Manyara e lungo la strada, i villaggi sono tremule apparizioni.
Il lago è circondato dalla vegetazione lussureggiante. L’acqua ribolle smossa dalle emersioni degli enormi ippopotami, cormorani e pellicani si tuffano nell’acqua come frecce scagliate dal cielo. La jeep in avaria obbliga a una sosta nel piccolo paese di Mto. Sfruttiamo l’arresto improvviso per il pranzo. Non appena scendiamo a terra i babbuini cercano di rubarci i viveri e aggredendosi a vicenda si disputano le bucce gettate nel fuoco.
Durante la notte - animali diversi – hanno chiamato gli antenati nel buio profondo.
Partenza all’alba per Olduvai Gorge e Seronera, nel parco del Serengeti. La pubblicità del parco è eloquente: grande quanto l’Irlanda del Nord, accoglie due milioni di gnu, mezzo milione di gazzelle di Thomson, duecentocinquantamila zebre e le migrazioni stagionali sono visioni d’esodi biblici. Il territorio include Ngorongoro e il parco Masai Mara in Kenya.
Le kopjes, i grandi massi granitici, costellano l’immensità della regione imitando montagne in miniatura. Il cielo nuvoloso si stempera in nebbia vicino alla Rift Valley. Il rift è un muro di fronte a noi su cui arranca la strada rossa, al di sopra della barriera naturale l’altipiano è intervallato da villaggi e terre coltivate. La perturbazione copre nuovamente di grigio tutto il territorio sino all’orizzonte, compresi i leopardi, i leoni e le giraffe.
Nell’area di Ngorongoro si trova il sito preistorico di Olduvai: una gola di quaranta chilometri dove i pendii scavati dalle erosioni recano chiaramente leggibili le ere geologiche, le trasformazioni primitive. La valle ha zolle centrali rimaste in piedi come candeline su di una torta di compleanno mangiata a cucchiaiate.
La storia del mondo - in sezione verticale - luccica di quarzi. In questo luogo nei primi anni trenta Louis Lakey scoprì reperti e manufatti legati all’evoluzione dell’uomo, e nel 1959 la moglie Mary trovò il cranio di Zinj: l’australopiteco risalente a 1.750.000 anni fa. La piccola valle discende per sessanta metri e mostra gli strati di sabbia e argilla sedimentata su di uno strato di lava vecchia di due milioni d’anni. Per molto tempo quest’area fu definita “la culla dell’uomo”.
Le magie si susseguono inaspettate. Improvvisamente lievitano mondi scomparsi da tempo e il cielo è alto non più di venti metri.
L’altopiano si interrompe bruscamente. Davanti a noi si apre il cratere di Ngorongoro. Il vulcano spento ha nella parte centrale un lago di soda e le pareti scendono per seicento metri dentro la caldera più grande della terra: quindici chilometri di diametro. Qui i masai portano le mandrie ad abbeverarsi ma non vivono al suo interno, l’intero cratere è un parco naturale protetto.
L’Africa è un animale che osserva di continuo - resta muto e gli occhi profondi riportano all’origine dell’uomo.
Prima di scendere nel parco sistemiamo la tenda e recuperiamo l’acqua a un pozzo comune; i pozzi sono segnati sulle carte stradali come fossero aeroporti.
Il cratere è enorme: mandrie di gnu in movimento, leoni, fenicotteri, zebre, elefanti. Ci fermiamo ad osservare il riposo di una famiglia di leoni che hanno sbranato una gazzella. Il muso è sporco di sangue e satolli ci osservano placidi. Un leone afferra lo gnu e l’assemblea ebete della mandria osserva poco distante.
Ritorniamo al campo nel buio e accendiamo il fuoco. I guardaparco si muovono armati e sostano a riscaldarsi vicino a noi. La nottata è ventosa, l’umido si condensa nella tenda a un solo telo e inizia a gocciare all’interno. La temperatura scende drasticamente. Riposo dentro un minuscolo sarcofago in una terra di enormità da Guiness dei “primati”.
L’altopiano intorno è un’immensità senza fine. I masai appaiono sperduti nell’enormità - villaggi e capanne isolate - polvere e vuoto…
Ad Arusha cedo alla tentazione di fermarmi per qualche giorno di riposo e rimettere in sesto abiti e ossa. Durante una sosta oziosa, con una buona birra davanti, resto in ascolto dei motori ululanti nella strada. I cadaveri dei mezzi di trasporto sembrano esplosi da un’unica materia centrale diramandosi come zombi rumorosi in tutte le direzioni.
Il pavimento del cassone è fradicio e così pure i sedili di legno e cuoio, lo zaino pigiato a forza sopra di me; ottanta chilometri asfaltati, quindi cinquecento sterrati e polverosi, stipati in modo che non entra neppure l’aria. Musica assordante per quindici ore e soltanto due brevissime soste, è incredibile, semplicemente inenarrabile.
Le case di fango si alternano alle capanne della popolazione locale dei “gogo” e alle missioni cattoliche. L’arrivo all’alba a Dodoma è affascinante. La nuova capitale, a tutti gli effetti grande mercato della Tanzania interna, sorge su di un arido altopiano.
Nella città la moschea si contrappone alle croci lucenti che s’innalzano da chiese e missioni, e le persone vivono nel mezzo di questa spartizione d’anime con il cuore inscindibilmente legato alla savana e al deserto che avanza.
Sono seduto a un tavolo all’ombra degli alberi, in questo angolo di mondo che tra non molto sarà imballato dalla sabbia sottile e soccomberà. Diventerà una duna in movimento al caldo vento dei ricordi, spezzati come questa sedia con le gambe schiodate.
Alla stazione ferroviaria la prenotazione per Kigoma, sul lago Tanganika, non risulta negli enormi libri dell’ufficio. Mi registro di nuovo. La fortuna mi assiste e trovo posto in una cuccetta. Quando chiedo quanto tempo durerà il viaggio, mi sento rispondere: - forse – circa - pressappoco ventiquattro ore.
Il treno rallenta per caricare le persone ferme al lato dei binari e altre accorrono dai villaggi vicini a vendere cesti, stuoie e pesce secco. Durante la sosta a Saranda avviene il pasto notturno; le venditrici degli spiedini di carne avanzano nel buio completo con in mano una candela. La processione crea un’emozione indescrivibile e mi adeguo sbracciando per richiamare l’attenzione.
Il sonno vince lo sferragliare lento e monotono. I risvegli improvvisi sono accompagnati dal dubbio che sia tutto un sogno. A Tabora l’ennesima sosta. Nel cuore della notte il controllore e il suo aiutante smarcano i posti occupati e controllano i biglietti illuminandoli con una piccola torcia elettrica. Non ho idea quanto tempo durerà ancora il viaggio e le soste sono il fattore sorpresa.
Siamo fermi a Tabora da tre ore, nulla fa presagire la partenza, non resta che aspettare. Improvviso un clamore, simile al barrito dell’elefante durante l’abbeverata, annuncia la ripresa della vita. Nella notte s’intravedono le luci dei fuochi nelle capanne isolate.
Le fiamme allontanano gli animali relegandoli nel buio circostante.
I mormorii hanno allontanato l’oscurità e l’alba riporta i contorni all’ignoto panorama notturno. Sulla sabbia e tra l’erba gialla i piccoli sentieri intersecano i binari per poi scomparire nella piana assolata. L’andare e venire mantiene visibili i percorsi antichissimi tra le acacie a ombrello e gli scheletrici baobab. Lentamente l’ambiente diventa verde: acquitrini, piccoli fiumi, laghetti contornati da piante acquatiche e distese di papiro. Dirigiamo verso ovest a rincorrere il tempo e occupare un posto alla rappresentazione del tramonto sul lago Tanganika.
Dopo ventitré ore arrivo a Kigoma ed è l’ennesimo arrivo in Africa. La gente scende dal treno, in un attimo colora di sari e mercanzie la spianata intorno, nella sabbia le impronte dei piedi scalzi sono perfette lastre ortopediche. Una massa di gente in movimento continuo che sembra non arrabbiarsi mai, votata alla sofferenza e alla resistenza. La nuvole di polvere e le musiche percussive completano l’iconografia dell’Africa che si muove. Inaspettatamente tutti si immobilizzano. Un soldato ammaina la bandiera e una palla di vetro cala a silenziare ogni cosa.
La Main Street è la via principale: trecento metri di strada asfaltata che dalla stazione termina in una pista sabbiosa. Il resto della città si risolve in capanne accostate alla riva del lago, acquartierate alla peggio lungo un sentiero d’argilla.
Il primo tentativo di sistemazione va a vuoto, è tutto pieno, poi trovo un budello con un nome altisonante e lo sporco da competizione.
Ascolto il respiro del lago. Il buio è un compagno discreto e nell'oscurità l’uomo bianco diventa natura non diversificata.
Il porto di Kalalangaba è il piccolo approdo vicino Kigoma. Da qui partono le piroghe per lo Zaire, il Burundi e lo Zambia, e qui cerco un imbarco per raggiungere il Parco di Gombe Stream, meglio conosciuto come il “Parco degli scimpanzé”.
La barca è traboccante di ogni cosa immaginabile: frutta, biciclette, pulcini, sacchi di cipolle, mamme che allattano minuscoli fagotti sbraccianti. Alcuni immergono i bicchieri di plastica nel lago e bevono rumorosamente.
Il mondo è al completo - imprigionato su di un conchiglia di legno.
L’acqua trasparente e la vegetazione rigogliosa invita a pensare al paradiso. Resto incredulo di quello che sta accadendo intorno. La visione è di altri tempi e riporta il ritmo di secoli lontani, il destino del popolo lacustre che vive e muore nei tragitti, nei villaggi sulle rive, nelle tempeste terribili su questo lago grande quanto il mare Adriatico.
Le barche in partenza sono due e chiaramente entrambi gli equipaggi esigono la mia presenza, scoppia così una piccola guerra con regole piratesche. In ogni caso spetta a me decidere e quindi opto per il capitano più tranquillo e meno rissoso. Il motore non vuole partire e il traghettatore vicino ostenta la sua imbarcazione con il motore in funzione, beffandosi del nostro macchinista tenta di allettarci. Ad ogni strattone alla messa in moto cresce la speranza, mentre l’altro pilota non cessa un istante di ridere e sfottere. Ed ecco che, con un ultimo sforzo, la lieve tosse della carburazione al lavoro sale anche dal nostro macinino e un grido di felicità mi esce improvviso scatenando l’allegria generale.
Arrivando al Parco non vedo nessuno, dirigiamo a riva, e tolte le scarpe salto con lo zaino sulla testa in mezzo metro d’acqua. Quando mi volto per salutare rimango impietrito, i miei compagni di viaggio sono tutti con la mano alzata e un sorriso sulle labbra. I gesti continuano sino a che la barca non scompare in lontananza, e l’emozione è di quelle da riporre per sempre nella memoria.
Il Parco Gombe Stream è attrezzato con due ampie costruzioni nascoste nella boscaglia.
Mi sistemo in una semplice capanna recintata da una rete di protezione. Nello spazio comune c’è un tavolo e un alambicco per l’acqua potabile: il contenitore a colatoio filtra lentamente l’acqua del fiume. In riva al lago i villaggi di capanne con il pesce essiccato al sole, sono assediati dai babbuini che scorrazzano in giochi e liti notte e giorno. I pescatori rastrellano di continuo il pesce allontanando le scimmie invadenti. L’unica luce è una lanterna a petrolio: i pomodori e due birre del Burundi sono la cena acquistata nella capanna-spaccio del villaggio vicino. Buio e odore di legna bruciata. Nella notte mi tengono compagnia le urla animalesche e i rumori di rami spezzati. Il nuovo ambiente ha insoliti scricchiolii indecifrabili.
Il mattino dopo una guida armata mi scorta nel luogo d’osservazione degli scimpanzé. Gli animali vanno dai due ai ventidue anni, sono otto esemplari che formano una comunità e tra gli spulciamenti, giochi e baruffe, resto muto ad osservarli. La quiete è irreale ma ogni volta che il gioco si trasforma in attacco provo una sensazione al plesso solare, come se i loro movimenti mi riportassero alla memoria un passato arboricolo.
La giornata è diventata molto calda. Il pranzo si risolve con l’ausilio di un barattolo di crema di arachidi e due pesci acquistati sulla spiaggia. Come un naufrago accendo il fuoco e intaglio uno spiedo di legno - arte africana della sopravvivenza.
La notte si veste di suoni animali e frastuono del vento. Le scimmie intensificano le rumorose cerimonie d’amore e di morte. Nel lento ritmo dell’evoluzione è l’inevitabile sacrificio.
Le onde del lago accompagnano il sonno e in lontananza si sentono i canti dei pescatori al lavoro. Le nenie notturne imbambolano i pesci rendendo mansueto il mare interno. Accendo il fuoco sulla spiaggia come segnale della mia presenza e con lo zaino pronto resto in attesa rischiarato dalle fiamme ondulanti. Nel buio ecco apparire una luce, poi il rumore di un fuoribordo e una torcia elettrica ispeziona la spiaggia per trovare la conferma di passeggeri.
Sulla barca un tappeto di persone dormono coperte da zanzariere e stoffe. Fantasmi che nel sonno affidano il destino al timoniere…
Il maestro elementare tenta di farmi capire il suo mondo: - Con quanta fierezza il mio popolo di tribù diverse, si dipana in sorrisi e colori. Popolo del sole che abita la culla dell’uomo e la savana violenta, la pianura senza pace ma anche senza pentimento, dove animali e alberi hanno saputo adattare esigenze e grandezze. La mia è una terra che dalle capanne di fango non ha avuto il tempo necessario per passare gradualmente al ferro per l’edilizia - building dei colonizzatori. In questi territori di laghi salati e piste sabbiose, le fiere rincorrono la preda per sopravvivere loro stesse al tempo che tenta di fermarle. La nostra guerra quotidiana è contro la siccità, il bracconaggio, i safari di caccia grossa…
La Tanzania è la storia coloniale della Germania, è il ricordo del Tanganika. Terra di pietre preziose, fili colorati dell’artigianato masai, terra di sarti in strada e poveri cenci. E le ciabatte ricavate dai copertoni delle auto sono i nostri calzari nazionali, pedule cucite in strada, strada cucita addosso alla mia gente. La strada è tutto il mondo conosciuto, è la vita, negozio, casa, l’arteria che diviene esangue solo nella notte per lasciare il posto alle ombre delle fiere.
Le parole si dissolvono nell’aria calda mitigata da una musica lontana, il ritmo incita a danzare e smuove i fianchi. Accompagnato da quell’armonia il cielo copula con le nuvole basse.
A Kigoma scopro che volare a Dar es Saalam è troppo dispendioso e decido per il treno; il problema è che occorrerà un giorno e mezzo. Nel tepore meno violento del tardo pomeriggio mi inoltro tra le piantagioni di banane, lungo la pista che costeggia il lago.
Il vecchio africano di fronte al fuoco trasmette parole in silenzio: - Quanto è stato rapinato dalla mia terra primordiale, sgraziandola d’oro, di vite d’uomini e trofei di caccia. Oro di miniere leggendarie. Quanto è grande il vuoto creato dalle scorrerie degli schiavisti, affaristi, religiosi, quanto sconforto avete causato per imporre il vostro mondo evoluto. Ed ora tentate di carpire l’ultimo segreto. Per fortuna a questo mistero pochi sono interessati. E’ il prodotto della semplicità, di questa terra che lotta tra il deserto e le mosche, le piogge e le carestie. Provate a portare nelle corti d’Europa la semplicità. Per noi ricchezza è poter offrire un bicchiere d’acqua.
Il buio avanza nei binari guidato dall’odore delle latrine e dalle parole urlate come potenti tamburi. Nel treno diretto a Dar i bagni sono inavvicinabili e privi di luce, tra una carrozza e l’altra il pavimento bucato costringe a salti azzardati. Le porte dei vagoni restano spalancate. A ogni fermata i ragazzini si divertono ad entrare al volo per poi riuscire con un balzo, altri si appendono per qualche metro e poi saltano per ritornare a far parte del buio circostante. La cena è una cipolla, un pomodoro e un pezzo di pane. Ad Uvinza marciano verso il treno ombre che portano sulla testa lumini a petrolio; trasportano i viveri e i volti ondeggiano alla luce delle fiammelle, mentre le cantilene in swahili pubblicizzano le mercanzie arrostite. Non appena il fischio del treno annuncia la partenza, i lumini in fila indiana ritornano verso il villaggio. Il prossimo treno ripasserà tra due giorni.
Bambini immobili - giovani fili d’erba accanto alla strada ferrata. Si baloccano nell’attesa della novità giornaliera. Il treno potrebbe fuggire in un attimo - come fermarsi per sempre accanto a loro. La progenie d’Africa in una successione di età e di altezze sfila sotto i miei occhi.
Il viaggio è ancora lungo. E ritorna la luce, l’alba e il sole. Fuori dai finestrini, gialli di sporcizia e polvere, l’Africa appare tagliata in due da questa ferrovia simbolo della lotta di indipendenza. La linea ferroviaria per da Dar es Salaam ricorda la storia coloniale tedesca e segue le tracce dei percorsi dei primi esploratori. Il paesaggio è un enorme tavoliere ondulato a tratti interrotto dalla foresta. I baobab in questa stagione s’innalzano scheletrici come ombre naïf nel sogno di un pazzo.
Un’altra sosta. La cantilena dei bimbi annuncia l’acqua – maji – maji - ma i contenitori di plastica e latta arrugginita sono poco invitanti e il fare disattento dei bimbi peggiora ogni cosa. Il sole violento affumica i colori. Le donne zappano la terra nei loro sari colorati, i figli legati alla schiena, alzano lo sguardo verso il treno e se la sosta si prolunga lasciano la zappa, corrono a portare acqua per poi tornare alla terra smossa.
La costa est non è molto lontana, ma purtroppo la sosta a Mpiji si prolunga inspiegabilmente. Scendo insieme a molti passeggeri; la temperatura supera i trentacinque gradi ma per fortuna la vegetazione rigogliosa, di palme da cocco e ananas, offre un po’ d’ombra. Il treno è fuori uso. Non è chiaro che cosa sia successo, ma il guasto è grave. Il tempo trascorre lentamente. Mi rendo conto che non c’è alternativa, non ci sono strade e bisogna solo aspettare. Qualcuno va alla ricerca di legni per accendere il fuoco. Ripartiamo dopo sei ore.
Le donne si muovono sinuose tra le bucce e i sassi con il passo esperto di chi genera.
L’arrivo alla stazione di Dar es Salaam è caotico, la stanchezza aumenta la confusione intorno. La città ostenta palazzoni in stile occidentale ma non riesce a nascondere minimamente l’africanità e la sabbia. Dar es Saalam significa “luogo della pace”, forse una volta, per ora alle quattro del mattino è luogo di bisbigli, ronzii e urla per strada. L’Oceano Indiano è a due passi e il suono di un’autoambulanza mi sorprende, tutto sommato sono arrivato nella civiltà. La città combatte la sabbia e sogna di diventare un grande porto nei prossimi anni, ma non posso dimenticare che con il treno abbiamo attraversato per mezz’ora la periferia della città, dove le capanne sono diventate blocchi di cemento. Per fortuna ogni abitazione ha mantenuto le caratteristiche della campagna e sono circondate da micro-orti con pomodori e banani.
Al porto parte la nave per l’isola di Zanzibar. La bassa marea insabbia le imbarcazioni e lascia scoperta una parte di spiaggia chiazzata dalle alghe, e in quella fascia verde scuro si muovono centinaia di persone che scavano e praticano piccoli fori alla ricerca di molluschi intrappolati. Il porto è un susseguirsi di lamiere che hanno perso la fisionomia di navi vere e proprie, le lettere dei nomi sulle fiancate si intravedono tra i rimasugli di vernice e le fantasiose ramificazioni della ruggine.
Zanzibar è a quarantatré chilometri dalla costa. In origine era abitata dalle popolazioni bantu; il suo nome significa “costa dei neri” ed era conosciuta da egiziani e fenici. Le coste hanno visto approdare navi provenienti da tutto l’Oceano Indiano. Nell’ottavo secolo arrivarono i mercanti arabi e in poco tempo divenne il più importante centro commerciale dell’Africa. La storia dell’isola è legata indissolubilmente alla tratta degli schiavi che qui erano incarcerati prima di essere venduti all’asta.
Zanzibar era uno stato a parte. Nel 1964 avvenne un colpo di stato, messo in atto da un gruppo di militari e il governo li accusò di essere stati addestrati a Cuba. In occidente le notizie furono frammentarie. I rivoluzionari non formarono un governo militare ma cedettero tutte le proprietà alla comunità africana, e togliendo in pratica il potere alla monarchia costituzionale del sultano proclamarono la Repubblica Popolare. Dopo tre mesi l’occidente spinse alla formazione della Federazione della Tanzania, composta dal Tanganika e da Zanzibar. Le tensioni non sono ancora terminate.
Il piccolo traghetto salpa sotto un sole terrificante. A bordo distribuiscono sacchetti di plastica; l’alta struttura del barcone e il mare agitato creano un rollio continuo che mette a dura prova gli stomaci più allenati. Per distogliere i passeggeri un televisore trasmette un filmaccio sangue e horror di terz’ordine in lingua inglese. L’anonimo traghetto si allontana dal fittizio biancore della città. Lontano, indistinte nel baluginare del sole che incide le acque, intravedo i dows, le barche a vela identiche a quelle di secoli passati, combattere le striature di schiuma ribollente.
Arriviamo dopo quattro ore e il profumo di spezie avvolge completamente. Isola fragrante – chiodi di garofano e cannella…
Sono alle prese con il controllo dei passaporti e alla ricerca di un posto per dormire; il buio della sera lascia poco tempo per decidere. Alloggio presso una famiglia, poco fuori città, in una stanza della casa. I suoni domestici e i pianti di bimbi si inoltrano nelle aie delle case, dove le macchie di chiodi di garofano, poste a seccare, formano aiuole profumate.
Il dedalo della città è un insieme di case in rovina, bagni persiani, moschee, la chiesa cattolico-romana di San Giuseppe. Le case a due piani con i balconi decorati e gli ingressi scolpiti si alternano a costruzioni coloniali portoghesi. Piccole strade con negozi arabi e mercanti africani - sonoro d’offerte e contrattazioni.
Al porto scaricano il pesce per venderlo all’asta. Di fronte alle barche una casa restaurata, un vecchio magazzino, i luoghi del mercato degli schiavi, un via vai di caffettani, di sari, di lavoratori neri sudati che a petto nudo trasportano pesi impossibili, galline in semi libertà nel mercato adiacente e poi mucchi di chiodi di garofano. Profumi di fiori, di spezie, frutta che marcisce sotto il sole, autobus di legno, sorrisi e richiami…
Seguo un sentiero che costeggia il mare e attraversa piantagioni di cocco e bananeti, supero a tratti la laguna con la bassa marea. La costa è adornata di mangrovie. Il caldo non perdona e contratto un intruglio di frutta in vecchie bottiglie di birra, la bevanda è fresca e il sapore accettabile. La tettoia di palma è per un po’ di tempo il mio rifugio mentre dalle capanne vicine mi osservano curiosi. Un raccoglitore di cocco richiama la mia attenzione, scende dall’albero e mi offre sorridendo un frutto aperto.
Guest House Malindi. Il pavimento di legno è lucidato con il petrolio per tenere lontano gli insetti. Lei riposa. Il corpo rinfrescato da una doccia. I rumori e gli aromi dell’esterno entrano pigri come leoni appena desti. Assaporo una calma profonda, un’indefinibile felicità. Il suo volto è disteso in un sogno primaverile. Il corpo rilassato nell’aria tiepida che scompone i muscoli e i tendini, alleggerisce le ossa e ne modifica il peso specifico rendendolo tenero e delicato, quasi di gomma. Impercettibili movimenti d’aria smuovono i capelli disciolti e trasformano in reale una presenza che potevo pensare illusoria. La tranquillità è accompagnata dal rumore del ventilatore che fa tanto “tropicale” questo momento. Osservo le ombre nella stanza, e anche la mia figura è delineata da una sagoma più scura impressa nel pavimento. La mia presenza diviene misura della distesa, è metro di uno spazio ristretto e ridimensiona le grandezze infinite di una terra senza limite apparente. L’esterno è abnorme e il mio esserci ininfluente. Quest’assito di legno è la mia savana privata dove non corro il pericolo di perdermi. Lei che dorme è preda e predatore. I corvi urlano il buongiorno e insistentemente gracchiano dalla finestra aperta. Due voci intercalano i passi del corano e il salmodiare è amplificato dalla cassa armonica dei vicoli stretti. La strada riacquista lentamente i rumori dell’ingombrante presenza dell’uomo. Passi, cigolii di carretti, parole. La zanzariera ovatta tutto questo mondo, è una placenta che si riempie di rumori pronti a crescere d’intensità. E da quella rete sottile fuoriesco senza traumi…con il gusto di lei.
Parto diretto ad est, la parte selvaggia dell’isola. Passeggero di un “matatu”, una sorta di camioncino con il cassone di legno, sobbalzo di continuo in una nuvola di polvere. Arrivo a Bwejuu, un villaggio di fronte al mare, dopo aver attraversato foreste profumate. Trovo alloggio in una stanza con una splendida vista sul mare. La stanza è essenziale: un letto con zanzariera e un piano rialzato dal suolo per appoggiare le cose.
La linea increspata dell’orizzonte indica la barriera corallina e la spiaggia immensa stimola a camminare all’infinito senza una meta precisa. Lungo la spiaggia crescono alte palme da cocco. Il sole violento è mitigato un poco dalla brezza. C’è un incessante andirivieni di pescatori che ritornano a piedi dalla barriera con il carico di polpi, conchiglie e pesci. I bambini quando passano vicino offrono sempre qualche cosa.
La marea sale e le onde accarezzano gli alberi - i colori cambiano e così pure i rumori…
Il villaggio vicino è abitato da pescatori. Tra le capanne di legno e foglie di palma un bimbo minuscolo mi guarda incredulo, afferra la mano e mi trascina dal nonno come una preda: - Ho catturato un uomo bianco – sembra dire al vecchio, e il vecchio scuote la testa con un sorriso.
Gli uccelli sono fulmini colorati, i cinguettii spazientiti fanno da controcanto alla nenia della risacca. Nei sentieri le donne vestite con i sari colorati vanno trasportando i secchi colmi d’acqua dolce e l’atmosfera è pervasa da una pace assoluta. Il mare lentamente ritorna smosso da un meccanismo a molla e inghiottisce i vestiti svolazzanti.
Durante il ritorno a Dar il mare è molto agitato e la barca ben presto diviene un lazzaretto. Non appena raggiungo la città, il villaggio di palme e capanne mi sembra lontano un secolo. Vago per il bazar tra sacchi di spezie e collane d’argento. Con una barca raggiungo l’isola di Changu, dove c’è una colonia di tartarughe di terra giganti originarie delle Seychelles e alcuni di questi animali pesano più di cento chili. Le tartarughe sono protette ma i bambini non smettono un istante di cavalcarle. Sull’isola un tempo sorgeva una prigione per gli schiavi, ora l’edificio è un piccolo ristorante.
Sobbalzo tutta la notte, in un’astronave d’ombre sconvolte, verso un punto ignoto del cosmo. Piove e le nuvole basse modificano il panorama rendendolo irreale. Ogni cosa sembra riposare dentro una bottiglia di vetro scuro che attenua colori e rumori. Anch’io sono ovattato, entro nel recipiente fumé e respiro il dolore della separazione. Le giraffe sulla strada per Nairobi danzano dinoccolate.
I masai osservano il tramonto e i miei pensieri ripercorrono le notti buie e sussurranti. Prima o poi dovrò riemergere. Un tuffo nel mondo primitivo a volte si può fare, altre volte si deve.
Osserva questi luoghi e questi mondi
e riconoscendoli scegli dove vorrai rinascere.
Bardo Thodol. Libro dei morti tibetano